La S. Sindone e il falsario

Mario Moroni e Francesco Barbesino, Apologia di un falsario. Un’indagine sulla Santa Sindone di Torino
[Tratto da: http://www.alleanzacattolica.org/indici/ex_libris/barbesinof267_268.htm ]

Francesco Barbesino e Mario Moroni, L’ordalia del carbonio 14, Mimep-Docete, Pessano (Milano) s.d. (ma 1996), pp. 88, s.i.p. (ma £ 10.000)


Mario Moroni e Francesco Barbesino, Apologia di un falsario. Un’indagine sulla Santa Sindone di Torino, Maurizio Minchella Editore, Milano 1997, pp. 96, £ 15.000


Mario Moroni, La Sindone prima del XIV secolo, a cura di Francesco Barbesino, Mimep-Docete Audiovisivi, Pessano (Milano) 1995, videocassetta di 30 minuti + libretto esplicativo di pp. 56, £ 15.000


 


Il riprodursi di fenomeni identici nelle stesse condizioni sperimentali permette di ritenere scientifica la spiegazione della maggior parte degli eventi rilevabili dai sensi umani; quando invece gli avvenimenti stravolgono le leggi di natura, i credenti parlano non a torto di miracolo. Ma a queste categorie è opportuno aggiungerne una terza costituita da eventi definibili altamente improbabili, come per esempio l’immagine di Gesù Cristo deposto nel sepolcro impressa su un lungo telo di lino, che la tradizione cristiana venera da secoli quale preziosa reliquia con il nome di Sacra Sindone.


Il divino sudario non smette di richiamare l’attenzione di studiosi delle più diverse discipline e un buon numero di dilettanti, spesso alla ricerca di semplice pubblicità a buon mercato. La ragione di tanto interesse, oltre agli evidenti motivi di natura devozionale, è attribuibile al fatto che, sottoposto a indagini sistematiche, il sacro telo ha sollevato numerosi quesiti di natura scientifica a diversi dei quali, ancora oggi, non si è in grado di rispondere con certezza. Per esempio, le modalità di formazione dell’immagine.


Tuttavia, anni di indagini multidisciplinari hanno permesso di stabilire alcuni punti fermi sperimentalmente accertati: il fatto che l’immagine dipenda dalla degradazione della superficie di alcune fibre del tessuto e non da colori artificiali di qualsiasi specie; il fatto che le macchie di color rossiccio scuro che appaiono sui polsi, ai piedi, sul torace e in molte altre parti dell’effigie siano con certezza di natura ematica; che la luminosità dell’immagine sia in rapporto matematico con la distanza in verticale fra il lino e il corpo soggiacente avvolto nel telo; e così via.


Naturalmente, non sono mancate le contestazioni; anzi, i detrattori della Sindone hanno ottenuto una grande vittoria, di natura soprattutto propagandistica prima ancora che scientifica, con la datazione di un frammento del tessuto sindonico ottenuta mediante rilevazioni spettrometriche con acceleratori di massa, indicati scientificamente come AMS, Accelerator Mass Spectrometer. Il risultato delle analisi — condotte a partire dal 21 aprile 1988 e rese pubbliche il 13 ottobre successivo nel corso di una conferenza stampa indetta a Torino — ha indicato una data di manifattura del telo sindonico compresa fra il 1260 e il 1390 che è stata immediatamente assunta come prova scientifica inconfutabile della falsità del reperto “creato nel Medioevo”.


A distanza di anni sono stati sollevati molti dubbi sulla correttezza di diverse operazioni precedenti il calcolo e sull’analisi statistica dei risultati ottenuti. Ancora, sulla liceità di applicare il 14C, il carbonio 14, il radiocarbonio — uno dei tre isotopi instabili del carbonio, presente in natura allo stato libero o combinato con altri elementi, che si trasforma nel tempo emettendo particelle radioattive —, a manufatti provenienti da fibre vegetali a base di cellulosa che, nel tempo, degradano rompendo i legami chimici e assumendo carbonio “giovane” sotto forma di gruppi etilenici e carbonilici. Infatti, la precisione della datazione mediante 14C si basa sul presupposto che il campione di materiale da analizzare non abbia, dopo la sua esclusione dal ciclo biologico, alcuno scambio con l’ambiente circostante, che ne altererebbe irrimediabilmente le caratteristiche chimiche.


Per rispondere a molti dei quesiti sollevati dalla questione della datazione con il radiocarbonio, o meglio per presentare in maniera sistematica, ordinata e organica la serie completa dei dati e delle rilevazioni — chimiche, fisiche, archeologiche, storiche, artistiche, e così via — a disposizione circa la Sacra Sindone, Francesco Barbesino e Mario Moroni hanno realizzato alcune opere di alta divulgazione, solidamente basate sulla considerazione delle più aggiornate notizie scientifiche in materia e corredate da supporti fotografici e iconografici utili e piacevoli.


Francesco Barbesino è laureato in ingegneria industriale, sottosezione di chimica, al Politecnico di Milano e ha lavorato per oltre trent’anni come senior scientist presso il CISE, il Centro Informazione Studi ed Esperienze di Milano, partecipando a numerosi programmi multidisciplinari di ricerca in qualità di esperto di materiali, prove materiali e invecchiamento di materiali polimerici. Militante di Alleanza Cattolica, si dedica da diverso tempo allo studio e alla ricerca nel campo sindonologico.


Mario Moroni è impegnato da un ventennio in esperienze e studi riguardanti il sacro lino. Membro della British Society for the Turin Shroud di Londra e del Centro Internazionale di Sindonologia di Torino, è autore di numerose memorie presentate a congressi nazionali e internazionali.


L’ordalia del carbonio 14 analizza gli studi sulla datazione sindonica dell’ottobre del 1988, sfidandone i risultati ritenuti dai suoi apologeti — spesso del tutto acritici — una sorta di “giudizio di Dio” definitivo e irrevocabile. Dopo anni di ricerche interdisciplinari che, nel complesso, confermavano quanto creduto dalla tradizione cristiana sul sacro telo, si è pensato di rinvenire finalmente la prova “assoluta” della non autenticità della reliquia. Il volume si propone allora di esporre dettagliatamente le vicende delle analisi condotte dai Laboratori delle Università di Oxford, in Inghilterra, e di Tucson, nello Stato nordamericano dell’Arizona, coordinati dal dottor Mike S. Tite del British Museum di Londra.


Il primo capitolo, La datazione mediante il radiocarbonio (pp. 5-10), offre — anche ai non specialisti — elementi utili a comprendere come funzionino e come si svolgano i rilevamenti che si prefiggono di datare un reperto mediante l’uso dell’isotopo radioattivo del carbonio, prendendo in esame i Tipi di contatori del carbonio radioattivo (pp. 7-8) e, molto opportunamente, le Possibili cause di anomalia nei risultati (pp. 8-10). Il secondo capitolo, Come si è giunti alla datazione, descrive una minuziosa Cronologia degli avvenimenti (pp. 11-25) che ricostruisce la decisione di sottoporre la Sindone al test del 14C fin dai primi esperimenti e dall’origine remota della prova del 1988. Con il terzo capitolo, Esecuzione della datazione (pp. 27-45), si entra direttamente nel merito del complesso lavoro de Il prelievo (pp. 27-34) del frammento sindonico, de Le analisi (pp. 34-41) e de I risultati (pp. 41-45) “comprovanti”, in modo assai discutibile, la “datazione medioevale” del reperto, la quale — affermano Barbesino e Moroni — “dal punto di vista formale riserva alcune sorprese” (p. 41), oltre al fatto che “anche dal punto di vista scientifico le sorprese non sono poche” (ibidem).


I protagonisti della vicenda, poi, sono complessivamente descritti in maniera forte ed efficace dalle parole con cui gli autori aprono il quarto capitolo, Alcuni dei personaggi (pp. 47-54): “Durante i processi penali che si celebrano negli Stati Uniti d’America accade sovente che uno o più dei giurati vengano ricusati perché sospetti di nutrire pregiudizi nei riguardi dell’imputato. Analogamente, se si fosse condotto un processo alla Sindone, alcuni dei personaggi coinvolti nella datazione sarebbero stati probabilmente rifiutati come giurati” (p. 47). Agli scienziati di dubbia affidabilità a causa di pregiudizi negativi nei confronti dell’”imputato Sindone”, si aggiunge anche S. Em. il cardinale Anastasio Ballestrero, arcivescovo di Torino e Custode della Sindone dal 1982, anno in cui Umberto II di Savoia muore nel suo esilio portoghese affidando al presule del capoluogo piemontese la sacra reliquia, fino a quel momento di proprietà della real casa italiana. Quanto al porporato — osservano gli autori —, “gode fama, certo meritata, di essere un pastore irreprensibile e di alta spiritualità. Tuttavia la nomina a Custode della Sindone, praticamente scontata essendo mons. Ballestrero Arcivescovo di Torino, non è stata tra le più felici. Il prof. [Pier Luigi] Baima Bollone in un recente libro [Sindone o no, SEI, Torino 1990, p. 279] scrive: “Conosco da sempre la posizione sulle origini della Sindone del Cardinale Anastasio Ballestrero: un atteggiamento di distacco proprio di chi ritiene che una fede purificata non abbia bisogno di supporti scientifici”. Si aggiunga il clima di “demitizzazione” in grandissima voga negli anni del post-Concilio negli ambienti sia laici che ecclesiastici e l’eccessiva reverenza che spesso i credenti mostrano nei riguardi della scienza, forse nel timore che la loro fede venga considerata propria di bigotti ormai “superati dai tempi”. In verità mons. Ballestrero non ha mai creduto all’autenticità della Sindone. Lo ha dichiarato in numerose occasioni” (p. 52). Di una si fa stato in un articolo de La Stampa del 14 ottobre 1988 — ripresa anche nel volume Sindone. Un enigma alla prova della scienza (Rizzoli, Milano 1990, p. 117) di Orazio Petrosillo ed Emanuela Marinelli, con una prefazione di Vittorio Messori —, laddove il cardinale afferma: “Non ho mai considerato la Sindone una reliquia. E visti i risultati delle ricerche, forse sono stato profetico”.


Nelle Conclusioni (pp. 55-62), Barbesino e Moroni sollevano una serie di domande pertinenti sul modo in cui sono stati condotti gli esperimenti e sulla forzatura con cui sono stati interpretati e divulgati certi risultati tutt’altro che perfetti. In pagine precedenti, gli autori osservavano che “la mitologia contemporanea considera i “sacerdoti della scienza” persone “al di là di ogni sospetto”, ma la frequentazione delle Scienze non li ha, almeno per ora, liberati dalle conseguenze del peccato originale. E le frodi scientifiche si verificano nel corso della storia più o meno con la stessa frequenza di ogni altro tipo di frode. Ne sono state scoperte di clamorose nel campo della psicologia, della biologia, dell’immunologia, della chimica. Del massimo interesse sarebbe approfondire quella dell’Uomo di Piltdown poiché mostra come anche eminenti uomini di scienza possano perdere il senso critico, confondendo la realtà con i risultati sperati” (pp. 53-54 ), laddove il riferimento è al presunto ritrovamento — il 5 dicembre 1912 a Piltdown, nel Sussex, in Inghilterra — dell’”anello mancante” fra scimmia e uomo che si rivelò essere un falso svelato ufficialmente nel 1953, alla cui eleborazione si prestò anche il padre gesuita paleontologo Pierre Teilhard de Chardin (1891-1955) e a cui credette pure sir Arthur Conan Doyle (1859-1930).


Al termine della propria istruttoria critica, gli autori de L’ordalia del carbonio 14 possono dunque affermare: “D’altronde il “falso medioevale” pone un altro grave problema, al punto che si è parlato di “crisi epistemologica”. Anzitutto […], perché una falsificazione artigianale è assolutamente da escludere; lo dimostrano le ricerche scientifiche precedenti che convergono procedendo da discipline le più diverse. Occorre ribadire che ancora oggi non si è in grado di “produrre” una Sindone identica a quella di Torino. Inoltre il telo contiene molteplici informazioni che non potevano esser né viste né conosciute nel XIV secolo. Infine vi sono numerose testimonianze della Sindone che giungono fino ai primi secoli dell’era cristiana. […] E pertanto o si pone in dubbio il risultato del 14C o si rimettono in discusione decenni di prove e risultati scientifici sostanzialmente convergenti.


“Tutte queste argomentazioni presuppongono naturalmente che l’immagine, nell’imprimersi sul telo, abbia seguito “leggi scientifiche”, quelle che l’esperienza umana ha individuato attraverso i secoli o, in termini religiosi, che Dio abbia agito attraverso le cause seconde. Si è giustamente osservato che “nessun studio scientifico fondato sulle leggi della natura potrà mai eliminare la possibilità che Dio sia intervenuto nella storia per compiere dei miracoli con un potere superiore” [Kennet E. Stevenson e Gary R. Habermas, Verdetto sulla Sindone, trad. it, Queriniana, Brescia 1982, p. 185].


“Proseguendo nella ricerca delle cause naturali, siamo consapevoli che quest’ultima ipotesi, certamente possibile, non può venir scartata a priori. Sarebbe, oltretutto, un atteggiamento… profondamente antiscientifico” (pp. 61-62).


Il volume, ricco e stimolante, si conclude con un Indice dei nomi (pp. 63-66), con una nutrita serie di Immagini (pp. 67-86) e con ringraziamenti (p. 87).


Apologia di un falsario. Un’indagine sulla Santa Sindone di Torino si propone una difesa scientifica del sacro telo, adottando l’artificio della trasposizione letteraria del metodo di dimostrazione matematica per absurdum. Ovvero, quello che procede alla verifica della veridicità del “dato X”, dimostrando l’impossibilità del suo contrario. Gli autori, ricorrono alla categoria dell’”altamente improbabile” proprio per rispondere alla ricorrente domanda sulla possibilità che in una qualche epoca, peraltro difficile da individuare con certezza assoluta, qualcuno abbia fabbricato la Sacra Sindone — così suggerirebbe la datazione mediante 14C dell’ottobre del 1988 —, giacché riprodurre l’una o l’altra delle peculiari caratteristiche del telo sarebbe certamente possibile, ma la presenza simultanea di tutte è altamente improbabile.


Anche l’esperto di statistica di un noto apologo, di cui si narra nella Premessa (pp. 5-7), riteneva possibile che uno scimpanzé, battendo a caso sui tasti di una macchina per scrivere, componesse senza errori un canto della Divina Commedia — una probabilità infinitesima, ma reale —, e tuttavia il giorno in cui questo avvenne fu colto, già dalle prime battute, da una giustificata vertigine. A volte non è necessario invocare il miracolo e, d’altra parte, ogni ricerca scientifica non può che limitarsi al campo dei fenomeni noti. Come detto, anche i credenti che sperimentano i possibili meccanismi di formazione dell’immagine e indagano i numerosi segni che la Sacra Sindone conserva operano nell’ipotesi che, come avviene sovente, Dio abbia agito mediante cause seconde. In ogni caso, un secolo di studi, condotti con un accanimento che non ha eguali nella storia dei reperti archeologici, conferma che le problematiche e le soluzioni sono estremamente complesse. “In verità — affermano comunque gli autori — si manifestano talvolta delle coincidenze del tutto impreviste che, anche se possono trovare una spiegazione nel campo dei fenomeni a noi noti, sembrano strettamente imparentate al miracolo. La Sindone ne è un esempio” (p. 6).


Il volume, dunque, accettando, tra il serio e il faceto, l’ipotesi che sia esistito un “falsario” del lino sindonico, lo descrive come un autentico genio enciclopedico; nell’Introduzione (p. 9), Moroni e Barbesino, vestiti i panni di “avvocati del diavolo”, affermano: “Per secoli i nostri antenati ingenui e creduloni hanno ritenuto, in buona fede, che sulla Sindone che si conserva a Torino nella cappella del Guarini si fosse impressa, per cause naturali o miracolose, la sembianza umana di Gesù crocifisso. Oggi il panorama è mutato” (ibidem).


Ecco, dunque, l’opera di “demitizzazione” intrapresa dagli autori — interpreti di questa morte del “senso comune” sindonico —, i quali, dapprima Alla ricerca della data di nascita (pp. 11-15) del “falsario”, ne svelano il sorprendente profilo umano e professionale. Egli fu Un grande tecnologo (pp. 17-47), capace di cimentarsi in modo impareggiabile con la pittura, con le impronte termiche, con le radiazioni nucleari, con le immagini naturali negative assai prima della scoperta della fotografia e con le variazioni chimico-fisiche provocate dagli incendi. Poi Un grande conoscitore del mondo antico (pp. 49-54), in grado di raccogliere, conservare e disseminare sul telo aromi naturali, terriccio e pollini vegetali antichissimi o introvabili nella sua epoca — il tardo Medioevo ha detto il 14C nell’ottobre del 1988 — e in Europa Occidentale dove egli ha “certamente” operato. Infine Un dotto anticonformista (pp. 55-70), che ha saputo riprodurre con perfetta aderenza al reale — e senza lasciarsi incantare dalle arti figurative della propria epoca —, ma soprattutto in assenza di alcuni mezzi tecnici indispensabili alle realizzazioni, gli effetti provocati su un corpo umano dalla flagellazione e da un casco di spine. Costui sapeva bene poi che, per ottenere risultati perfettamente credibili, i chiodi agli arti superiori di un crocifisso debbono essere confitti nel carpo e non — contro le leggi della natura che impedirebbero al corpo umano di sostenersi, ma come vuole l’iconografia medioevale occidentale — nel palmo delle mani. Conosceva perfettamente l’effetto della sovrapposizione delle gambe di un cadavere con i piedi trafitti da un solo chiodo, laddove un arto sarebbe apparso più breve dando l’illusione di un Cristo “zoppo”; e — esperto della composizione e delle dinamiche biochimiche ematiche umane, prima di ogni scoperta scientifica in proposito — come il plasma e il siero componenti il sangue si scompongano post mortem in “sangue e acqua” (Gv. 19, 34). Inoltre, il “falsario” era un luminare in numismatica antica.


Secondo gli autori, però, Uno spiraglio di luce (pp. 71-80) lo offre appunto la prova del 14C alla quale però reagiscono gli “oscurantisti”, sollevando eccezioni, critiche invalidanti e, forti di una lunga tradizione sperimentale, conclusioni scientifiche di segno esattamente opposto a quella del “falso medioevale”. Nelle Considerazioni finali ma non … conclusive (p. 81), Moroni e Barbesino sostengono che, in materia sindonica, tutti gli “avvocati del diavolo” finiscono per ammutolire quando si tratta di pronunciare il nome di questo inimitabile “falsario” dalle capacità preterumane, ultraumane e sovraumane. Il testo presenta numerosi rimandi fotografici.


Se “falso medioevale” è, come mai esistono abbondanti e incontrovertibili riferimenti all’Uomo della Sindone in epoche precedenti? Moroni, con la cura di Barbesino — smessi i panni da “principi del foro infernale” —, ne offre testimonianza documentale nel documentario La Sindone prima del XIV secolo e nell’opuscolo omonimo che l’accompagna. È impressionante osservare l’alto grado di corrispondenza esistente fra il Volto sindonico e quello dell’affresco ritrovato nelle catacombe romane di Comodilla del secolo IV, quello del monastero di Santa Caterina del Monte Sinai del secolo VI, quello dei mosaici delle cattedrali di Palermo e di Monreale, e quello delle monete auree coniate dagli imperatori Giustiniano II (685-711) e Michele III (842-867), rispettivamente nel 692 e nell’843. Nel primo millennio dopo Cristo, infatti, si constata come l’iconografia cristiana, e in particolare quella bizantina, riproducano costantemente un Volto con le esatte caratteristiche di quello della Sindone: i grandi occhi chiusi, le gote gonfie, la lunga chioma che ricade sulle spalle nascondendo le orecchie, il naso diritto con la punta appiattita, le narici dilatate, i baffi che cadono sulla barba ben ravviata e il ciuffo di capelli sulla fronte sono particolari sempre identici, anche se non sempre tutti contemporaneamente presenti nelle raffigurazioni, che suggeriscono l’esistenza di un originale non di fantasia. Il confronto fra le varie rappresentazioni proposte dalla pellicola viene condotto, in opportuna scala, sovrapponendo per trasparenza le immagini artistiche con quella sindonica, o applicando la tecnica della polarizzazione fotografica che individua il numero di punti delle immagini che mantengono invariate le reciproche distanze, oppure accostando i semivolti destro e sinistro l’uno proveniente dalla Sindone, l’altro da una rappresentazione artistica “ispirata al Volto”.


L’artista di Bisanzio, del resto, aveva ben presente la necessità di aderire a un originale ritenuto autentico: la contrapposizione fra quanti — subendo l’influsso giudaizzante delle prime comunità cristiane — ritenevano il culto delle immagini un ritorno all’idolatria e quanti nell’immagine desideravano venerare Colui che essendo Dio era divenuto vero uomo dotato di un corpo e di un volto propri, contrapposizione sfociata in aperto contrasto durante le lotte iconoclastiche d’Oriente della prima metà del secolo VIII, non lasciava spazio alla fantasia dell’artista. Se un’immagine di Cristo doveva venir rappresentata, questa doveva riprodurre le sembianze storicamente appartenute al vero Volto di Gesù. Nella VI sessione del II Concilio di Nicea — convocato dall’imperatrice Irene (752-803) nel 787 e svoltosi nella Chiesa della Sapienza, era il VII Concilio Ecumenico della Chiesa di Cristo e la sovrana patrocinatrice era favorevole al culto delle immagini —, si stabilì infatti che […] l’icona deve essere un’immagine presentante un’estrema rassomiglianza col prototipo” (cit. nell’opuscolo La Sindone prima del XIV secolo, p. 20). Questa fedeltà si ripresenta quando, per la prima volta, l’imperatore Basilio I detto il Macedone (867-886) fa coniare, nell’869, monete con l’immagine di Cristo a figura intera. Il volto ripropone le caratteristiche sindoniche, ma si nota anche un nuovo particolare: il piede destro è ruotato di 90°. Le ginocchia, fissate nel rigor mortis, risultano una più flessa dell’altra: interpretato come un’anomalia degli arti inferiori di Gesù, questo fatto dà origine alla credenza del Cristo “zoppo” dalla nascita. Già l’affresco delle catacombe romane dei santi Marcellino e Pietro del secolo I presenta la deformazione al piede che in seguito verrà riprodotta sulle monete e nei mosaici dell’impero di Bisanzio, e nelle zone ove si estendeva la sua influenza culturale. Il Cristo “zoppo” è, infatti, presente nei mosaici della basilica di San Marco a Venezia e in una decorazione del Giudizio Universale, risalente a metà del secolo XI, nella basilica della vicina Torcello. A causa di questa errata interpretazione dell’immagine sindonica, nasce la necessità di disporre, in posizione obliqua, il suppedaneo o poggiapiedi della croce. È questa la forma crucis diffusa nel mondo cristiano orientale.


Gli artisti di ogni rango piegavano un tempo la propria arte, costruttoria o figurativa, per essere fedeli al più bello tra i figli dell’uomo (cfr. Sal. 44 [45], 3), le cui fattezze risplendono nella gloria maestosa e misteriosa del Volto della Sacra Sindone.


Marco Respinti