Il dialogo interreligioso alla luce dell’economia salvifica

Una presentazione generale – basata fondamentalmente sul Concilio Vaticano II e sul magistero di Giovanni Paolo II – degli elementi fondanti ed essenziali del dialogo interreligioso affinchè esso porti frutti duraturi

IL DIALOGO INTERRELIGIOSO ALLA LUCE DELL’ECONOMIA SALVIFICA


di José Maria Corbelle


Il R. P. Josè M. Corbelle è licenziato in Teologia nella Pontificia Università San Tommaso di Aquino (Angelicum) di Roma. E’ stato rettore del Seminario “Santa Maria, Madre del Verbo Incarnato” di San Rafael (Argentina). Attualmente lavora sulla tesi per il dottorato in Teologia presso lo stesso Angelicum.


 


Nella prospettiva del Giubileo, in quest’anno dedicato al Padre, il Papa ci invita ad approfondire sul dialogo con le grandi religioni (1). Con il presente lavoro, intentiamo presentare in un modo generale gli elementi fondanti ed essenziali del dialogo interreligioso. Menzioniamo anche alcuni problemi e soprattutto vogliamo evidenziare certi principi che sono saldi per la fede cattolica e sono gli unici capaci di fondare una pratica ecclesiale del dialogo interreligioso che sia legittima e porti frutti duraturi. Per cui ci basiamo fondamentalmente sul Concilio Vaticano II e sul magistero di Giovanni Paolo II (2).



1. Il dialogo interreligioso: una nuova attitudine della Chiesa.


1.1. Un po’ di storia.


Un momento intenso nella storia ecclesiale del dialogo, lo segnala Paolo VI con la presentazione, durante lo sviluppo del Concilio Vaticano II -il 6.8.1964-, della sua prima lettera enciclica Ecclesiam suam. Dopo essersi riferito all’approfondimento dell’autocoscienza della Chiesa e del suo rinnovamento, presenta il dialogo come “l’attitudine” propria della Chiesa nelle sue relazioni con il mondo nell’ora presente (3). Consiste in un dialogo di salvezza che ha la sua origine trascendente in Dio (4); e che la Chiesa deve portare avanti con tutti gli uomini, dentro e fuori del proprio ambito, e quindi anche con le diverse religioni (5).


 Il Concilio Vaticano II, dalla sua parte, si è orientato verso una valorizzazione positiva delle religioni –fondamento necessario per la pratica del dialogo interreligioso – ed ha esortato al dialogo e alla collaborazione (6), in un’attitudine di stima e di rispetto sincero per le tradizioni religiose (7).


 


Giovanni Paolo II eredita coscientemente tutta la ricchezza del Concilio Vaticano II, che descrive come “un grande dono per la Chiesa” (8).


 Prese parte al Concilio dall’inizio alla fine; ed è da sottolineare che appartenne al gruppo che preparò il cosiddetto “Schema XIII” che si è poi trasformato nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes. Approfittando della sua esperienza conciliare scriverà più tardi Alle fonti del rinnovamento (9).


 Nel suo libro-intervista Varcare la soglia della speranza, il Papa esprime la necessità di applicare il Concilio:


“…c’è sempre il bisogno di richiamarsi a esso, che è divenuto un compito e una sfida per la Chiesa e per il mondo. Si avverte l’esigenza di parlare del Concilio, per interpretarlo in modo adeguato e difenderlo dalle interpretazioni tendenziose” (10).


 Secondo il parere del Papa questo Concilio continuerà ad essere per molto tempo una sfida ed un dovere, appunto per il suo “stile” proprio e particolare che lo distingue dagli altri concili. Questo consiste in “uno stile ecumenico, caratterizzato da una grande apertura al dialogo, che il papa Paolo VI qualificava come il ‘dialogo della salvezza’”; che non si limita al mondo cristiano ma si lancia in un’apertura universale per “aprirsi anche alle religioni non cristiane, e raggiungere l’intero mondo della cultura e della civiltà, compreso quello di coloro che non credono” (11).


1.2. Alcuni motivi.


 Questa nuova attitudine e impulso al dialogo con le religioni da parte della Chiesa è stata favorita dalla cosiddetta globalizzazione, con la conseguente interrelazione di popoli e culture. In detto contesto è più facile prendere coscienza della realtà del pluralismo religioso, che non è passato inosservato ai padri conciliari.


Nel nostro tempo, in cui il genere umano si riunisce di giorno in giorno più strettamente e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina più attentamente quale sia la sua relazione con le religioni non cristiane (12).


Con il passare degli anni si sono intensificati tali vincoli e l’interdipendenza dei popoli. Alcuni fattori che hanno influito in questo processo sono: la rapidità delle comunicazioni e un accesso maggiore all’informazione; la mobilità e le migrazioni di grandi masse di persone; gli interscambi fra le nazioni dovuti alla tecnologia e all’industria; una politica che pretende di essere sempre più internazionale.


Per quanto riguarda il nostro tema, il nuovo contesto interreligioso pluralista spinge la Chiesa ad una più prudente, chiara e profonda presa di coscienza della sua missione evangelizzatrice in rapporto a questo grande mondo delle religioni.


Presa di coscienza che appare tanto più urgente a seconda di quanto si tenga in considerazione l’importanza delle religioni, nelle quali gli uomini e le donne cercano la risposta alle domande essenziali della loro esistenza umana, particolarmente in ciò che si riferisce alla relazione con l’Assoluto: “Quell’ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, donde traiamo la nostra origine e dove tendiamo” (13). In questo senso le religioni costituiscono quasi “l’anima” più profonda della concezione e del modo di vivere, e quindi della cultura dei popoli. Sono esse delle fonti ispiratrici che influiscono profondamente nella coscienza e nell’agire umano.


All’importanza fondamentale delle religioni, si somma il fatto che sono milioni gli uomini, diremmo la maggioranza, che professano un credo distinto da quello cristiano; inoltre per molti di essi, al dire del Papa, “è concretamente impossibile … accedere al messaggio cristiano”. Situazione che, per quanto si possa prevedere, difficilmente prenderà un’altra svolta in futuro, incluso in quello lontano: “…questa impossibilità pratica sembrerebbe destinata a durare ancora a lungo, forse anche fino al compimento finale dell’opera di evangelizzazione” (14).


Perciò l’urgenza, in seguito a quanto ha iniziato il Vaticano II, di continuare ad approfondire le relazioni della fede cristiana e della Chiesa con le diverse religioni del mondo. Questa è una volontà chiara della Chiesa:


…questa fede però non sfugge, specialmente nel mondo contemporaneo, a un rapporto consapevole con le religioni non cristiane, in quanto in ognuna di esse se esprime in qualche modo “ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino”(NA 1). La Chiesa non sfugge a tale rapporto, anzi, lo desidera e lo cerca (15).


Si tratta di un cammino già iniziato ma di cui resta ancora molto da percorrere. Giovanni Paolo II, riferendosi al “mistero dell’unità”, menziona il decreto Unitatis Redintegratio e la dichiarazione Nostra Aetate e, considerando le due dimensioni rispettive dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso, afferma che questa seconda dimensione è ancora assai nuova” rispetto alla prima (16). In quanto tale contiene degli aspetti che ancora devono essere messi in evidenza, chiariti e valorizzati. D’altra parte, in concreto, non è esenta da problemi che devono essere risolti.


 Il documento Dialogo e Annuncio afferma:


 Solo gradualmente s’inizia a capire in che cosa consista il dialogo interreligioso tra cristiani e seguaci di altre tradizioni religiose, così come è stato delineato dal concilio Vaticano II. In alcuni luoghi la pratica ne è tuttora incerta (…). Un esame più approfondito della questione potrebbe aiutare a incentivare un dialogo (17).


 


2. Il dialogo si “fonda” sull’Economia salvifica Trinitaria.


2.1. Il dialogo interreligioso e la storia della salvezza.


 Il dialogo interreligioso è parte del dialogo di salvezza inaugurato, offerto e stabilito con l’umanità a partire, come fonte prima, da Dio Padre, mediante Gesù Cristo, nello Spirito Santo (18). Si fonda e si fa possibile in una visione ampia dell’opera salvifica della Trinità, che trapassa i confini visibili della Chiesa e che raggiunge i membri e perfino le tradizioni religiose a cui appartengono.


I Padri dei primi secoli, come Giustino, Ireneo, Clemente, “parlano in modo esplicito o in maniera equivalente dei ‘germi’ sparsi dalla parola di Dio tra le nazioni” (19). Questi Padri presentarono una teologia della storia. Una storia che si converte in storia della salvezza nella misura in cui ospita la manifestazione e la comunicazione di Dio agli uomini, il cui vertice si raggiunge con l’incarnazione del Figlio di Dio. Il concilio Vaticano II s’intreccia in questa visione – utilizzando incluso la stessa terminologia – e Giovanni Paolo II continua in questa direzione (20).


 Il concilio Vaticano II afferma in concreto la presenza del “bene” seminato non solo nel cuore degli uomini ma anche “nei riti e nelle culture proprie dei popoli” (LG 17) (21); del “vero e santo” nelle religioni, che riflettono “un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini” (NA 2). Il decreto Ad Gentes utilizza il termine impegnativo di “grazia”: “Ogni elemento di verità e di grazia che già si trovava presso i popoli, quasi come una presenza nascosta di Dio” (AG 9); questo stesso decreto menziona i “germi del Verbo” e indica “quali ricchezze il Dio generoso ha dispensato ai popoli” (AG 11). La realtà di tutti questi valori positivi si deve all’azione e presenza di Dio per mezzo del suo Verbo, sono i suoi germi e il suo riflesso, e dello Spirito Santo che “senza dubbio … operava nel mondo già prima che Cristo fosse glorificato” (AG 4). Il riconoscimento da parte della Chiesa di tutto ciò che di buono ha operato Dio nei popoli e che si trova specialmente condensato nelle religioni, costituisce un impulso ed un invito efficace al dialogo e alla collaborazione (cfr. NA 2) (22).


 La Costituzione Pastorale Gaudium et Spes riafferma la dottrina tradizionale dell’offerta della salvezza di Gesù Cristo a tutti gli uomini di buona volontà per mezzo di cammini misteriosi: “dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo offra a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, a questo mistero pasquale” (GS 22; cfr. LG 16) (23).


Il papa Giovanni Paolo II, come dicevamo, ha continuato in questa stessa linea. Insegna con un vigore ed una chiarezza eccezionali la presenza attiva ed universale dello Spirito Santo. Così per esempio nella sua prima Enciclica Redemptor Hominis, scrive che “la ferma credenza dei seguaci delle religioni non cristiane” è un “effetto anche essa dello Spirito di verità, operante oltre i confini visibili del corpo mistico” (24); o nel discorso alla curia romana dopo la Giornata di preghiera ad Assisi afferma che: “possiamo ritenere che ogni preghiera autentica è suscitata dallo Spirito Santo, il quale è misteriosamente presente nel cuore di ogni uomo” (25). E’ un’azione che comprende ogni tempo e ogni luogo, non solo i duemila anni a partire dalla redenzione di Cristo, poiché “bisogna risalire indietro, abbracciare tutta l’azione dello Spirito Santo anche prima di Cristo, sin dal principio, in tutto il mondo e, specialmente, nell’economia dell’Antica Alleanza”, e nell’attualità “anche ‘al di fuori’ del corpo visibile della Chiesa” (26).


Dobbiamo però considerare che tale azione dello Spirito possa essere interpretata e a volte lo è di fatto, secondo modi che sono essenzialmente contrari gli uni agli altri. Poiché alcuni teologi considerano l’azione di Dio per mezzo del suo Verbo e dello Spirito nelle religioni come un’economia diversa e più ampia di quella che si sviluppa nel ed a partire dal mistero di Gesù Cristo. A queste teorie si riferisce Giovanni Paolo II quando insegna che:


 “Gli uomini, quindi, non possono entrare in comunione con Dio se non per mezzo di Cristo, sotto l’azione dello Spirito. Questa sua mediazione unica e universale, lungi dall’essere di ostacolo al cammino verso Dio, è la via stabilita da Dio stesso, e di ciò Cristo ha piena coscienza. Se non sono escluse mediazioni partecipate di vario tipo e ordine, esse tuttavia attingono significato e valore unicamente da quella di Cristo e non possono essere intese come parallele e complementari” (27).


2.2.Diverse interpretazioni.


Ci sono diverse interpretazioni della comprensione del piano salvifico divino, che costituendo il fondamento del dialogo interreligioso (28), influiranno nella visione circa la funzione soteriologica delle religioni e in conseguenza del luogo e del modo della pratica ecclesiale del dialogo interreligioso nella missione evangelizzatrice della Chiesa. D’altra parte dobbiamo considerare che alcune non sono legittime in quanto contengono “‘idee false’ (EN 80) rispetto al piano divino di salvezza” (29).


Giovanni Paolo II non ha tralasciato di segnalarle in diverse opportunità:


“Eppure, anche a causa dei cambiamenti moderni e del diffondersi di nuove idee teologiche, alcuni si chiedono: E’ ancora attuale la missione tra i non cristiani? Non è forse sostituita dal dialogo inter-religioso? Non è un suo obiettivo sufficiente la promozione umana? Il rispetto della coscienza e della libertà non esclude ogni proposta di conversione? Non ci si può salvare in qualsiasi religione? Perché quindi la missione?” (30).


La Redemptoris Missio menzionerà fra i motivi più gravi del declino dell’interesse missionario alcune teologie erronee delle religioni: “Ma una delle ragioni più gravi dello scarso interesse per l’impegno missionario è la mentalità indifferentista, largamente diffusa, purtroppo, anche tra i cristiani, spesso radicata in visioni teologiche non corrette e improntata ad un relativismo religioso che porta a ritenere che ‘una religione vale l’altra’”, e ricorda quanto scrisse Paolo VI nella Evangelii nuntiandi, circa l’esistenza di “alibi che possono sviare dall’evangelizzazione. I più insidiosi sono certamente quelli, per i quali si pretende di trovare appoggio nel tale o tal altro insegnamento del Concilio (EN 80) ” (31).


 Queste diverse interpretazioni non possono essere tralasciate, poiché si riferiscono a delle realtà vitali (32) per il cristianesimo in quanto alla sua identità e alla sua missione. Si tratta della stessa verità e universalità del cristianesimo, e del valore delle religioni non cristiane. Alcune di queste interpretazioni sono inconciliabili con un’autentica ecclesiologia secondo la visione del concilio Vaticano II (33).


 Inoltre è necessaria la loro considerazione, poiché da esse dipende, come abbiamo già notato, il luogo del dialogo nella missione. Come conseguenza di una comprensione diversa del piano salvifico alcuni riducono la missione al dialogo, e perfino a volte lo comprendono solo a livello di una promozione sociale; altri minimizzano al massimo il dovere dell’annuncio; neanche mancano coloro che non ne comprendono l’importanza.


 Le diverse interpretazioni vanno da – ciò che viene chiamato nello sforzo di schematizzare le posizioni – l’ecclesiocentrismo -ormai difeso da nessuno- fino al soteriocentrismo, passando per il cristocentrismo e il teocentrismo. A loro volta ognuna di queste contiene le proprie affermazioni e le proprie differenze. Cerchiamo di presentare l’elemento comune della concezione del piano divino che sotto giace in alcune di queste teologie del dialogo e specialmente la concezione cristologica che ne occupa il posto centrale.


 Il punto di partenza, soprattutto nella posizione pluralista teocentrica, è poter superare ogni pretesa di esclusività o superiorità del cristianesimo in relazione alle altre religioni, rendendo possibile in questo modo, a livello di parità, un dialogo legittimo e incluso “etico”.


 Nel caso del teocentrismo si accetta un pluralismo di mediazioni salvifiche legittime e vere (34), quindi “parallele” alla mediazione di Gesù Cristo, in rapporto tra loro e complementari. Per esempio scrive al rispetto Paul Knitter :


Secondo questa nuova prospettiva, perché le religioni siano valide non occorre che Cristo sia all’interno di esse; né esse sono necessariamente orientate ad una preparazione della rivelazione cristiana. Questa prospettiva cerca di considerare le altre tradizioni come vie indipendenti di salvezza. Cristo, perciò, non è la causa costitutiva della grazia salvifica, né la chiesa è necessaria alla salvezza. Lo scopo primario della Chiesa non è quello di portare, ma è quello di rivelare e promuovere il Regno di Dio, che è andato formandosi fin dal primo momento della creazione. E poiché può darsi che Dio abbia da dire e da fare più di quanto non sia stato detto e fatto in Cristo, i cristiani entrano in dialogo con altre religioni non soltanto per insegnare, ma per apprendere, possibilmente, quanto non hanno mai appreso prima (35).


 Secondo lo stesso autore “questa comprensione del Cristo che non è contro le religioni, né si trova dentro le religioni, ma sta al di sopra delle religioni, è diventata -credo- una prospettiva comune tra i teologi cattolici oggi. In forme diverse essa è rappresentata da H. Küng, H.R. Schlette, M. Hellwing, W. Bühlmann, A. Camps, P. Schoonenberg” (36).


Per poter affermare l’esistenza di vie salvifiche autonome, con un proprio valore indipendente da Gesù Cristo, è necessario relativizzare, come è ovvio, la verità dell’unicità ed esclusività della sua mediazione (37). In questo modo si lascia aperta la strada all’affermazione di “un’uguaglianza” salvifica delle religioni.


Così questi teologi (i teologi del Cristo insieme alle religioni) stanno proponendo un modello teologico che vede Cristo insieme con altre religioni e altre figure religiose. Ancor più che nel modello precedente, essi insistono nel dire che è possibile / probabile che, con Cristo e il cristianesimo, altre tradizioni abbiano la loro validità propria e indipendente e un loro posto al sole. Come suggerisce il mito della torre di Babele, il pluralismo può essere volontà di Dio. Il verum (la verità) può non essere identico all’unum (l’unità) (Panikkar). Più concretamente e scomodamente, può darsi che il buddismo e l’induismo siano tanto importanti per la storia della salvezza quanto lo è il cristianesimo, oppure che altri rivelatori e salvatori siano tanto importanti quanto Gesù di Nazaret. Ecco, è questo il crocevia (38).


 Si giunge perfino, coerentemente ai propri principi, a relativizzare la concezione cristiana di Dio in quello che ha di dogmatico e vincolante (39).


L’evoluzione nella teologia cattolica delle religioni, menzionata sopra, deve quindi andare al di là del teocentrismo, verso il soteriocentrismo. Tale movimento prende sul serio la critica, giustificata, fatta alle teologie teocentriche: sostenendo che Dio è la base comune per il dialogo i cristiani, implicitamente ma ancora imperialisticamente, impongono le proprie nozioni della Divinità ad altre religioni che (come il buddismo) possono non nutrire alcun desiderio di parlare di Dio o della trascendenza (40).


Torniamo al tema di Gesù Cristo. Alcuni pretendono di fondare la legittimità di una pluralità di mediazioni salvifiche nella differenza tra il Logos – in quanto maggiore- e Gesù. Per questo si dice che Gesù Cristo “è totus Deus, poiché è l’amore attivo di Dio su questa terra, ma non è totum Dei, poiché non esaurisce in sé l’amore di Dio. Potremmo anche dire: totum Verbum, sed non totum Verbi. Il Logos, è più grande di Gesù, può incarnarsi anche nei fondatori di altre religioni” (41).


La stessa problematica si presenta quando “si afferma che Gesù è il Cristo, ma il Cristo è più che Gesù” (42). Così per esempio R. Panikkar “fa uso dell’antica cristologia del Logos e pone l’accento sulla distinzione tra il Cristo universale (o Logos) e il Gesù storico. Certamente, i cristiani possono e devono proclamare che Gesù è il Cristo; ma non possono affermare semplicemente che il Cristo è Gesù. C’è più nel Cristo / Logos che nel Gesù storico. Il Cristo può comparire, in modi diversi ma reali, in altre tradizioni e figure storiche, all’infuori di Gesù” (43).


In questo modo si pensa di facilitare “l’universalizzazione dell’azione del Logos nelle religioni” (44).


Un altro modo di argomentare nella stessa linea della distinzione Verbo-Gesù, consiste nell’attribuire allo Spirito Santo un’azione salvifica universale di Dio, che non porterebbe necessariamente alla fede in Gesù Cristo (45).


Altri autori, sostengono che Gesù è il salvatore costitutivo – giustamente -, ma inteso in un senso specifico –non esclusivo -, cioè in quanto manifestazione decisiva di Dio e quindi garanzia della multiforme automanifestazione ed autocomunicazione divina all’umanità. Ossia una sola Economia divina ma con delle molteplici modalità di autocomunicazione di Dio per mezzo del Verbo e dello Spirito, modalità che devono essere considerate in relazione fra loro, che convergono nell’assoluto Mistero divino (46). Nonostante la funzione insostituibile dell’evento Cristo nel disegno divino “esso non può tuttavia mai essere preso isolatamente, ma deve essere sempre visto all’interno della molteplice modalità dell’autorivelazione e dell’automanifestazione divina per mezzo del Verbo e dello Spirito” (47).


In questa prospettiva entra in gioco nuovamente la mediazione unica ed universale di Gesù Cristo, poiché si afferma la sua relatività e limitazione in rapporto ad una rivelazione divina per mezzo di altre figure:


Come la serietà del dialogo proibisce di ammorbidire il tono delle convinzioni profonde che caratterizzano le due parti, così la sua apertura richiede che ciò che è relativo non venga assolutizzato, vuoi per incomprensione, vuoi per intransigenza. In ogni fede e convinzione religiosa vi è il rischio, ed un rischio reale, di assolutizzare il relativo. Ne abbiamo visto un esempio concreto nel cristianesimo a proposito della ‘pienezza’ della rivelazione in Gesù Cristo. Questa pienezza – abbiamo messo in evidenza- non è quantitativa, ma qualitativa: non una pienezza estensiva ed onnicomprensiva, ma una pienezza di intensità. Essa non si oppone in alcun modo alla natura limitata della consapevolezza umana di Gesù, e tanto meno, dunque, a quella della rivelazione cristiana espressa in una cultura particolare, relativa. Tale pienezza non esaurisce – né lo potrebbe – il mistero del Divino; e neppure nega la verità della rivelazione divina per mezzo delle figure profetiche di altre tradizioni religiose (48).


Questo A. cita immediatamente Cl. Geffré che afferma con chiarezza, nonostante la “non dissociazione” del Verbo eterno e del Verbo Incarnato, un’economia del Verbo più ampia – ed in conseguenza distinta ed ‘al di fuori’, nonostante la sua interrelazionabilità- di quella di Gesù Cristo:


Perché mai si dovrebbe pensare che soltanto un teocentrismo radicale possa far fronte alle esigenze del dialogo interreligioso? Sembra che una cristologia approfondita possa spalancare strade più feconde, capaci di rendere giustizia allo stesso tempo alle esigenze di un vero pluralismo e all’identità cristiana. Senza produrre una rovinosa dissociazione fra il Verbo eterno e il Verbo incarnato, è legittimo…considerare l’economia di quest’ultimo come il sacramento di un’economia più vasta, quella del Verbo eterno, che coincide con la storia religiosa dell’umanità (49).


 Con la risposta di un Cristo sempre costitutivo della salvezza, ma nello stesso tempo relativo, non esclusivo e relazionale, si vuole superare l’obiezione di un’impossibilità per il cristocentrismo di un autentico dialogo senza dover ricorrere ad un teocentrismo. Si pretende salvare in questo modo l’impatto universale dell’evento salvifico di Gesù Cristo ma in rapporto ad un’Economia che lascia posto ad altre figure salvifiche e tradizioni religiose dove Dio è anche presente ed attivo per mezzo del Verbo e dello Spirito (50).


2.3.Un unico piano di salvezza il cui centro è Gesù Cristo.


Il Papa si riferisce in modo particolare a queste posizioni nella Redemptoris Missio che secondo A. Amato costituisce la “magna carta della missione nella Chiesa contemporanea”, e che contiene delle affermazioni che “offrono precise linee di soluzione a problematiche e interrogativi sorti recentemente nell’ambito del dialogo teorico-pratico tra cristianesimo e religioni non cristiane” (51).


La Redemptoris Missio nel contesto della missione evangelizzatrice della Chiesa, nella sua specificità “ad gentes“, insegna chiaramente che per la fede cristiana, è impossibile realizzare una separazione tra il Verbo e Gesù Cristo, che è ontologicamente una persona unica e indivisibile: il Verbo incarnato. Dello stesso modo non si può parlare di un Gesù – della storia- diverso dal Cristo –della fede-:


 E’ contrario alla fede cristiana introdurre una qualsiasi separazione tra il Verbo e Gesù Cristo. San Giovanni afferma chiaramente che il Verbo, che “era in principio presso Dio”, è lo stesso che “si fece carne” (Gv 1,2.14): Gesù è il Verbo incarnato, persona una e indivisibile. Non si può separare Gesù da Cristo, né parlare di un “Gesù della storia”, che sarebbe diverso dal “Cristo della fede”. La chiesa conosce e confessa Gesù come “il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,6): Cristo non è altro che Gesù di Nazaret, e questi è il Verbo di Dio fatto uomo per la salvezza di tutti. In Cristo “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9) e “dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto” (Gv 1,16). “Il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre” (Gv 1,18), è “il Figlio diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione…Piacque a Dio di far abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, pacificando col sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli” (Col 1,13-14.19-20). E’ proprio questa singolarità unica di Cristo che a lui conferisce un significato assoluto e universale, per cui, mentre è nella storia, è il primo e l’ultimo, il principio e la fine” (Ap 22,13) (52).


Partendo dalla singolarità unica ontologica di Cristo, accogliamo il suo significato assoluto ed universale, che fa di Lui, l’unico Salvatore (53) e il centro della storia della salvezza, al quale si ordina tutto e “’nel quale gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato a sé tutte le cose’ (NA 2) ” (54).


 Essendo Gesù Cristo il centro della storia della salvezza, l’opera universale dello Spirito si realizza da sempre unita al mistero dell’incarnazione e della redenzione (55).


Ma, seguendo questo motivo del Giubileo, non è possibile limitarsi ai duemila anni trascorsi dalla nascita di Cristo. Bisogna risalire indietro, abbracciare tutta l’azione dello Spirito Santo anche prima di Cristo – sin dal principio, in tutto il mondo e, specialmente, nell’economia dell’Antica Alleanza. Questa azione, infatti, in ogni luogo e in ogni tempo, anzi in ogni uomo, si è svolta secondo l’eterno piano di salvezza, per il quale essa è strettamente unita al mistero dell’incarnazione e della redenzione, che a sua volta esercitò il suo influsso nei credenti in Cristo venturo. Ciò è attestato in modo particolare nella Lettera agli Efesini (cfr. Ef 1,3-14) (56).


 L’economia dello Spirito non è alternativa a quella di Cristo, come neppure esiste un vuoto o una separazione tra il Cristo e il Logos, né a livello ontologico, né come conseguenza a livello dell’economia. Non ci sono diverse economie salvifiche: quella del Verbo – nella sua autocomunicazione nella storia religiosa dell’umanità- e quella realizzata in Gesù Cristo; né quella dello Spirito diversa da quella di Gesù Cristo (e del Verbo). Tutta l’opera della Trinità, passa attraverso la mediazione di Gesù Cristo (57). Ciò che lo Spirito – Persona – Amore e Dono, in cui Dio uno e Trino si autocomunica agli uomini – ha operato ed opererà nei popoli, nelle culture e nelle religioni lungo i secoli, anche se in diversi modi, ha il suo centro in Gesù Cristo ed è in relazione a Lui:


Questo Spirito è lo stesso che ha operato nell’incarnazione, nella vita, morte e risurrezione di Gesù ed opera nella Chiesa. Non è, dunque, alternativo a Cristo, né riempie una specie di vuoto, come talvolta s’ipotizza esserci tra Cristo e il Logos. Quanto lo Spirito opera nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e religioni, assume un ruolo di preparazione evangelica (cfr. LG 16) e non può non avere riferimento a Cristo, Verbo fatto carne per l’azione dello Spirito, “per operare lui, l’Uomo perfetto, la salvezza di tutti e la ricapitolazione universale (GS 45; DV 54) (58).


 Per tanto, la via della salvezza passa sempre per Gesù Cristo.


“Quanto sopra ho detto non giustifica però la posizione relativistica di chi ritiene che in qualsiasi religione si possa trovare una via di salvezza, anche indipendentemente dalla fede in Cristo Redentore, e che su questa ambigua concezione debba basarsi il dialogo interreligioso. Non è qui la soluzione conforme al Vangelo del problema della salvezza di chi non professa il Credo cristiano. Dobbiamo invece sostenere che la strada della salvezza passa sempre per Cristo, e che quindi spetta alla Chiesa e ai suoi missionari il compito di farlo conoscere ed amare in ogni tempo, in ogni luogo e in ogni cultura. Al di fuori di Cristo non “vi è salvezza”. Come proclamava Pietro davanti al Sinedrio, fin dall’inizio della predicazione apostolica…” (59).


Questo vale anche per tutti gli uomini, incluso per quelli che ignorano il vangelo:


 “E’ importante sottolineare che la via della salvezza percorsa da quanti ignorano il Vangelo non è una via fuori di Cristo e della Chiesa. La volontà salvifica universale è legata all’unica mediazione di Cristo. Lo afferma la Prima Lettera a Timoteo: “Dio nostro Salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio, e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti” (1 Tm 2,3-6). Lo proclama Pietro quando dice che “in nessun altro c’è salvezza”, e chiama Gesù “testata d’angolo” (At 4,11-12), ponendo in evidenza il ruolo necessario di Cristo a fondamento della Chiesa” (60).


 I cristiani sono coscienti di questo, gli altri uomini lo ignorano, ma la salvezza sempre si realizza per l’azione dello Spirito che è lo Spirito di Cristo e per la partecipazione al mistero pasquale.


Le religioni aiutano i loro membri, attraverso il bene seminato in esse dallo Spirito – i germi del Verbo- a rispondere positivamente alla chiamata di Dio (61).


Cristo è venuto nel mondo per tutti questi popoli, li ha redenti tutti e ha certamente le Sue vie per giungere a ciascuno di essi, nell’attuale tappa escatologica della storia della salvezza. Di fatto, in quelle religioni, molti Lo accettano e molti di più hanno una fede implicita (cfr. Eb 11,6) (62).


 


3. Il dialogo interreligioso e la missione evangelizzatrice.


3.1.Il dialogo interreligioso, “parte” della misione evangelizzatrice.


La Chiesa approfondendo il suo essere sacramento universale di salvezza (LG 48) e partendo da una visione del mondo “come di una ‘mappa’ di varie religioni” (RH 11), in consonanza alle urgenze, necessità e sensibilità presenti nel mondo contemporaneo, rinnova l’impegno della sua missione evangelizzatrice, caratterizzata da un’attitudine di apertura e di dialogo.


Il fondamento, come già abbiamo segnalato, lo costituisce il piano di Dio, per cui:


Dio chiama a sé tutte le genti in Cristo, volendo loro comunicare la pienezza della sua rivelazione e del suo amore; né manca di rendersi presente in tanti modi non solo ai singoli individui, ma anche ai popoli mediante le loro ricchezze spirituali, di cui le religioni sono precipua ed essenziale espressione, pur contenendo ‘lacune, insufficienze ed errori’ (63).


 Alla luce di questa economia salvifica, considerata in quanto dialogo di salvezza di Dio con tutti gli uomini, si può acquisire una concezione più ampia della missione evangelizzatrice della Chiesa, di cui forma parte il dialogo interreligioso.


 Quest’affermazione, nel modo in cui viene espressa, è un’acquisizione importantissima del magistero di Giovanni Paolo II per la teologia del dialogo interreligioso, ricca di virtualità e conseguenze.


 Il Papa vi si riferisce in diverse opportunità. Nella plenaria del Segretariato per i non cristiani, in occasione dello studio sul tema “Missione e Dialogo” che la plenaria aveva approfondito dando origine al documento “L’atteggiamento della Chiesa di fronte ai seguaci di altre religioni. Riflessioni e orientamenti su dialogo e missione” del 10.5.1984, ha insegnato che “il dialogo si inserisce nella missione salvifica della Chiesa; per questo è un dialogo di salvezza” (64). Ripete poi la stessa idea, sempre in una riunione con suddetta plenaria, il 28.4.1987, questa volta nel contesto dell’elezione del tema “Dialogo e Annuncio del Vangelo” per essere studiato da questo Segretariato (65) e dice che “se il dialogo è un elemento nella missione della Chiesa, la proclamazione dell’azione di salvezza di Dio nel nostro Signore Gesù Cristo è un altro” (66). Infine menzioniamo il testo più importante contenuto nella lettera enciclica Redemptoris missio del 7.12.1990: “Il dialogo interreligioso fa parte della missione evangelizzatrice della chiesa” (67).


Se il dialogo interreligioso forma parte della missione evangelizzatrice della Chiesa, si derivano due conseguenze fondamentali:


– che il dialogo partecipa allo stesso fondamento della missione evangelizzatrice, cioè l’opera salvifica Trinitaria, e consiste quindi in un dialogo di salvezza. Mediante lo sviluppo del dialogo interreligioso la Chiesa continua e collabora con il dialogo salvifico divino (68).


– che il dialogo interreligioso partecipa in modo intrinseco allo stesso ed unico dinamismo della missione evangelizzatrice, che tende alla comunicazione della verità salvifica; inquadrando precisamente la sua relazione con l’annuncio e con le altre componenti di quest’unica missione ecclesiale unitaria e complessa allo stesso tempo.


3.2. Elementi integranti del dialogo interreligioso:


Il contatto della Chiesa con il mondo delle religioni, fondato sulla presenza universale dello Spirito, si deve convertire in dialogo. Questo dialogo significa in modo più generale un’atteggiamento di rispetto e di amicizia, che deve imbevere tutta la missione evangelizzatrice (69), cioè uno ‘spirito dialogico’.


In senso più specifico, quando si parla di dialogo interreligioso come parte della missione evangelizzatrice, s’intende “‘l’insieme dei rapporti interreligiosi, positivi e costruttivi, con persone e comunità di altre fedi per una mutua conoscenza e un reciproco arricchimento’ (DM 3), nell’obbedienza alla verità e nel rispetto della libertà. Ciò include sia la testimonianza che la scoperta delle rispettive convinzioni religiose” (70).


L’elemento essenziale del dialogo interreligioso per tanto lo costituisce l’essere un “metodo e mezzo per una conoscenza e un arricchimento reciproco…” (71), che include la testimonianza mutua.


Il documento Nostra Aetate, che possiede un valore di fonte in questo tema, nonostante sia conciso, contiene delle affermazioni precise sull’essenza del dialogo: la chiesa cattolica guarda con un rispetto sincero il bene e il vero delle religioni, e allo stesso tempo annuncia Gesù Cristo; ed esorta i suoi figli a che “per mezzo dei colloqui e della collaborazione con i seguaci delle altre religioni, testimoniando la fede e la vita cristiana, riconoscano, conservino e promuovano quei beni spirituali e morali e quei valori socio-culturali che in essi si trovano” (72).


Tutto ciò che lo Spirito Santo opera nell’uomo richiede un profondo rispetto (73). La chiesa mediante il dialogo scopre e riconosce nelle religioni “la presenza di Cristo e dell’azione dello Spirito” (74) e collabora con l’opera universale dello Spirito di Cristo (75).


S’impegna nella protezione dei valori religiosi, con “la testimonianza reciproca per un comune progresso nel cammino di ricerca e di esperienza religiosa” (76). E’ un compito fondamentale del dialogo interreligioso che i credenti si aiutino per approfondire il loro impegno religioso e per rispondere all’appello personale di Dio, che “passa sempre, come lo proclama la nostra fede, attraverso la mediazione di Gesù Cristo e l’opera del suo Spirito” (77).


Attraverso il dialogo, i credenti delle diverse religioni danno una testimonianza reciproca, aiutandosi per vivere i propri valori umani e spirituali, per l’edificazione di un mondo più umano, giusto e fraterno (78).


Non poche volte la Chiesa trova nel dialogo l’unico modo di testimoniare Cristo: Sapendo che non pochi missionari e comunità cristiane trovano nella via difficile e spesso incompresa del dialogo l’unica maniera di rendere sincera testimonianza a Cristo e generoso servizio all’uomo (79).


E’ vasto il campo che si apre davanti al dialogo interreligioso, che ha valore in se stesso e che nelle circostanze attuali acquisisce un’urgenza speciale.


3.3. Il dialogo e il suo rapporto con l’annuncio.


In ultimo nello sforzo di “presentare” gli elementi fondamentali e principali del dialogo, dobbiamo fare un riferimento al rapporto che esiste tra il dialogo e l’annuncio.


La Nostra Aetate, nel contesto delle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, subito dopo aver riconosciuto il valore delle religioni ed il rispetto che ne segue, afferma la necessità dell’annuncio:


Essa però annunzia ed è tenuta ad annunziare incessantemente il Cristo, che è la ‘la via, la verità e la vita’ (Gv 14,6), nel quale gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa, nel quale Dio ha riconciliato con sé tutte le cose (80).


Dello stesso modo il Papa nella Redemptoris Missio, nei numeri dedicati al dialogo interreligioso e subito dopo averlo definito, tratta del suo rapporto con l’evangelizzazione. Questi non si “contrappongono”, ma al contrario conservano dei “legami speciali” giacché il dialogo costituisce una delle loro espressioni: “Il dialogo fa parte della missione evangelizzatrice della chiesa…esso non è in contrapposizione con la missione ad gentes, anzi ha speciali legami con essa e n’è un’espressione.


…Tutto ciò il concilio e il successivo magistero hanno ampiamente sottolineato, mantenendo sempre fermo che la salvezza viene da Cristo e il dialogo non dispensa dall’evangelizzazione” (81).


Viene quindi precisato con chiarezza il rapporto che ci deve essere tra il dialogo e l’annuncio:


Alla luce dell’economia di salvezza, la chiesa non vede un contrasto fra l’annuncio del Cristo e il dialogo interreligioso; sente, però, la necessità di comporli nell’ambito della sua missione ad gentes. Occorre, infatti, che questi due elementi mantengano il loro legame intimo e, al tempo stesso, la loro distinzione, per cui non vanno né confusi, né strumentalizzati, né giudicati equivalenti come se fossero intercambiabili (82).


 Non c’è un “contrasto”, che escluderebbe l’uno dall’altro: o dialogo o annuncio, ma entrambi sono degli elementi che “compongono” la missione evangelizzatrice, che è dialogo ed annuncio.


Il Papa spiega, più concretamente, che pur essendoci un “legame intimo”, conservano la loro “differenza”. In quanto diversi: non possono essere “confusi”, l’uno non è l’altro; né vengono “strumentalizzati”, poiché tanto il dialogo come l’annuncio possiedono il proprio status, il proprio valore e il proprio obiettivo; né sono “equivalenti”, poiché sebbene entrambi siano degli elementi autentici, legittimi e necessari della missione evangelizzatrice, non si trovano sullo stesso livello (83).


Di conseguenza la missione della chiesa non può trascurare il dialogo, né d’altra parte ridursi ad esso: “il dialogo…non costituisce l’intera missione della chiesa, che non può semplicemente sostituire l’annuncio” (84). Alcuni teologi hanno preteso di realizzare questa sostituzione, o al meno di diminuire il valore dell’annuncio a favore del dialogo. “Negli anni passati, da parte di qualcuno si è opposto il dialogo con gli uomini religiosi all’annuncio, dovere primario della missione salvifica della Chiesa” (85).


La Redemptoris Missio fondamenta la necessità dell’annuncio da parte della Chiesa sul fatto che la salvezza viene da Cristo e per questo “il dialogo non dispensa dall’evangelizzazione”, perciò il fatto della presenza di valori positivi nelle diverse religioni e incluso della possibilità che i loro membri partecipino alla salvezza di Cristo, non “diminuisce il suo dovere e la sua determinazione a proclamare senza esitazioni Gesù Cristo, che è ‘la via, la verità e la vita’” e non si “cancella affatto l’appello alla fede e al battesimo che Dio vuole per tutti i popoli” (86).


Abbiamo detto che si distinguono, ma conservando nello stesso tempo un intimo legame, poiché sono parti componenti dell’unica missione della Chiesa. Partecipano per tanto al processo dinamico della missione evangelizzatrice, il cui vertice e pienezza lo costituisce sempre l’annuncio. Scriveva Paolo VI nella Evangelii Nuntiandi: “l’evangelizzazione conterrà sempre anche – come base, centro e insieme vertice del suo dinamismo- una chiara proclamazione che in Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, morto e risuscitato, la salvezza è offerta a ogni uomo, come dono di grazia e misericordia di Dio stesso” (87). Per cui il dialogo resta aperto, si “orienta” all’annuncio: “resta orientato verso l’annuncio” (88) e senza di esso, giustamente come base, centro e vertice, tutte le altre forme autentiche di evangelizzazione “perderebbero la loro coesione e vitalità” (89).


La Redemptoris Missio ci offre un dato preziosissimo per comprendere che tipo di relazione corrisponda al dialogo e all’annuncio: deve essere considerata “alla luce dell’economia di salvezza” (90).


Da una parte, il dialogo dei cristiani con gli uomini religiosi di credo diverso, come abbiamo già detto, si fonda “nella convinzione che Dio stia effettivamente preparando tutti gli uomini alla salvezza” (91). Giacché Dio non “manca di rendersi presente in tanti modi non solo ai singoli individui, ma anche ai popoli mediante le loro ricchezze spirituali, di cui le religioni sono precipua ed essenziale espressione, pur contenendo ‘lacune, insufficienze ed errori’” (92).


Dall’altra, l’annuncio si fonda sul fatto che “Dio chiama a sé tutte le genti in Cristo, volendo loro comunicare la pienezza della sua rivelazione e del suo amore”, poiché “la salvezza viene da Cristo” (93).


Ma il compito del dialogo anche se diverso non è separato dall’annuncio, come neanche lo è l’opera di Dio nelle religioni da quella che realizza specificamente nella Chiesa. Ma più precisamente il dialogo tende all’annuncio, che è il vertice dell’opera evangelizzatrice, in modo analogo a come l’azione universale di Dio mediante i germi del Verbo e la presenza dello Spirito, si ordina a Gesù Cristo.


I germi del Verbo sono una “traccia” oggettiva negli uomini, della misteriosa unità del genere umano che esiste in ragione al piano divino, per cui tutti gli uomini partecipano alla creazione e alla redenzione (94). L’ordinamento di tutti gli uomini all’unità del Popolo di Dio in Gesù Cristo, possiede un “valore reale e oggettivo” (95).


Il dialogo interreligioso implica quindi una scoperta e un sostegno all’opera dello Spirito mediante i germi del Verbo nei membri delle tradizioni religiose. Rimanendo però intatta la sua differenza e il suo obiettivo immediato, il dialogo interreligioso in quanto parte di un tutto che ha il suo proprio centro, è orientato all’annuncio, analogamente a come i germi del Verbo lo sono a Gesù Cristo.


In modo che: Si potrebbe dunque dire che credere in modo cristiano significa accettare, professare ed annunziare Cristo che è “la via, la verità e la vita” (Gv 14, 6), tanto più pienamente quanto più si rilevano nei valori delle altre religioni dei segni, dei riflessi e quasi dei presagi di Lui (96).


Così “nel dialogo interreligioso non si tratta perciò di abdicare all’annuncio, ma di rispondere ad un appello divino perché lo scambio e la condivisione conducano ad una mutua testimonianza della propria visione religiosa, ad una approfondita conoscenza delle rispettive convinzioni e ad un’intesa su taluni valori fondamentali” (97).


 


Conclusione


 Crediamo che nella nuova attitudine del dialogo interreligioso sia necessario mantenere innanzitutto lo “spirito” del concilio Vaticano II, con il suo duplice aspetto di fedeltà e di apertura, come insegna Giovanni Paolo II nell’offrire un’interpretazione della famosa Giornata Mondiale di preghiera per la pace realizzata ad Assisi il 27.10.1986:


Infatti, la chiave appropriata di lettura per un avvenimento così grande scaturisce dall’insegnamento del Concilio Vaticano II, il quale associa in maniera stupenda la rigorosa fedeltà alla rivelazione biblica e alla tradizione della Chiesa, con la consapevolezza dei bisogni e delle inquietudini del nostro tempo, espressi in tanti ‘segni’ eloquenti (cfr. GS 4).


 A partire dalla sua identità e fondata in essa, la Chiesa si deve compromettere ancora di più nel dialogo interreligioso “che ha assunto una nuova ed immediata urgenza nelle attuali circostanze storiche” (98). Il Giubileo ce ne offre un’occasione preziosa.


 


Note:


1 Cfr. Tertio Millennio adveniente, 52-53.


2 Scrive il Cardinal F. ARINZE: “In questa ricerca teologica vi sono tentazioni a cui resistere, documenti e azioni del Magistero di cui tener conto, punti fermi della fede cattolica a cui ci si deve attenere fedelmente”; “Le religioni nel mondo. Una sfida alla teologia”, Rassegna di Teologia 38 (1997) 725.


3 Cfr. Ecclesiam Suam III, 2.6. In seguito ES.


4 Cfr. ES III, 4-5.


5 Cfr. ES III, 10.16.


6 Cfr. Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra Aetate, 2. In seguito NA.


7 Cfr. NA 1.


8 GIOVANNI PAOLO II, Varcare la Soglia della Speranza, Mondadori ed., Milano 1994, 171. In seguito Varcare la soglia…


9 WOJTYLA K., Alle fonti del rinnovamento, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1981.


10 Varcare la Soglia… 171.


11 Varcare la Soglia… 177.


12 NA 1.


13 NA 1.


14 GIOVANNI PAOLO II, Catechesi 31.5.1995, 1. In seguito Catech


15 Catech… 5.6.1985, 1.


16 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Discorso alla Curia Romana, 22.12.1986, 8.


17 PONTIFICIO CONSIGLIO PER IL DIALOGO INTERRELIGIOSO-CONGREGAZIONE PER L’EVANGELIZZAZIONE DEI POPOLI, Dialogo e Annuncio. Riflessione e Orientamenti sul Dialogo interreligioso e l’Annuncio del Vangelo di Gesù Cristo, Città del Vaticano 19.5.1991, 4. In seguito DA.


18 Cfr. ES III,4-5.