S. GIOVANNI BERCHMANS (1599-1621)

Nacque a Diest, in Belgio, il 12 marzo 1599. A causa di una grave malattia che aveva colpito la madre venne affidato alle cure di due zie e poi di un sacerdote. Studiò presso il collegio gesuita di quella città. Divenuto novizio gesuita, nel 1619 si trasferì a Roma per completare gli studi filosofici presso il Collegio romano (l'attuale Università Gregoriana) ma, ammalatosi, morì due anni dopo, il 13 agosto 1621. Fu beatificato da papa Pio IX il 9 maggio 1865 e canonizzato da papa Leone XIII il 15 gennaio 1888.

Questo patrono della gioventù cattolica nacque a Diest, nei pressi di Bruxelles, il 13-3-1599, primogenito dei cinque figli di Carlo, conciatore di pelli e per due volte scabino della città. Appena Giovanni varcò le soglie dell'infanzia fu affidato dal padre a un pio istitutore da cui si fece ammirare quale "miracolo di natura", tanto crebbe amabile, devoto e paziente. Desideroso di portare la talare e la tonsura, domandò ai genitori di passare nel pensionato tenuto da Emmerick, parroco di nostra Signora, sotto la guida del quale edificò la sua vita spirituale sul saldo fondamento dell'innocenza battesimale.
"Se non mi santificherò da giovane, scriverà più tardi, non sarò mai santo". Per raggiungere la perfezione coltivò una tenera devozione verso la Madonna che onorava con fioretti e pellegrinaggi al Santuario di Monteacuto, e una continua unione con Dio. Anche quando mangiava era talmente assorto nelle cose spirituali che i coetanei lo chiamavano "il pellegrino". A dodici anni l'Emmerick lo ammise alla prima Comunione, ma trovò in lui tanta innocenza che dubitò di poterlo assolvere. Dargli un ordine per lui era fargli piacere. Taciturno, non parlava che quando era interrogato e rispondeva con senno. Aspirando al sacerdozio fece il voto di verginità e ogni venerdì cominciò a fare la Via Crucis a piedi nudi.
Alla fine del 1612 Giovanni fu richiamato a casa per la malattia della mamma e le difficoltà economiche. Il padre avrebbe voluto che imparasse un mestiere, ma egli dichiarò che pur di continuare gli studi sarebbe vissuto anche a pane e acqua. Fu allora affidato come domestico al sacerdote Froymont, canonico di Malines, a condizione di poter frequentare come esterno il piccolo seminario. Giovanni per tré anni eseguì i più umili servigi con modestia; per economizzare si adattò a rammendare gli abiti; per studiare sacrificò sui libri le ore notturne.
Nel 1615 i gesuiti aprirono un collegio a Malines. Il Berchmans chiese di essere ammesso alla classe di retorica benché l'arcivescovo stesso cercasse di dissuaderlo vedendo in lui un utile elemento per la sua diocesi. Divenne ben presto amico di tutti, preferito agli altri per la bontà e la pietà. Un solo condiscepolo, invidioso dei suoi successi, gli era avverso e privatamente lo ingiuriava e percuoteva. Poiché nel collegio era stata istituita una Congregazione mariana, Giovanni vi si associò con gioia e fu fedele al regolamento. Alle feste della Madonna si preparava con digiuni; recitava quotidianamente il salterio di S. Bonaventura; si applicava all'orazione mentale in ginocchio e immobile; dopo la comunione faceva tre ore di ringraziamento assistendo a parecchie Messe; pregava nel banco con le mani giunte e senza appoggiarsi o con le ginocchia nude sul pavimento, e dormiva spesso per terra per mortificarsi.
Alla lettura della vita di S. Luigi Gonzaga e delle lettere di S. Girolamo, Giovanni si sentì ispirato a farsi gesuita. Il padre avrebbe preferito che si fosse fatto prete secolare, ma il figlio, che aveva fatto voto di servire Dio nello stato religioso, non si piegò. Anche la madre, che vedeva in lui l'unica speranza della famiglia, gli mandò a dissuaderlo un parente francescano. Dopo averlo ascoltato, il giovane lo mise alla porta dicendo: "Lei può uscire donde è entrato, se il suo zelo non le ispira nulla di meglio da suggerirmi".
Giovanni entrò nel noviziato dei Gesuiti il 26-9-1616, deciso a fare sul serio. A base dei suoi propositi, scrisse: "Pensa a Dio e Dio penserà a te".
Sovente fu udito esclamare: "Dio sia lodato!". Egli volle essere "con i superiori e i padri spirituali tutto candido e sincero, come acqua purissima"; considerarsi nella Compagnia "servo di tutti, non padrone"; comportarsi in essa come un mendico accolto per pietà; soprattutto volle essere un novizio di perfetta osservanza e di preghiera. Faceva fino a sette visite al giorno al SS. Sacramento e alla Madonna. Non era però un devoto selvatico se i suoi compagni lo chiamavano "Fratel Ilario" e "angelo della casa".
Giovanni diceva che i religiosi devono combattere specialmente l'accidia con il fervore, la superbia con le umiliazioni e la gola con la temperanza. Da parte sua si applicava a ogni azione come se fosse stata la più importante. Benché "prefetto" degli altri novizi, per umiliarsi godeva nel portare scarpe o talari logore e nell'esercitare bassi uffici come il pulire le lucerne o far recitare le preghiere ai bambini del catechismo. Alla morte della mamma, il babbo andò a supplicarlo di abbandonare la vocazione religiosa per occuparsi della famiglia bisognosa, ma egli seppe fargli ragionamenti spirituali tanto convincenti che pure lui decise di farsi sacerdote nell'aprile del 1618. In settembre dello stesso anno il Berchmans fu ammesso alla professione alla quale era tanto preparato che il maestro non gli permise neppure di premettervi gli esercizi spirituali. Quando il provinciale, un mese dopo, stabilì di mandarlo a Roma per lo studio della filosofìa e teologia, suo padre, canonico a Diest, era morto da poco. "Io parto contento – dichiarò – perché nulla mi attacca più alla terra e spero di ottennero a Roma la grazia di essere inviato alle missioni della Cina o dell'India".
Appena giunse alla Casa del Gesù dove risiedeva il P. Generale Muzio Vitelleschi, si udì dire: "È venuto un fiamminghetto, che sembra un angelo!" Al collegio romano gli fu assegnata la camera di Luigi Gonzaga. Egli propose: "Qualunque cosa io faccia, la farò di cuore e con tutta l'applicazione. Quello che posso fare adesso, non lo differirò ad altra ora. Fare molto e parlare poco. Chi più fatica, fatica meno".
Rinnovò i voti due volte al giorno. Si manifestò subito perfetto in ogni virtù, anche se si accusava di colpe e di errori che nessuno notava in lui. Lasciò scritto: "Piuttosto morire mille volte che commettere un minimo peccato: schiverò sempre e con tutto l'animo ogni leggera imperfezione.
Piuttosto morire che trasgredire una regola; piuttosto perdere la sanità che venir meno alla minima regola".
Secondo il suo rettore, P. Virgilio Cepari, la sua perfetta osservanza si doveva alla buona natura, all'ordinato modo di vivere, alla custodia della lingua, all'esame di coscienza e all'amore al ritiro. Odiò le singolarità come peste. "La mia massima penitenza – diceva – è la vita comune". A tavola, per esempio, perché non poteva prendere il cacio, se ne astenne senza esigere il cambio, nonostante fosse di buon appetito. Quando soffriva di sonnolenza, durante le prediche, si mordeva le labbra fino a farle sanguinare o si pizzicava le braccia per restare desto. Richiesto come facesse a conservarsi sempre raccolto, rispose: "Con una buona custodia del cuore e una continua mortificazione degli occhi". Difatti non volle mai visitare i giardini di Roma, né assistere a cavalcate, né fissare persone di altro sesso.
I confratelli lo chiamavano "Frate modesto". Meritò di non andare soggetto a pensieri cattivi non solo per la continua custodia degli occhi, ma anche per la disciplina che prendeva tre volte la settimana, il digiuno che faceva il venerdì e il sabato, il cilicio che portava alle feste. Pativa sovente dolori di testa per la continua applicazione agli esercizi di devozione e allo studio. Durante il giorno, benché fosse permesso prendere un po' di riposo dopo pranzo, egli non ne approfittò mai. Scriveva gli appunti delle lezioni con penne usate e su pezzi di carta rifiutati dagli altri. Era in sostanza una copia vivente della regola. Attendeva con applicazione allo studio, in cui riusciva molto bene, sotto lo sguardo della Madonna, che chiamava "Madre sua, Patrona della santità e degli studi".
Egli voleva studiare tutto perché, diceva, "bisogna che un gesuita dilati i suoi desideri e si faccia un cuore così largo da contenere la metà dell'universo". "Nella persona di Giovanni, sentenziò un giorno il P. Cornelio Alapide, il Collegio Romano vede un tipo perfetto di scolastico gesuita". Era il suo motto programmatico: "Amerò la cella". Ne usciva soltanto per ubbidienza e volentieri specialmente quando si trattava di andare a servire qualche Messa. "Voglio farmi tutto a tutti", diceva. E accettò d'insegnare il catechismo ai domestici e nei giorni festivi ai fanciulli dei dintorni. Si sentiva infiammare il cuore ogni volta che poteva far qualche discorso spirituale. Nel luglio del 1621, di ritorno da Santa Maria Maggiore, disse al P. Strada: "Se Iddio volesse levarmi da questa vita, non mi recherebbe nessun fastidio", perché "provava un acceso desiderio di morire per unirsi perfettamente a Dio".
Il 5 agosto ebbe un po' di dissenteria. Il giorno dopo, per disposizione del prefetto degli studi, il santo andò al Collegio dei Greci per argomentare alla disputa di filosofia. Alla sera fu mandato in infermeria con la febbre. Il medico gli riscontrò infiammazione ai polmoni. Il suo declino fu rapido. Dopo aver ricevuto tutti i sacramenti tra le lacrime dei confratelli, disse al P. Virgilio Cepari che non aveva mai commesso un peccato deliberato e trasgredito una regola. Attese la morte con assoluta calma, in preghiera. Morì stringendo al petto i suoi tre tesori: il crocifisso, il libro delle regole, la corona, il 13-8-1621, dopo avere respinto due assalti del demonio. Pio IX lo beatificò il 9-5-1865 e Leone XIII lo canonizzò il 15-1-1888. Le sue reliquie sono venerate a Roma nella chiesa di Sant'Ignazio.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 8, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 117-122
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