Il problema del dissenso ecclesiale

La crisi dell’autorita’ ha colpito anche in seno alla Chiesa, soprattutto attraverso il dissenso dal Magistero. La risposta della Congregazione per la Dottrina della Fede, con la nuova Professio fidei…

L’OSSERVATORE ROMANO, Sabato 11 Luglio 1998

Il problema del dissenso alla luce della


Nota dottrinale illustrativa della formula conclusiva della “Professio fidei”


 


La crisi d’autorità esplosa negli ultimi anni nella società civile ebbe pesanti ripercussioni anche in seno alla Chiesa, espresse soprattutto nel dissenso dal Magistero.


Il problema è stato affrontato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, indirettamente con la pubblicazione della nuova Professio fidei (1989) e, più direttamente, con l’Istruzione Donum veritatis (24 maggio 1990). Il primo documento, a parte la sua funzione pratica di fornire un nuovo testo per emettere la professione di fede nei casi previsti dalla legislazione ecclesiastica, presenta una novità di carattere dottrinale, con l’aggiunta dei 3 commi conclusivi, allo scopo di meglio distinguere l’ordine delle categorie di verità, con il diverso grado di autorità delle dottrine proposte dal Magistero e il relativo tipo di assenso richiesto ai fedeli. Il secondo affronta più espressamente il tema, come appare dal suo stesso titolo “sulla vocazione ecclesiale del teologo” e dalla trattazione esplicita che ne viene fatta nella IV parte.


Una presentazione, per quanto sintetica, dell’Istruzione Donum veritatis, ci porterebbe forse troppo lontano. Anche come premessa al documento che intendiamo illustrare (1), sembra invece opportuno spendere alcune parole sulla Professio fidei. Mentre era stata promulgata con lo scopo di precisare il diverso grado di autorità dei documenti magisteriali e il relativo assenso richiesto, di fatto essa è stata oggetto delle più svariate interpretazioni, di dubbi e esplicite confutazioni, specie per quanto riguarda la categoria di verità contenute nel secondo comma.


Particolarmente significativo è il volume del P. Francis A. Sullivan, Capire e interpretare il Magistero. Una fedeltà creativa (Bologna 1997). Partendo dall’affermazione, ormai comunemente riconosciuta, – del resto sottolineata dalla stessa Domum veritatis (n. 17) – della necessità di applicare i principi dell’ermeneutica anche ai documenti del Magistero (cfr 12-13), egli dichiara espressamente che intende “descrivere i criteri che un teologo dovrebbe seguire per assolvere” il proprio compito di “stabilire il grado di autorità annesso alle varie affermazioni del magistero e il corrispondente grado di risposta ad esse dovuto”. Nello stesso tempo riconosce di non trovare “modo migliore per farlo che commentare la nuova “Formula di professione di fede”” (p. 22).


L’autore passa quindi ad esaminare il tipo di dottrine implicato nei tre commi aggiunti, e il rispettivo livello di risposta richiesto (22-36). In pratica si concentra soprattutto sull’insegnamento della Lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis, che viene da lui collocato fra le verità contemplate nel terzo comma. In un primo momento si dice colpito dal “linguaggio così forte … dell’ultima frase della lettera apostolica”, ma poi, fondandosi sull’assicurazione del Cardinale Ratzinger “che l’intenzione di Giovanni


Paolo II non era quella di parlare ex cathedra”, scrive testualmente: “questa affermazione che esclude l’ordinazione delle donne dovrebbe essere posta in vetta a qualsiasi scala di misurazione del grado di autorità esercitato dai Papi nel loro magistero ordinario” (pp. 31-32). La genericità dell’affermazione viene però esplicitata nella Postfazione: “Allora ritenevo che questo giudizio espresso da Giovanni Paolo II, nonostante il linguaggio estremamente forte da lui usato, appartenesse alla categoria del magistero ordinario del Papa. Ovviamente ciò significava che io non ritenevo che la cosa fosse stata infallibilmente definita dal Papa”. Aggiunge inoltre che in un articolo pubblicato nel giugno 1994 su The Tablet, aveva scritto che gli sembrava “perlomeno dubbio che il giudizio espresso in questa Lettera papale fosse stato infallibilmente insegnato dal magistero ordinario universale” (p. 203).


Nel frattempo la Congregazione per la Dottrina della Fede ha emanato una Risposta a un dubbio (28 ottobre 1995), nella quale si afferma che “la dottrina che esclude l’ordinazione delle donne al sacerdozio fa parte del deposito della fede e che essa è stata infallibilmente insegnata dal magistero ordinario e universale” (2). Lasciato ai biblisti il compito di discutere se effettivamente tale dottrina possa dirsi rivelata da Dio, il P. Sullivan contesta che essa sia stata infallibilmente insegnata. Richiamati, infatti, alcuni esempi di “proposizioni che fino ad un certo momento sembravano costituire l’unamime insegnamento dell’intero episcopato, ma che in seguito all’ulteriore sviluppo della dottrina non fanno più parte dell’insegnamento della chiesa” (p. 204), egli conclude: “La domanda che continuo a pormi è se consta manifestamente che i Vescovi della Chiesa cattolica sono altrettanto convinti di quelle ragioni come lo è evidentemente Giovann i Paolo II e se, nell’esercizio del loro proprio ruolo di giudici e dottori della fede, essi hanno unanimemente insegnato che l’esclusione delle donne dall’ordinazione al sacerdozio è una verità divinamente rivelata alla quale tutti i cattolici sono obbligati a dare un assenso di fede definitivo. A meno che ciò non consti manifestamente non vedo in che modo si possa essere certi che questa dottrina è stata insegnata infallibilmente dal magistero ordinario e universale” (p. 206). Il motivo di tale ossessiva domanda è perché la Congregazione “non ha invocato nessuno” di quei criteri che i documenti ufficiali hanno proposto “per stabilire se una dottrina è insegnata dal magistero ordinario e universale: la consultazione di tutti i Vescovi; l’universale e costante consenso dei teologi cattolici; la comune adesione dei fedeli” (pp. 205-206). In tal modo si dimentica che il valore di un pronunciamento magisteriale non si basa sulle ragion i o sugli argomenti teologici che adduce, ma su un fondamento dottrinale, cosa essenzialmente differente dalle argomentazioni e spiegazioni teologiche.


La Risposta a un dubbio ha voluto semplicemente ricordare che il Romano Pontefice, pur non ricorrendo ad una formula tecnica, facendo tuttavia appello al suo ministero di confermare nella fede i suoi fratelli, ha riaffermato e confermato una dottrina proposta infallibilmente dal magistero ordinario e universale, e pertanto “questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa”. Il Papa non potrebbe dichiarare in maniera così evidente e formale che una dottrina è da considerarsi come definitive tenenda, se non fosse persuaso di proporre infallibilmente una dottrina appartenente al deposito della fede; ma non spetta né a lui né alla Congregazione per la Dottrina della Fede dimostrare che tale dottrina è manifestamente proposta dal magistero ordinario e universale; tale dimostrazione è lasciata piuttosto alla riflessione teologica, che potrà certamente chiarire e approfondire meglio gli argomenti che sostengono il pronunciamento magisteriale, ma non potrà mai metterlo in dubbio e, peggio, criticarlo. In ogni caso non è il consenso costante e universale dei teologi che permette di stabilire se una dottrina è stata o meno insegnata dal magistero ordinario e universale.


Appare dunque evidente la convinzione del P. Sullivan – condivisa però da diversi altri autori, associazioni ecclesiastiche, e perfino da qualche Vescovo – che un insegnamento magisteriale non può considerarsi infallibile se non è definito solennemente da un Concilio o dal Romano Pontefice quando parla ex cathedra; convinzione accompagnata da una non chiara percezione del significato dell’espressione definitive tenenda in rapporto all‘actus definitorius.


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Questo è il contesto che ha dato occasione alla Nota che non si presenta come un nuovo documento aggiunto al testo della Formula di Professione della Fede, ma come una sua illustrazione o interpretazione.


Dopo un breve richiamo alle prime formule di fede, già presenti fin dagli inizi della Chiesa, che si sono sempre più sviluppate nel corso dei secoli, la Nota fa innanzi tutto una precisazione a proposito delle “funzioni specifiche e proprie dei soggetti che in essa operano”. In altre parole ribadisce che “è chiaro che sulle questioni di fede o di morale il soggetto unico abilitato a svolgere l’ufficio di insegnare con autorità vincolante per i fedeli è il Sommo Pontefice e il Collegio dei Vescovi in comunione con lui” (n.4). Si passa quindi alla interpretazione dei tre commi conclusivi della professione di fede, precisandone rispettivamente l’oggetto insegnato, il modo dell’insegnamento e l’assenso dovuto e la censura nella quale incorre chi non presta detto assenso (nn. 5-11).


Una prima differenza riguarda il rapporto delle diverse verità con la divina Rivelazione: quelle del primo comma sono proposte “come formalmente rivelate”, in quanto “sono contenute nella Parola di Dio scritta o trasmessa”; quelle del secondo invece non sono “proposte come formalmente rivelate”, ma come “necessarie per custodire e esporre fedelmente il deposito della fede”. Le une e le altre sono però “insegnate infallibilmente”. Infatti – precisa la Nota – anche le verità del secondo comma “sono necessariamente connesse con la rivelazione in forza di un rapporto storico” o “evidenziano una connessione logica, la quale esprime una tappa nella maturazione della conoscenza, che la Chiesa è chiamata a compiere, della stessa rivelazione”. Ne deriva una conclusione: “Il fatto che queste dottrine non siano proposte come formalmente rivelate, in quanto aggiungono al dato di fede elementi non rivelati o non ancora riconosciuti espressamente come tali, nulla toglie al loro carattere definitivo, che è richiesto almeno dal legame intrinseco con la verità rivelata” (n. 7) (3).


Alla stessa conclusione si giunge dalla precisazione che la Nota fa a proposito dell’atto definitorio o non definitorio: anche se non interviene un atto definitorio ossia “un giudizio nella forma solenne di una definizione” quando il Romano Pontefice conferma una dottrina, dichiarando esplicitamente che essa appartiene al patrimonio del depositum fidei” ed “è insegnata dal Magistero ordinario e universale – che include necessariamente quello del Papa – , essa allora è da intendersi come proposta infallibilmente. La conferma o riaffermazione da parte del Romano Pontefice in questo caso “non è un nuovo atto di dogmatizzazione, ma l’attestazione formale di una verità già posseduta e infallibilmente trasmessa dalla Chiesa” (n. 9).


In conclusione, oltre che con atto strettamente definitorio, una dottrina può essere insegnata anche con un atto non definitorio, come nel caso di una dottrina (o prassi legata ad una dottrina) del Magistero ordinario e universale dei Vescovi in comunione con il Successore di Pietro, che può essere confermata o riaffermata come tale dal Romano Pontefice come Capo del Collegio episcopale, senza ricorrere ad una definizione solenne: anche tale dottrina è insegnata infallibilmente e pertanto è definitive tenenda, per quanto non de fide credenda.


Ne consegue che, anche se è diversa la “natura dell’assenso dovuto alle verità proposte dalla Chiesa come divinamente rivelate (1° comma) o da ritenersi in modo definitivo (2° comma), è importante sottolineare che non vi è differenza circa il carattere pieno e irrevocabile dell’assenso, dovuto ai rispettivi insegnamenti”. L’unica differenza si riferisce alla virtù soprannaturale della fede: “nel caso delle verità del 1° comma l’assenso è fondato direttamente sulla fede nell’autorità della Parola di Dio (dottrine de fide credenda); nel caso delle verità del 2° comma, esso è fondato sulla fede nell’assistenza dello Spirito Santo al Magistero e sulla dottrina cattolica dell’infallibilità del Magistero (dottrine de fide tenenda) (n. 8).


Una conferma di tale interpretazione si trova nel Motu proprio promulgato da Giovanni Paolo II il 18 maggio 1998 (4), nel quale vengono fissate alcune norme aggiuntive ai Codici latino e delle Chiese orientali, appunto allo scopo di imporre espressamente l’obbligo di aderire alle verità proposte definitivamente dal Magistero della Chiesa, con l’indicazione delle rispettive sanzioni canoniche.


Infatti, ovviando ad una lacuna nella legislazione universale della Chiesa relativamente alla categoria di verità espresse nel secondo comma della Professio fidei, viene introdotta una integrazione codiciale nei cann. 750 e 1371, n, 1 del CIC, e nei cann. 598 e 1436 del CCEO.


Si stabilisce pertanto che chi non aderisce a proposizioni insegnate dal Magistero come definitive tenendae, si oppone ad una dottrina della Chiesa cattolica e dovrà essere punito con giusta pena. La Nota esplicita ulteriormente: “Chi le negasse, assumerebbe una posizione di rifiuto di verità della dottrina cattolica e pertanto non sarebbe più in piena comunione con la Chiesa cattolica”.


Nella parte finale (n. 11), la Nota offre, con finalità meramente indicativa e non esaustiva, alcuni esempi di dottrine relative ai tre commi esposti sopra. Ci basti ricordare che fra esse figura la dottrina sulla ordinazione sacerdotale riservata solo agli uomini. Ci sarebbe pertanto motivo per sperare che in questo determinato campo – e naturalmente anche sui diversi temi specifici elencati – venisse a cessare il dissenso che potremmo definire sistematico dopo un così chiaro insegnamento del Magistero. È vero infatti che non si tratta di un nuovo documento, ma semplicemente di una Nota illustrativa, che comunque si inserisce nella serie di interventi che richiamano con insistenza la necessità da parte dei fedeli, e soprattutto dei teologi, di una adesione più cosciente ai pronunciamenti magisteriali, pur nel riconoscimento del loro ruolo insostituibile.


Essa è pur sempre un invito a riflettere, che con l’integrazione apportata ai Codici di Diritto Canonico dal Motu proprio di Giovanni Paolo II acquisisce anche una dimensione legislativa e disciplinare.


ADRIANO GARUTI, O.F.M.
Pontificio Ateneo Antoniano.


 


NOTE


1) Congregazione per la Dottrina della fede, Nota dottrinale illustrativa della formula conclusiva della Professio fidei, L’Osservatore Romano del 30 giugno-1 luglio 1998.


2) In effetti, nella Risposta si afferma che la stessa dottrina “fondata nella Parola di Dio scritta e costantemente conservata e applicata nella Tradizione della Chiesa fin dall’inizio, è stata proposta infallibilmente dal magistero ordinario e universale” e che “si deve tenere sempre, ovunque e da tutti i fedeli, in quanto appartenente al deposito della fede”.


3) Viene anzi fatta una interessante precisazione: “Inoltre non si può escludere che ad un certo punto dello sviluppo dogmatico, l’intelligenza tanto delle realtà quanto delle parole del deposito della fede possa progredire nella vita della Chiesa e il Magistero giunga a proclamare alcune di queste dottrine anche come dogmi di fede divina e cattolica”.


4) Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica data Motu Proprio Ad tuendam fidem, con la quale vengono inserite alcune norme nel Codice di Diritto Canonico e nel Codice dei Canoni delle Chiese Orientali (L’Osservatore Romano del 30 giugno-1 luglio 1998).