La Proprietà Stabile.

Di P. L. Taparelli d'A. S. J. . 1. Due specie d'impugnatori. – 2. La proprietà stabile è fondata nella natura delle cose – 3. E del terreno. – 4. Durevolezza della coltura. – 5. Analogia tra l'occupazione della proprietà stabile e della mobile. – 6. Ragione del Possesso: qual ne è la base? – 7. Secondo il Bastiat, le forze di natura non sono appropriabili. – 8. Risp. I doni di Dio non tutti si cedono gratuitamente. – 9. Le prove dell'Autore – 10. sono deboli per la società esordiente; – 11. Debolissime per la progrediente. – 12. Altra prova del Bastiat. – 13. Risposta. – 14. Disastro di Rio del Cigno. – 15. Impotenza dell'incredulo nel difendere la proprietà. – 16. Vera base filosofica del possesso. – 17. La riverenza all'ordine: – 18. Prova tratta dalla rivelazione. – 19. Epilogo.

LA PROPRIETÀ STABILE
«La Civiltà Cattolica», 1857, a. 8, Serie III, vol. VI, pp. 417-433

SOMMARIO. 1. Due specie d'impugnatori. – 2. La proprietà stabile è fondata nella natura delle cose – 3. e del terreno. – 4. Durevolezza della coltura. – 5. Analogia tra l'occupazione della proprietà stabile e della mobile. – 6. Ragione del Possesso: qual ne è la base? – 7. Secondo il Bastiat, le forze di natura non sono appropriabili. – 8. Risp. I doni di Dio non tutti si cedono gratuitamente. – 9. Le prove dell'Autore – 10. sono deboli per la società esordiente; – 11. debolissime per la progrediente. – 12. Altra prova del Bastiat. – 13. Risposta. – 14. Disastro di Rio del Cigno. – 15. Impotenza dell'incredulo nel difendere la proprietà. – 16. Vera base filosofica del possesso. – 17. La riverenza all'ordine: -18. Prova tratta dalla rivelazione. – 19. Epilogo.

Stabiliti nei due dialoghi precedenti i primi principii, sopra i quali si fonda generalmente il diritto di proprietà, proseguiremo ora ad inferirne le legittime conseguenze che comprendano, per quanto possono convenire al nostro Periodico, le dottrine più importanti in tale materia. A questo fine trarremo oggi dai principii la teoria della Proprietà Stabile per via di occupazione. In altri articoli poi considereremo la proprietà derivativa, i latifondi e la proprietà minuta, e finalmente i conforti che dal Cattolicismo riceve il diritto dei proprietarii.

§. I.

1. Il fin qui ragionato non discopre, come abbiam detto, se non la prima radice della proprietà: continuiamo la nostra analisi e cominciamo dal derivarne il naturale diritto su i fondi stabili, il quale a certuni parve nulla più che legge umana e positiva imposta per libera volontà del legislatore; ad altri anche peggio; un furto fatto dai proprietarii contro il naturale diritto d'ogni uomo. I primi dissero col Mìrabeau che la proprietà degli stabili allora si conobbe dall'uomo, quando la società la istituì e ne pubblicò per legge l'inviolabilità. Gli altri, deplorando col Proudhon e col Considerant (1) la misera condizione dei proletarii, privati dalla società di quel diritto sulla terra conceduto, uguale a tutti gli uomini, dal Creatore: la Società, gridarono, ha spogliato del loro i quattro quinti dei suoi figli; la proprietà è un latroneccio; la propriété c'est le vol. Come vedete, Mirabeau preludeva a Proudhon togliendo alla proprietà stabile il fondamento di natura: e però chi vuol combattere Proudhon con tutta la falange dei comunisti, dee prima ristorare sulla natural sua base la stabilità della proprietà.

2. Ora questa base qual è? Ella è quella medesima, per cui l'uomo ha diritto ad appropriarsi le cose: il bisogno suo e la natura delle cose medesime: le quali tutte ebbero tali proprietà dal Creatore, che (tranne pochi frutti spontanei di piante e d'animali, somministrati quasi fondo di magazzino ai primordii dei novelli abitatori) tutte abbisognano del lavoro dell'uomo, se debbono soddisfarne le necessità. E così conveniva al disegno cosmico, poiché il Creatore voleva che l'uomo operasse (ut operaretur). Somministrata la materia, ma bisognosa di forma novella: Eccoti, par che dica all'uomo la natura, animali terrestri ed acquatici a iosa; ma convien ricercarli poiché essi fuggono e si rintanano: eccoti metalli e marmi, ma tocca a te scavarli, fonderli, tagliarli: l'acqua scorre a tuo pro, ma non incanalata impaluda e si corrompe a tuo danno; senza raggio di sole non hai né vista né fertilità, ma pensa tu ai necessarii ripari perché soverchio non ti offenda: ogni creatura in somma ha un germe di utilità, ma questo germe non si feconda senza il connubio dell'opera umana. E da questo connubio appunto, da questo innesto della fatica dell'uomo sul fondo di natura vedemmo poc'anzi originarsi ogni proprietà.
La terra si pareggia in questo ad ogni altra creatura: ella ha un principio di utilità; ma questo non si svolge adequatamente senza il concorso del lavoro. Anzi, specialmente dopo la colpa, ella è sempre più pronta a sterpi e triboli onde c'ingombra e punge, che non a frutti e fiori onde ci pasca e diletti. Se dunque non è lecito togliere altrui quel metallo al quale egli diede la forma, o quel lino e quella lana onde si tessea le vesti; se l'opera dell'uomo, immedesimata a quel metallo formato, a quel panno tessuto, grida altamente che ella è cosa di chi la operò; ognun vede che anche la terra, finché conserva l'opera di chi la dissodò e ridusse a coltura, grida perpetuamente, come a padrone, a quell'uomo, dei cui sudori ella è molle e feconda. O togliete alla terra questa necessità che ella ha comune colle altre creature d'essere operata dall'uomo, o concedete all'uomo e guarentitegli inviolabile il diritto che gli compete sopra i suoi sudori.

3. Ma come mai separar la fatica dal terreno coltivato, se anzi non vi ha forse alcuna materia che di tanta e si continua fatica abbisogni per usufruttuarsi? Quanto lavorio di zappe e di aratro! Quanti scavi di fossati e di pozzi! Quanto rimondamento di rampolli parassiti! Quanta cura di siepi e di argini! Quanta profusione di irrigazioni e di stabbio! Tutte le quali fatiche giovano per anni ed anni e darebbero alfine al terreno un valor portentoso e strabocchevole, come nota il Bastiat (2); non così peraltro, che non debbasi più volte nell'anno rinnovarne una parte, se non vuolsi perderne il frutto. Differenza è questa notabilissima fra il lavorio della terra e quello di molte altre sostanze create: le quali ridotte a forma utile conservano quasi intatta la fatica impiegatavi; laddove la terra, ad ogni volger di luna, sembra ridestare l'agricoltore col grido di nuovi bisogni: cotalché un terreno coltivato di lunga mano con amore ed intelligenza chiude veramente in seno quei tesori accumulati che il mitico padre additava simbolicamente ai figli per incitarli a tutto scassare il campo (3).

4. Eppure appunto da questa necessità di coltura assidua nasce in gran parte la guerra dei comunisti contro la proprietà stabile! Vedendo ogni giorno il bifolco curvarsi nuovamente sulla zappa e sull'aratro, a lui attribuiscono tutto il merito della messe raccolta, senza rammentarsi da quanti anni quel terreno si va bevendo gli altrui sudori che gli procacciarono il rigoglio presente. Di che poi inferiscono quelle loro esortazioni ed invettive, animando gli operanti a spogliare gli oziosi, quasi il frutto del terreno dovesse ciascun anno attribuirsi solo a quel braccio che nell'anno stesso lo coltivò. No, non è si avara la natura, né sì severa la giustizia punitrice del primo fallo, che condanni l'agricoltore a ripigliar nuovamente ogni anno come un Sisifo tutto di pianta il suo lavoro: non gli mancherà di che operare giammai; ma gran parte dell'opera si attaccherà perennemente sul suolo, e continuerà, crescendogli le comodità, a rimeritare i primi sudori mitigandone la condanna. Son questi quei sudori che, come ogni altra cosa, gridano perpetuamente al padrone (Res clamat ad Dominum), e che pareggiano la proprietà stabile a qualsivoglia altro possedimento umano.

5. La quale analogia fra le varie proprietà non è forse abbastanza considerata da molti che inveiscono più del dovere contro le ingiurie della sorte, e la disparità delle condizioni sociali. Essi pongono una quasi totale separazione tra chi possiede terra, e chi maneggia qualsivoglia altra materia naturale; senza badare che in fin dei conti codesta terra è materia anch'essa bisognosa di lavoro per acquistar forme utili: e che per la sua stabilità se è vantaggiosa ad una esistenza durevole, ben può riuscire molte volte incomoda e penosa verso una esistenza fuggevole. Ma qual che ella sia o vantaggiosa o incomoda, la proprietà degli stabili è, come abbiamo veduto, esposta quasi all'incanto dalla natura al par d'ogni altra materia, se non al migliore offerente, certo al più sollecito occupatore. E come avrebbe mal garbo un pigro o un dormiglione dolentesi che la beccaccia sia caduta in mano al cacciatore mattinatosi per braccheggiarla; così mal garbo ha colui che tratta da matrigna la natura, perché lasciò anche la zolla esposta alla mano di chi vorrà primo insignorirsene.
– Ma io non tardai per pigrizia.
– Sia pure: sarà dunque sventura e non colpa. Ma pretendereste voi forse eliminare dal mondo presente ogni sventura? Se fu sventura, tocca a voi compensarla: e poiché fra tante materie offertevi dalla natura nel suo banchetto, questo messo fu preoccupato da altri convitati, stendete la mano riconoscente a tanti altri che sopravvanzano, invece di piangere qual danno ingiusto la limitatezza propria di tutto il creato. E questa occupazione dei frutti chi ve la vieta, se non volete poltrire nell'ozio? Ogni lavoro altro non è al trarre dei conti che una specie di occupazione di quei lucri, con cui viene retribuito. Siete bracciante? Il vostro lavoro trae dalla terra altrui con la rendita del padrone anche il frutto che vi sostenta. Siete artigiano? La mercede vi somministra quegli alimenti che altri per voi coltivò. Or quando avete i frutti, di che potete dolervi? Forse che il padrone del terreno si alimenta colla zolla e non piuttosto coi frutti? I frutti e non i fondi sono necessarii: e quando quelli vi vengono, offerti, perché dolervi che vi manchi il terreno? Potreste alla stessa maniera dolervi di non avere in Europa i banani e i datteri, di cui abbonda l'Oriente e l'Egitto. E come sarebbe ridicolo il dirvi sventurato perché in Europa dovete cibarvi di pane e di poma, così è ridicolo il dirvi sventurato, perché traete gli alimenti dall'arte o dal negozio invece di trarli dal terreno o dal capitale.

6. Qui per altro non possiamo dissimulare una lacuna che tuttora apparisce nella dimostrazione del nostro assunto: al quale potrebbe taluno domandarci che si apponga un'eccezione. «Bene sta, potrebbe egli dirci; ogni opera chiama perpetuamente il suo padrone; né noi pretendiamo assolutamente spogliare il proprietario di quei sudori onde fecondò la zolla. Ma né anche voi vorrete negare che passa una gran differenza tra la proprietà del terreno e quella delle altre sostanze da traffico. Da un canto la proprietà del terreno offre commodità inestimabili: l'uomo vi si affeziona, la famiglia vi si radica, il cuore vi si acquieta: né senza gran ragione la felicità domestica venne descritta da quell'agiografo sotto l'emblema dell'uomo che riposa sub vite sua, sub fìcu sua (4). Dall'altro canto il terreno appunto è quello, di cui più irrimediabile è la penuria. Se volete abbracciare l'industria della seta, del lanificio, delle macchine, della costruzione in legno o in mattoni, le materie saranno pronte sempre ai vostri desiderii: o se la penuria se ne facesse sentire, correrà tosto la produzione a riempire quel vuoto. Ma se la terra manca all'aratro, non c'è di meglio, il nuovo arrivato sarà male arrivato: egli vedrà grandeggiare, i possidenti in ampie tenute, senza speranza di partecipare giammai al piacere di chi dice: Questa campagna è mia. Or perché condannare in tal guisa quattro quinti del genere umano e spossessarli degli antichi diritti? E diciamo antichi diritti, perché in origine pescare, cacciare, raccogliere, pascolare era diritto di ciascun uomo in qualunque angolo della terra ei capitasse. Voi lo spogliate di cotesti quattro diritti, e pretendete che si rassegni sotto pretesto che la terra abbisogna di coltura, e che niuno vorrà coltivarla se non è proprietario (5). In verità la rassegnazione che ci chiedete ha dell'eroico! nè a voi può dispiacere che cerchiamo di accomodarla proponendovi una composizione. I proprietarii hanno diritto ai loro lavori accumulati: noi abbiamo diritto a non essere condannati ad un proletariato eterno. Or bene: perché non si potrebbe almeno obbligare ed anche costringere i proprietarii ad accettare un equo compenso delle loro fatiche, e cedere a noi per qualche anno il loro monopolio? Perché! Il perché ve lo darebbe il legista col suo solenne aforismo: perché melior est conditio possidentis. Intendiamo peraltro che chi si briga di ricercare le cause come filosofo, domanderà da noi più innanzi una ragione per giustificare questo stesso aforismo. Per qual ragione melior est conditio possidentis? Giacché ognun vede che i comunisti la vedono tutt'altrimenti che i legisti: gli uomini, dicono essi, son tutti uguali: se dunque i proprietarii hanno goduto finora, per più di sessanta secoli, delle loro terre; ragion vorrebbe che, almeno pagando un compenso, fosse ormai lecito ai nullatenenti l'occuparne il luogo. Il che è appunto l'opposto di quella miglior condizione attribuita ai possidenti. Secondo l'aforismo, costoro perché possiedono debbon continuar nel possesso; secondo la naturale equità (dei comunisti) avendo goduto finora il monopolio delle forze naturali, debbono cedere, a chi ha sofferto, una parte di tal godimento e cessare dal monopolio.

7. A cotesta difficoltà già sanno i lettori come rispondesse in varie parti delle sue opere Federigo Bastiat. «Che state voi a parlare di monopolio? Le forze naturali non entrano per nulla nel valore delle produzioni del suolo: giacché Dio lavora gratis, né l'opera sua può essere venduta dall'uomo. Si vendono le materie, si vende il suolo, si vendono nell'uno e nell'altro le fatiche umane. Ma il lavorio di natura è sempre gratuito; nè può per conseguenza rinfacciarsi ai produttori verun monopolio». L'apologia in favore dei proprietarii, non può negarsi, sarebbe commoda e calzante, se riuscisse a persuadere i comunisti: giacché qual mezzo più sicuro per allontanare i ladri che persuaderli non esservi danaro in cassa? Disgraziatamente le manca per ottenere l'assenso dei comunisti una condizione essenzialissima, ed è la verità.

8. Gratuito il lavoro delle forze naturali! Gratuiti i doni di Dio! Per parte di Dio, sapevamcelo: ma quando Iddio ha ceduto all'uomo gratuitamente il frutto della creazione, asserire che l'uomo lo cede egli pure gratuitamente, questa è pillola difficile ad inghiottirsi da ogni uomo di senno, sia in fatto, sia in diritto. In diritto sarebbe ridicolo l'asserire che i doni di Dio mai non possano mettersi in vendita. E qual cosa potrà mai vender l'uomo che non abbia ricevuto gratuitamente da Dio? In fatto poi qual cosa si vende nel commercio umano, se non appunto quelle virtù naturali che rendono utile la materia posseduta? Spogliate cotesta materia della sua utilità naturale, e ditemi chi mai vorrà pagarla?

9. Così parla, se non erriamo, il senso comune, così parlavano finora gli stessi economisti: e nel contrapporsi al quasi universale consenso quell'autore mostra di comprendere tutto il peso di questa difficoltà (6): ma come dimostra il suo assunto? Egli considera il dominio della terra in tre stadii successivi: nella coltura esordiente, nella progressiva, nella compiuta.
Negli esordii della coltivazione il primo che occupa un terreno (lo direm Gionata coll'autore) indarno pretenderebbe o venderne i frutti o il terreno stesso per maggior somma di quel che valgono le fatiche da lui impiegate. Giacché se pretendesse una giunta, il compratore gli risponderebbe: Qual bisogno ho io delle tue terre? Tante ne sono qui intorno disoccupate! Qui dunque, conclude il Bastiat, la virtù produttiva della terra non ha alcun valore in commercio; giacché se avesse qualche valore, si troverebbe chi vorrebbe pagarla.
Nelle società incivilite, ove la coltivazione è già progredita, vi è maggiore difficoltà, non potendo il compratore rispondere al proprietario: Vi sono terre incolte, ed io andrò a coltivarle. Cionondimeno, continua l'autore, se Gionata volesse far pagare il lavorio di natura, i compratori ricorrerebbero ad altri negozianti o andrebbero in paesi deserti a cercar nuove terre (pag. 289 e segg.). Con tal libertà è chiaro che i proprietarii non possono usurparsi i doni gratuiti di natura (7). Nella società progrediente i servigii dell'agricoltore van dunque soggetti, come tutti gli altri, ai freni della concorrenza: e in quella guisa, che un artigiano ben può farsi pagare la sua fatica, ma non la gravitazione o la elasticità del vapore, con cui lavorò; l'agricoltore può farsi pagare nel suo frumento le fatiche della coltivazione, ma non l'aiuto ottenuto dalla fisiologia vegetale (Ivi).
E così andranno le faccende finché ridotto il globo universo a piena coltura, non vi sarà più un palmo di terren vergine da dissodare. Ma questo, che sarebbe il terzo stadio, quando sarà? domanda l'autore. Sarà il giorno del giudizio, e a questo non debbono pensare gli economisti (8).

10. Tale è in sostanza la prima dimostrazione proposta dall'autore per mettere in sodo quella sua teoria che le forze naturali non entrano per nulla nel commercio umano; A dir vero, egli mostra di sentire che il suo edifizio vacilla a dispetto di tanti puntelli; e torna dopo la pagina 304 a nuovi sforzi. Ma prima di seguirlo in quest'altra carriera, fermiamoci un momento, lettore, a considerare il raziocinio precedente. Nel primo stadio, dice egli, vi sono altre terre da occuparsi: dunque la virtù produttiva della terra è senza valore. Vede il lettore confondersi qui (e lo stesso potrà vedersi in appresso) la mancanza del valore con la mancanza dei compratori: equivoco, la cui fallacia meglio si chiarirà con un altro esempio. Entriamo in un magazzino di frumento e domandiamo al negoziante: Che valore ha questo frumento
– Saran circa 10.000 franchi.
– Voi possedete dunque 10.000 franchi: vorreste imprestarrni cotesta somma?
– Scusate: oggi non posso; non è mercato; nessuno compra il mio grano.
– Dunque è falso che il vostro grano valga 10.000 franchi: la roba che non si può vendere non ha alcun valore.
Che vi sembra, lettore, di tale conclusione? È facile il vedere che il valore, come ogni altra proprietà naturale, può essere e in potenza e in atto, può essere intrinseco ed estrinseco. Certe sostanze sono talmente comuni in natura che, tranne casi eccettuativi, non trovano compratori: e di queste dicasi pure in buon'ora che non hanno valore venale. Altre, essendo più o meno limitate nella presente economia di creazione, trovano naturalmente chi brama impossessarsene, ed hanno per conseguenza un valore naturale almeno in potenza, benché possa darsi il caso che o per soprabbondanza di merce o per mancanza di ricambio non trovisi un compratore. Questo valore in potenza si ridurrà in atto tostoché e il bisogno desti a comprare e il compratore abbia mezzi a pagare.
Or a quale di queste tre classi appartiene il terreno? Ognun lo vede. Vero è che nella società esordiente la merce abbonda e i compratori scarseggiano; ma questa è per la società condizione transitoria, effimera, come per l'uomo la fanciullezza: e però come dal vedere che il fanciullo non parla non s'inferisce che all'uomo manchi la parola; così dal vedere che in una società esordiente la terra non si vende, non deve inferirsi che nella società la terra non abbia valore.

11. Nel secondo stadio, dice l'Autore, il lavoro di natura non si vende; perché se Gionata volesse venderlo, i compratori ricorrerebbero ad altri negozianti o a terre lontane. Questa seconda risposta è ancor più debole della prima. Da un canto suppone quello appunto che dovrebbe provare, cioè che gli altri negozianti non vendono, come Gionata, il lavorio di natura. Ma se tutti vendono ciò che è in pregio presso i compratori, é chiaro che tutti vendono i doni di natura; essendo questi, come abbiam detto, quei che rendono pregevoli le cose venali: seppure il venditore non vogliam dire che dichiari espressamente di non volere il danaro per quel titolo, per cui dai compratori viene pagato. Posto poi che tutti chiedano lo stesso prezzo, mandare i compratori in terre deserte a cercar nuovi campi da dissodare, egli è un farsi giuoco dei compratori e dei lettori. E dite voi, lettor gentile, se per non pagare qualche baiocco di più un sacco di grano, avreste il coraggio di mettervi in cammino con tutta la famiglia per l'Oregon o per le terre Australi!
Il paragone poi che l'Autore soggiunge tra l'artigiano che non si fa pagar la gravitazione ed elasticità e il campagnolo che non dee farsi pagare la fecondità della terra, pecca contro le prime nozioni della teoria del dominio. L'artigiano non si è appropriato e non poteva appropriarsi la gravitazione universale, come l'agricoltore si appropriava il terreno. Ma quando l'artigiano mette a profitto la gravitazione o l'elasticità incatenandola, per così spiegarci, in una qualche sostanza, in un martello (per esempio) o in una molla; allora egli si fa pagare e quella forza naturale da chi vuol comprare il martello o la molla, e i prodotti, che ne derivano nelle opere del fabbro o del macchinista.
Tutti dunque gli argomenti del Bastiat fin qui recati o presuppongono ciò che dovrebbero provare, non vendersi il lavorio di natura, o prendono per nullità di valore nella merce la mancanza dei compratori. Col quale equivoco se si volesse procedere nei famigliari intertenimenti, dovremmo spregiare ugualmente quasi privi d'ogni valore e l'immondezza che tutti ributtano come inutile e il diamante che niuno compra per mancanza di valsente. Non è dunque meraviglia che, dopo coteste risposte, il Bastiat medesimo mal soddisfatto torni a proporsi sotto forme poco diverse la difficoltà medesima (pag. 305) e ne ritenti la soluzione. Ma il secondo argomento non prova meglio del primo.

12. Esso si riduce alla sua teoria del valore, il quale, dice egli, risulta dalla discussione dei due contraenti. Ora i contraenti, in quanto compratori, non badano alle fatiche durate dal produttore, ma a quelle che essi dovrebbero durare per procurarsi la stessa merce. Dunque il valore dipende non dalle forze naturali che sono sempre gratuite, ma dalle fatiche che il produttore ha fatte e che il Compratore dovrebbe addossarsi. Quindi è, prosegue l'autore che il valore del campo, come quello d'ogni altra derrata, va soggetto a mille variazioni secondo mille eventualità diverse che si presentano nella società, quali sarebbero aumento di popolazione e di ricchezza, nuove strade e veicoli agevolanti il commercio ecc. A misura che queste variazioni rendono più lucrosa la terra e son più difficili ad ottenersi altrove, essa acquista maggior valore, e il compratore è disposto a pagarne più caro il prezzo. Non si pagano dunque le forze naturali, ma il servigio che si riceve mercè le fatiche durate dal produttore.

13. Tale ne sembra a un dipresso la seconda risposta del valente economista, il quale peraltro confessa d'avere scritto coteste pagine a tempi rotti e fra mille disturbi (9), che interruppero forse nella sua mente il filo del discorso.
Il quale in verità non veggiamo come possa nulla concludere contro la venalità o l'appropriazione delle forze di natura. Al più esso potrebbe concludere che le varie condizioni sociali possono contribuire ad alzare od abbassare il prezzo: e questo chi è che voglia negarlo? Ma il principio stesso abbracciato dall'autore (pagarsi dal compratore il servigio che riceve e non le fatiche del produttore) prova precisamente il contrario di ciò che l'autore vorrebbe. E che altro pretende il compratore di un campo se non la fecondità? Questo è il servigio che egli vuol pagare; questo è ciò che gli rende cara quella terra, abbia o non abbia costato fatiche al primo padrone. Asserire che il compratore paga ciò che gli rende servigio, ma non paga la fecondità naturale del suolo, la quale è appunto quella che gli rende servigio, egli è un affermare e negare nel tempo stesso la stessa cosa.
Veggiamo ciò che si replicherà: il compratore, dirassi, paga non la fecondità ma la cessione di questa dote ch'egli non potrebbe trovare altrove senza mille fatiche. Ma questo è dar corpo alle astrazioni. Che cosa è cotesta cessione se non l'alienazione di quella terra? E qual pregio avrebbe pel compratore la cessione se non ne trasferisse a lui il possesso e la fecondità?

14. L'ultimo argomento vien tratto dal disastro avvenuto alla colonia di Rio del Cigno nel 1836, ove, al dire del Carey, mille operai incapricciatisi di divenir possidenti abbandonarono i padroni, sotto cui dovevano lavorare, e comprarono ad uno scellino e mezzo il iugero (acre) una estensione di terreno, credendo di trarne ricchezze sfondolate. Ma che? Privi di capitali in danaro e in istromenti, si trovarono ben presto ridotti alla fame, e tornarono, ma indarno, a cercar lavoro dagli antichi padroni, i quali avean veduto perire, abbandonati dai braccianti, utensili e bestiami. Non è dunque la terra che frutta, è il lavoro (pag. 311).
Anche qui vedete, o lettore, quanto sia vano l'argomento. Si sa, la terra non frutta senza il lavoro dell'uomo, e l'uomo non lavora con l'unghie ma con gl'istrumenti, colle sementi, coll'aiuto degli animali. Erano dunque stolidi cotesti braccianti se credevano che bastasse la terra. Ma inferirne che la terra non si paga perché costoro fallirono, è tale argomento che applicato ad ogni altra materia farebbe ridere. Anche il fabbro sprecherà il metallo, anche il pittore sprecherà la tela e colori, anche l'avvocato e il medico sprecheranno fiato e consigli se sono imperiti delle loro professioni. Direm noi per questo che il metallo, i colori, i lavori della mente non hanno valore?

15. Ma sentiamo qui un rimprovero del lungo dimorar che abbiam fatto (eppur quanto avremmo da aggiungere!) nel combattere una dottrina, dobbiam pur confessarlo, molto inferiore al merito di chi prese a difenderla: il quale certamente non vi si sarebbe sì fortemente incaponito, se avesse compreso donde nasca la forza obbligatrice del diritto di proprietà, come d'ogni altro diritto; la quale altro non è finalmente se non la volontà irrefragabile del Creatore. Ma questa non è ragione che provi in faccia a coloro, cui manca il dono della fede: perocché sentono benissimo di non potere imporre cotesta autorità divina alla ragione indipendente che non ammette rivelazioni. Perduto un tale appoggio, il povero economista incredulo vedeva uguale in tutti gli uomini il diritto a possedere e disuguale il fatto del possedimento: vedeva l'abbiente in pericolo, il proletario tumultuante e pronto alla rapina. Come cessare il pericolo? Sperò di acquietare i poveri, persuadendo loro che nulla si possiede dai ricchi. Confessiamolo, lettore, non defensoribus istis tempus eget: e se tante pagine abbiam dato ad impugnare un tal difensore, attribuitelo solo agli altri suoi meriti come economista, alla fama di cui gode presso i colleghi, e specialmente alla importanza della materia e alla novità della opinione. Scartata questa, torniamo or noi alla quistione primitiva. I ricchi sono in possesso: essi godono i frutti di quella produttiva fecondità dei terreni che da secoli e secoli formano il retaggio delle loro famiglie. Al comunista che vorrebbe spogliarli: No, risponde la giustizia legale, melior est conditio possidentis: il possessore: non può spogliarsi, il diritto è inviolabile. Il compenso che voi gli proponete basterebbe, sì, per rendere equa la permutazione se egli vi consentisse; ma non basta per render legittimo lo spogliarlo suo malgrado. Egli è in possesso, e il suo diritto non può collidersi dalla voglia di sottentrare in suo luogo.

16. Tale è la risposta della giustizia naturale espressa dall'aforismo dei legisti. Ma qual è la causa radicale e filosofica, per cui melior est conditio possidentis? A trovarla nell'intime fibre dell'umana natura, sembraci necessario ricorrere a quel principio di carità che forma l'anima della società anche naturale; e che, sublimato dal Redentore ad ordine soprannaturale, è divenuto l'anima della società cristiana. Ricordiamo di avere altra volta derivato da tal principio d'amore il principio di legittimità (10): mercecché così allora ragionammo. La tranquilità nell'ordine è il supremo dei beni, a cui l'animo umano agognar possa in questo pellegrinaggio: e però il primo dovere di chi vuole il bene altrui è non rapirgli quell'ordine in cui egli già riposa. Or chi scuote sui suoi cardini l'autorità governante inforsandone o la persona o il diritto mette in pericolo l'ordine esistente. Dunque chi ama i concittadini e l'ordine, dee riverire l'autorità, in cui questo s'incentra, sacrificando alla conservazione di quello i commodi suoi personali; e da questo dovere di riverenza risulta la legittimità.

17. Or l'argomento medesimo un sottosopra può applicarsi ad ogni possedimento: il quale forma parte di quell'ordine universale, la cui stabilità rende possibile all'uomo procacciarsi i mezzi di compiere qui in terra la missione, per cui vi fu collocato. Come vorreste che l'uomo preparasse e compisse codesti provvedimenti, se da oggi a domani un soprarrivato può gridargli: veteres migrate coloni? L'inviolabilità del possesso è dunque fondata sul rispetto dovuto a quel medesimo principio, onde traemmo nel paragrafo precedente ogni proprietà; vale a dire al debito di provvedere durevolmente ai bisogni che periodicamente rinascono. Se questa provvidenza è propria dell'uomo ragionevole, essa è voluta dalla natura: se a renderla efficace ci vuole una continuità di disegni e di operazioni, la natura concede all'uomo il diritto di non vederli a capriccio altrui interrotti. Ora il diritto di possesso altro non è che il diritto di persistere in codesta ordinata serie di disegni e di opere. Dunque il diritto di possesso è fondato nel debito naturale di tendere al fine, e il violarlo è un togliere altrui quel bene di ordine, a cui naturalmente egli aspira.
E così anche sotto questo aspetto la proprietà stabile mostrasi pariforme con ogni altra proprietà, e invoca a sua tutela quel debito di carità scambievole, base universale, al dir dell'Apostolo, di tutti i precetti, per cui è vietato rigorosamente togliere altrui per proprio commodo quel bene, di cui esso già trovasi ordinatamente in possesso, ed è anzi raccomandato di aumentarlo amorevolmente.

18. La qual legge di possesso, stabilita così con intime ragioni di natura, vien confermata pienamente dai principii rivelati. I quali raccontandoci come i primi uomini vennero da Dio invitati a prendere possesso della terra, due verità ci manifestano contrarie ai due errori dei comunisti. La prima è che per essere proprietario del suolo, conviene positivamente impossessarsene, il che si oppone a quella pretesa proprietà universale, per cui tutti, dicesi, sono padroni di tutto. No: chi dice: subiicite, possidete, non dice: subiecta sunt, possidetis: dà la potenza di divenire padrone di quello che si occuperà, non dà l'atto dell'universale padronanza.
Nel conferire poi la potenza di divenire padrone coll'occupare, il sagro testo confuta l'altro errore del comunismo che niega ogni diritto di proprietà; giacché all'atto è ordinata ogni potenza, non essendo pure escogitabile una potenza senza un atto che ella possa produrre.

19. Raccogliamo ora in pochi periodi ciò che abbiam detto intorno al diritto dei proprietarii sopra gli stabili. Ogni diritto deve aver la forza di legare la volontà: e una tal forza non la troverete certamente mai in tutte le ragioni di utilità materiale né vostra né altrui; potendo voi sempre, e talora anche legittimamente, trascurare l'altrui e calpestare la propria. Se dunque l'economista vi presenta, (come usano il Thiers, il Rossi, il Bastiat ecc.) il diritto di proprietà come un interesse vostro o un interesse comune, avrà dato alla vostra borsa un consiglio di prudenza, ma non avrà imposto alla coscienza vostra un'obbligazione morale.
Quando dunque abbiam presentata la necessità della coltura del suolo, affinché esso fruttifichi a proporzione degli abitanti, l'abbiam recata non come principio d'obbligazione, ma solo come indizio di un ordine voluto dal Creatore nella società. Il Creatore volle che la specie umana coltivasse la terra, poiché non coltivandola, mancherebbero gli alimenti.
Ma non può coltivarsi la terra senza che il sudore del colono vi s'incorpori durevolmente. Dunque non potendosi togliere altrui il frutto di sue fatiche, al primo coltivatore appartiene la terra, come al tessitore la veste, al fabbricatore la casa.
Or chi possiede una materia, l'ha cara non per la sua qualità generica di materia, ma per le sue proprietà specifiche donde trae vantaggio o guadagno. Dunque chi occupa la terra o chi la compra acquista principalmente la proprietà di queste forze e dei frutti che può ritrarne: dei quali egli deve poi servirsi e pel proprio sostentamento e per sovvenimento dei prossimi suoi.
L'ordinare costantemente e provvidamemte cotesti mezzi ai debiti intenti è dovere dell'umana prudenza e conforme all'ordine provvidenziale del mondo. Dunque dalla Provvidenza creatrice è instituito radicalmente il diritto di stabile proprietà su i terreni; benché dai fatti storici venga successivamente specificato e personalmente applicato.
Sebbene dunque possa ammettersi quella primordiale comunione negativa di tutti a tutti i beni della terra, in quanto significa potenza di acquistarne il dominio impiegandovi il lavoro; non può però ammettersi la comunione positiva, ossia il comunismo che toglierebbe a tutti gli uomini il diritto di appropriarsi e di coltivare la terra. Ammesso questo diritto, nasce necessariamente una disuguaglianza nelle proprietà stabili, come dalle forze disuguali delle altre doti e di mente e di cuore e di corpo (intelligenza, coraggio, destrezza ecc,) nascono mille altre disuguaglianze.
E come coteste disuguaglianze vengono giustificate senza più dalla sapienza e dall'autorità del Creatore; così da questa medesima sapienza ed autorità vengono giustificate le disuguaglianze fra i proprietarii, senza che sia necessario rinnegare il senso comune ed escludere dal commercio le naturali proprietà delle sostanze materiali.

NOTE

1 Vedi BASTIAT Harmonies Economiques propriété fonciére pag. 302.
2 J'ose affirmer qu'il n'est pas un champ en France qui vaille ce qu'il a couté, qui puisse s'echanger contre autant de travail qu'il en a exigé pour etre mis à l'état de productivité où il se trouve. Si cette observation est fondée, elle est décisive. Elle ne laisse pas subsister le moindre indice d'iniustice à la charge de la propriété fonciére, (Loc. cit. pag. 310).
3 E' nota la favoletta di quel padre morente che, per incitare i figli a far lo scassato del campo, disse loro esser nascosto gran tesoro nel terreno ereditario, ma non saper dove. Scavarono, e pensate con qual diligenza, e il tesoro che rinvennero fu l'abbondanza della messe.
4 1 Macc. XXIV c. 22.
5 Così a un dipresso il Considerant; il quale peraltro chiede in compenso le droit au travail. Vedi BASTIAT loc. cit. pag. 302.
6 “Si des deux champs placés à coté l'un de l'autre et présentant les memes avantages de situation, l'un est une grasse alluvion, l'autre une sable aride, à coup sur le premier vaudra plus que le second, encore que l'un et l'autre aient pu absorber le meme capital; et à vrai dire, l'acquéreur ne s'inquiète en aucun façon de cette circostance. Ses yeux sont fixés sur l'avenir et non sur le passé. Ce qui l'intéresse, ce n'est pas ce que là terre a coùté, mais ce qu'elle rapportera en proportion, de sa fecondité. Donc cette fécondité a une valeur propre, intrinséque, indépendante de tout travail humain. Soutenir le contraire c'est vouloir faire sortir la legitimité de l'appropriation individuelle d'une subtilité ou plutot d'un paradoxe” (pag. 305). Tale è l'obbiezione che il Bastiat medesimo si propone contro la propria dottrina: vedrà il lettore quanto debolmente egli vi risponda.
7 Cette liberté s'oppose à ce que les propriétaires puissent intércepter à leur profit les bienfaits gratuits de la nature (Ivi pag. 291).
8 Evidemment ce ne sont plus là des problémes économiqués (pag. 295).
9 Ce vaste et important sujèt de la valeur des terres n'est pas épuisé, je le sens, par ce chapitre écrit à bàtons rompus, au milieu d'occupations incessantes (pag. 311).
10 Vedi Civiltà Cattolica. Seconda Serie, volume XII, pagina 130.