S. ERMENEGILDO (+586)

Ermenegildo divenne il capo del partito cattolico, con grande ira di suo padre il quale, mal consigliato da Gosvinda, ricorse a tutti i mezzi perché l’arianesimo prevalesse, guadagnò alla sua causa persino qualche vescovo e condannò alla prigione e all’esilio tutti coloro che, come Leandro, tennero testa alle sue violenze. Durante la lunga lotta tra padre e figlio, costui fu mandato da Ermenegildo a Costantinopoli per implorare l’aiuto dell’imperatore bizantino.

Ermenegildo, patrono della Spagna, era figlio con Reccaredo di Leovigildo, re dei Visigoti e di Teodosia, sua prima moglie. Ignoriamo la data esatta della sua nascita. Sappiamo, però, che fu educato nell’arianesimo, la religione dei padri.
I Visigoti, originari della Scandinavia, nel III secolo erano già scesi sulle rive del Danubio e le coste settentrionali del Mar Nero, dove furono convertiti all’arianesimo da Ulfila (+383). Nato in Germania, nipote di prigionieri cristiani stanziati in Cappadocia, costui fu per oltre quarant’anni il loro vescovo missionario, che li catechizzò con la traduzione in gotico della Bibbia. Quando, incalzati dagli Unni, si stanziarono in Tracia come federati dell’impero (376) erano completamente arianizzati. In quel tempo gl’imperatori Costanzo e Valente cercavano di fare passare per forza come religione di stato la falsa dottrina di Ario (+336).
Dai Goti di Ulfila, l’arianesimo passò come patrimonio nazionale a tutti i popoli germanici orientali che, nel quinto secolo, irruppero entro i confini dell’impero. Anche quando, sotto Teodosio I, venne adottata per legge nell’impero la fede nicena, la chiesa dell’arianesimo germanico continuò a ritenere che il Figlio di Dio era solo simile al Padre, non ugualmente eterno come lui; a ripudiare la speculazione trinitaria e cristologica dei teologi greci; a usare la lingua germanica nelle funzioni liturgiche, a riconoscere al re il potere di nominare i vescovi e convocare i sinodi; a considerare le chiese proprietà private di chi le aveva fatte costruire sul proprio suolo.
Nei Balcani i Visigoti vennero presto ad aspro conflitto coi loro protettori bizantini. Un cattivo trattamento da parte dei funzionari imperiali provocò un sommossa. L’imperatore Valente nella battaglia di Adrianopoli (378) rimase sconfitto e ucciso. Gli sforzi compiuti dal suo successore Teodosio il Grande, come più tardi da S. Giovanni Crisostomo, vescovo di Costantinopoli, per indurre i Visigoti, molto numerosi nell’esercito, ad accogliere la dottrina del concilio di Nicea (325), ebbero scarso successo.
Presso di loro l’arianesimo si mantenne ancora per lungo tempo, quando ormai il popolo, dopo aver percorso, devastando, la Grecia e l’Italia – nel 410 sotto la guida di Alarico saccheggiò Roma – si era conquistata una nuova patria nella Gallia meridionale e nella Spagna (419).
Sorse così il primo regno germanico indipendente sul suolo romano. Leovigildo, sovrano astuto, ariano convinto, trattò i suoi sudditi cattolici ancora col massimo rigore, talvolta anche con crudeltà, perché temeva che minassero la compattezza dello stato da lui governato con regime assoluto. Dopo la morte di Teodosia, egli sposò Gosvinda, vedova di suo fratello Atanagildo e madre di Brunechilde, andata sposa a Sigiberto, re di Austrasia. La loro figlia Ingunda, cattolica molto fervente, fu impalmata nel 579 da Ermenegildo, allevato dal padre con cura nell’arianesimo e associato con Reccaredo al governo del regno (573).
Politicamente Leovigildo era soddisfatto di quel matrimonio in quanto lo legava maggiormente ai Franchi del cui appoggio aveva bisogno per consolidare il suo potere in Spagna. Gosvinda, invece, acerrima ariana, aveva preso a manifestare tutto il suo livore contro la nuora cattolica.
Voleva ad ogni costo che si facesse ribattezzare secondo il rito ariano, ma Ingunda non ne volle sapere anche quando dalla suocera fu afferrata per i capelli, spogliata delle vesti e immersa in una piscina. “Mi basta, le rispose fiera, di essere stata purificata una volta dal peccato originale, con un salutare battesimo e di avere confessato la SS. Trinità una e senza ineguaglianza di persone: ecco ciò che dichiaro di credere di tutto cuore. Mai rinuncerò alla mia fede”. Mantenne non solo il suo proposito, ma si adoperò per convincere suo marito ad abbracciare la fede nicena.
Per porre termine ai frequenti litigi a corte, occasionati dall’appartenenza di Ingunda alla religione cattolica, Leovigildo allontanò Ermenegildo e lo mandò a Siviglia in Andalusia. Quel forzato trasferimento fu provvidenziale perché suo figlio incontrò colui che sarebbe stato il suo catechista e che avrebbe assecondato Ingunda nell’opera della sua conversione: S. Leandro, arcivescovo della città. Egli era nato a Cartagena da una famiglia greco-romana molto pia. Di buon’ora aveva abbracciato la vita monastica prima a S. Claudio di Leon, poi a Siviglia, dove la famiglia si era trasferita. La solida formazione ricevuta lo aveva reso capace di diventare l’artefice dell’avvenire del suo paese nel campo culturale e religioso. Eletto metropolita di Siviglia (579), vi creò una scuola per lo studio del dogma, delle arti e delle scienze, molto frequentata ai suoi tempi. Furono allievi di quell’apprezzato centro di cultura anche i due figli di Leovigildo, ma soltanto sull’erede al trono per il momento Leandro potè esercitare un benefico influsso. Lo indusse difatti a ricevere il battesimo secondo la fede nicena.

Da quel momento Ermenegildo divenne il capo del partito cattolico, con grande ira di suo padre il quale, mal consigliato da Gosvinda, ricorse a tutti i mezzi perché l’arianesimo prevalesse, guadagnò alla sua causa persino qualche vescovo e condannò alla prigione e all’esilio tutti coloro che, come Leandro, tennero testa alle sue violenze. Durante la lunga lotta tra padre e figlio, costui fu mandato da Ermenegildo a Costantinopoli per implorare l’aiuto dell’imperatore bizantino. Lo sventurato padre finì con l’assediare Siviglia (583) per quasi due anni finché il figlio, esaurite tutte le risorse, si mosse per chiedere aiuto ai bizantini che stavano per attaccare la Spagna. Il padre, credendo che suo figlio fosse fuggito, prese d’assalto la città. Gl’imperiali, lasciatisi corrompere da Leovigildo, non gli prestarono l’aiuto promesso motivo per cui si rifugiò a Cordova dove fu fatto prigioniero dal padre e mandato in esilio a Valenza. Lo fece in seguito trasferire in un carcere di Terragona, dove fu decapitato il 13-4-585 per essersi rifiutato di ricevere la comunione dalle mani di un vescovo ariano.
La scomparsa di Ermenegildo cambiò in esilio le legazioni di Leandro a Costantinopoli, durante il quale strinse amicizia con l’apocrisario della Santa Sede, S, Gregorio il Grande (+604) il quale, in seguito alle insistenze di lui, scrisse i Moralia in Job. L’esilio di Leandro non durò a lungo giacché Leovigildo morendo (586) lo raccomandò alla benevolenza di Reccaredo, suo successore (1601).
Appena poté ritornare a Siviglia, Leandro si dedicò alla conversione degli ariani, cominciando dalla famiglia reale. Reccaredo, animato dalla testimonianza di suo fratello, si convertì alla fede cattolica e favorì con tutti i mezzi la conversione del suo popolo. Gosvinda non ne volle sapere. Si pose a capo di una rivolta ariana contro il re, ma quando si vide sconfitta, si tolse la vita.
Reccaredo, dopo aver riportato tre brillanti vittorie sui vescovi ariani sostenuti dal re burgundo Gontrano, convocò il terzo Concilio di Toledo (589) in cui fece la sua professione di fede ortodossa, la consegnò scritta nelle mani dei vescovi presenti e dichiarò che i popoli riuniti dei Goti e degli Svevi ritornavano all’unità politico-religiosa. Suo padre aveva assoggettato questi ultimi prima di morire e l’arcivescovo Martino di Braga (+580) con la sua attività missionaria li aveva confermati nella fede.
L’anno successivo, (590) Leandro apprese che il suo amico Gregorio era stato eletto Sommo Pontefice. Gli mandò le sue felicitazioni, rendendogli noti i progressi della fede cattolica nella penisola iberica. Alle raccomandazioni del papa di intensificare gli sforzi per la dilatazione della Chiesa, egli consacrò il restante della vita a edificare il popolo cristiano, con la pratica della penitenza e la composizione di scritti pieni di celeste dottrina, di cui ci sono rimasti soltanto una regola monastica, destinata alla sorella Fiorentina, e il panegirico pronunciato alla conclusione del concilio toletano, di cui era stato l’anima.
Nell’agosto del 599 S. Gregorio conferì all’amico suo il pallio. Afflitto da diverse infermità, tra cui quella della gotta, Leandro morì poco dopo. Nel governo della diocesi gli successe il fratello S. Isidoro. La festa di S. Ermenegildo nel 1585 fu concessa alla Spagna da Sisto V per intercessione del re Filippo II, ed estesa a tutta la Chiesa da Urbano VIII.

Sac. Guido Pettinati SSP, I Santi canonizzati del giorno, vol. 4, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 184-187
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