Il celibato ecclesiastico (IV)

I FONDAMENTI TEOLOGICI DELLA DISCIPLINA DEL CELIBATO

Nella discussione odierna sul celibato si insiste sempre di più sulla necessità di un approfondimento teologico del sacerdozio, per poter dedurre e valutare anche l’aspetto unicamente vero e completo della teologia del celibato nella Chiesa Cattolica Latina.


Per questo motivo ci rimane ancora il compito attuale ed importante di esaminare le componenti teologiche sia del sacerdozio del NT come anche, partendo da queste, del celibato dei ministri sacri. Entrambi hanno le loro radici nella Sacra Scrittura che è fonte principale della teologia cattolica e poi nella tradizione della Chiesa che svela ed interpreta le testimonianze scritturistiche.

Il sacerdozio di Gesù Cristo è un profondo mistero della nostra fede. Per comprenderlo, I’uomo deve aprirsi ad una visione soprannaturale e sottomettere la ragione umana ad un modo di pensare trascendente. In tempi di viva fede, che non solo anima ed orienta il singolo fedele ma permea e forma anche la vita di tutta la comunità credente, il Cristo-Sacerdote costituisce nella coscienza di tutti il centro vivo della vita di fede personale e comunitaria.


In tempi di decadenza del senso di fede la figura di Cristo-Sacerdote svanisce e scompare sempre di più dalla coscienza degli uomini e del mondo e non sta più nel centro della vita cristiana.


Questa immagine di Cristo-Sacerdote nella coscienza dell’uomo segue sempre il sacerdote di Cristo. Nei tempi di viva fede non torna difficile al sacerdote il riconoscersi in Cristo, identificarsi con lui, vedere e vivere l’essenza del proprio sacerdozio in intima unione con quello di Cristo-Sacerdote, vedere in lui “l’unica sorgente” e “il modello insostituibile” del proprio sacerdozio.


In un’atmosfera di razionalismo, che rimuove sempre più dalla mente dell’uomo il soprannaturale, in un tempo di materialismo che fa svanire sempre più lo spirituale, diventa sempre più difficile per il sacerdote resistere in quest’atmosfera di secolarizzazione ad una siffatta mentalità. L’identità trascendente e spirituale del suo sacerdozio si vela sempre di più e si spegne se egli non si sforza coscientemente di approfondirla e di tenerla viva in un’intima unione di vita con Cristo.


Questa situazione critica rende più che mai indispensabile per il sacerdote l’aiuto di una ascetica e di una mistica che tengano conto di tale situazione e che si scoprano in tempo i pericoli che minacciano il suo sacerdozio e che gli si mostrino le necessità e gli si forniscano i mezzi che la sua esistenza sacerdotale richiede.


L’attuale crisi di identità del sacerdozio cattolico si manifesta in tutta la sua chiarezza attraverso la rinuncia di migliaia di sacerdoti al loro ministero, attraverso una profonda secolarizzazione di molti altri che rimangono in servizio formale ed ancora attraverso la penuria di vocazioni causata dal rifiuto di seguire la chiamata. In questa situazione vi è un fondamentale bisogno di una nuova pastorale sacerdotale che tenga conto delle condizioni concrete e dei bisogni attuali, che risponda in una parola al “contesto del presente”.


1. Il rapporto sacerdotale con Cristo

Basandosi su tutta la tradizione, occorre far brillare in una nuova luce l’essenza del sacerdozio cattolico. Il concilio di Trento, in una crisi simile, ha creato, attraverso la definizione dei sacramenti dell’ordine e dell’eucaristia, i presupposti di una mistica del sacerdote riportandola alla mistica di Cristo. Un J.M. Scheeben, di fronte al razionalismo teologico del secolo passato, ha spiegato in modo approfondito che l’ordinazione crea una elevazione di chi la riceve in una unione organica soprannaturale con Cristo e che il carattere che l’ordine sacro imprime per sempre rende l’ordinato partecipe di una nuova elevazione ad organo delle funzioni sacerdotali di Cristo.


In tempi recentissimi, soprattutto dal Concilio Vaticano II in poi, questo rapporto del sacerdote con Cristo è stato collocato sempre più verso il centro dell’essenza del sacerdozio e si sono così potuti approfondire ed ampliare i pronunciamenti biblici e le dottrine teologiche e canonistiche del passato sull’unione e la conformità tra Cristo e il sacerdote. Così ha acquistato nuova luce, teologicamente illustrato, l’assioma tradizionale sacerdos alter Christus.


Se san Paolo scrive ai Corinzi (1 Cor 4,1): “Così l’uomo ci consideri ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio” oppure (2 Cor 5,20): “Noi dunque fungiamo da ambasciatori di Cristo, come se Dio stesso esortasse per mezzo nostro; vi supplichiamo in nome di Cristo: riconciliatevi con Dio”, ciò si può considerare una motivazione autenticamente biblica dell’identificazione del sacerdote con Cristo.


Nel Concilio Vaticano II si esprime continuamente la stessa idea: “I vescovi, in modo eminente e visibile, sostengono le parti dello stesso Cristo Maestro, Pastore e Pontefice e agiscono in sua persona” (LG n. 21 con nota 22 ove si documenta la rispettiva dottrina della Chiesa antica). I sacerdoti a loro congiunti sono partecipi dell’ufficio dell’unico Mediatore Cristo ed esercitano il loro sacro ministero nel culto eucaristico agendo in persona di Cristo (LG n. 28 con nota 67; CD n. 28). Attraverso il sacramento dell’ordine e il carattere che esso imprime, vengono configurati con Cristo ed agiscono in suo nome (PO 2, 6, 12; OT 8; SC 7).


Dopo il Concilio si moltiplicano siffatte espressioni anche da parte della Curia Romana. La Congregazione per l’Educazione Cattolica, nelle norme fondamentali per la formazione dei sacerdoti dell’anno 1970, ha esplicitamente sottolineato con l’affermazione di principio che il sacerdote diventa, per mezzo dell’ordine sacro, un “alter Christus”. E il nuovo Codice di Diritto Canonico del 1983 dice nel canone 1008: “Con il sacramento dell’ordine ed il carattere indelebile con cui vengono segnati coloro che lo ricevono, i ministri della Chiesa vengono consacrati e destinati ad adempiere, ognuno nel suo grado, i compiti di insegnare, santificare, e governare in persona Christi e di pascere così il popolo di Dio”.


Ma in modo più intenso si è occupato del sacerdozio e dei sacerdoti il Pontefice regnante, Giovanni Paolo II, sin dall’inizio del suo pontificato. Per il Giovedì Santo di ogni anno, già dal 1979, egli indirizza un proprio messaggio ai sacerdoti. Ripetutamente si vale di ogni occasione: delle udienze, discorsi e soprattutto delle frequenti ordinazioni sacerdotali per mettere nella giusta luce teologica, pastorale, attuale la natura e l’essenza del sacerdozio cattolico e approfondire il suo significato.


Il più importante atto d’ufficio di questo Pontefice per il sacerdozio è costituito senza dubbio dalla convocazione e l’attuazione dell’ottavo Sinodo dei Vescovi, che ha avuto per oggetto la formazione dei sacerdoti. Un punto centrale delle discussioni dei Padri Sinodali era senza dubbio il concetto giusto ed attuale dell’identità del sacerdote nel mondo di oggi e in relazione con la grave crisi nella quale si agita oggi il sacerdote. Riassunto e coronamento di questi approfonditi lavori è l’Esortazione Apostolica post-sinodale, apparsa il 25 marzo del 1992, sotto il titolo “Pastores dabo vobis” circa la formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali.


Nel secondo capitolo di questa Esortazione Apostolica il Sommo Pontefice tratta “della natura e missione del sacerdozio ministeriale” e informa espressamente che gli interventi dei Padri Sinodali “hanno manifestato la coscienza del legame ontologico specifico che unisce il sacerdote a Cristo, Sommo Sacerdote e Buon Pastore” (n. 11). Il Papa conclude questa esposizione con l’affermazione veramente classica: “Il presbitero trova la verità piena della sua identità nell’essere una derivazione, una partecipazione specifica ed una continuazione di Cristo stesso, sommo e unico sacerdote della nuova ed eterna Alleanza; egli è un’immagine viva e trasparente di Cristo sacerdote. Il sacerdozio di Cristo, espressione della sua assoluta “novità”, nella storia della salvezza, costituisce la fonte unica e il paradigma insostituibile del sacerdozio del cristiano e, in specie, del presbitero. Il riferimento a Cristo è allora la chiave assolutamente necessaria per la comprensione delle realtà sacerdotali” (n. 12 alla fine).


Basandoci su questa affinità naturale tra Cristo e il suo sacerdote, non ci sarà difficile individuare anche la teologia del celibato sacerdotale. Giovanni Paolo II stesso ce ne dà nuovamente la chiave:


“È particolarmente importante che il sacerdote comprenda la motivazione teologica della legge ecclesiastica sul celibato. In quanto legge, esprime la volontà della Chiesa, prima ancora che la volontà del soggetto espressa dalla sua disponibilità. Ma la volontà della Chiesa trova la sua ultima motivazione nel legame che il celibato ha con l’Ordinazione sacra, che configura il sacerdote a Gesù Cristo Capo e Sposo della Chiesa. La Chiesa, come Sposa di Gesù Cristo, vuole essere amata dal sacerdote nel modo totale ed esclusivo con cui Gesù Cristo e Sposo l’ha amata. Il celibato sacerdotale, allora, è dono di sé in e con Cristo alla sua Chiesa ed esprime il servizio del sacerdote alla Chiesa in e con il Signore” (n. 29 verso la fine).


2. Fondamento storico dottrinale

Anche qui uno sguardo retrospettivo alla tradizione della Chiesa può informare sullo sviluppo di questa teologia. Ciò che si può dire sinteticamente su questo aspetto è in parte già stato detto analizzando le testimonianze della Chiesa primitiva sulla continenza dei ministri sacri. Seguire i riferimenti alla Sacra Scrittura e alla interpretazione di essa in queste testimonianze della storia del celibato è certamente un aiuto che si può dare all’argomentazione teologica da parte dei Padri Sinodali e del Santo Padre, poiché nella Esortazione Apostolica abbondano i richiami alla Sacra Scrittura. La visione scritturistica del celibato acquista del resto sempre maggior importanza anche nella letteratura recente in materia.


Già nella prima logge scritta, a noi nota, nel can. 33 di Elvira sono tenuti alla continenza i chierici positi in ministerio quelli cioè che servono all’altare. Anche i canoni Africani parlano continuamente di quelli che servono all’altare e toccano i sacramenti e sono addetti al loro servizio, coloro che, a causa della loro consacrazione ricevuta, sono obbligati alla castità, la quale a sua volta assicura l’efficacia della preghiera impetratoria presso Dio.


Importanti ed istruttivi sono a questo riguardo soprattutto i documenti Pontifici che trattano della continenza celibataria. Continuamente vengono affrontate due obiezioni attinte alla Sacra Scrittura e che vengono confutate. La prima è la norma che dà san Paolo a Timoteo (1 Tm 3,2 e 3,12) e a Tito (1,6): i candidati devono essere, se sposati, solo unius uxoris viri, ossia sposati una sola volta e per di più con una vergine. Sia Papa Siricio come anche Innocenzo I insistono ripetutamente che questo non vuol dire che essi possono vivere anche d’ora innanzi nel desiderio di generare figli, ma, al contrario, che ciò è stato stabilito propter continentiam futuram, a causa della continenza da osservare in seguito.


Questa interpretazione ufficiale del noto brano della Sacra Scrittura, fatta dai Sommi Pontefici, la quale veniva assunta anche dai Concili, afferma che colui che aveva bisogno di risposarsi dimostrava con ciò che non poteva vivere la continenza richiesta ai sacri ministri e perciò non poteva essere ordinato. Così questa norma della Sacra Scrittura, anziché una prova contro la continenza celibataria, diventa una prova a suo favore, per di più già richiesta dagli apostoli. Tale interpretazione rimane viva anche in seguito. Così ancora la Glossa Ordinaria al Decreto di Graziano, ossia il commento comunemente accettato per questo brano del testo (Principio della Dist. 26), spiega che esistono quattro ragioni perché un bigamo non può essere ordinato. Dopo tre ragioni piuttosto spirituali, la quarta, pratica, dice: perché sarebbe un segno di incontinenza se uno da una moglie è passato ad un’altra. E il grande ed autorevolissimo Decretalista Hostiensis (il Card. Decano Enrico da Susa) spiega nel suo commento alle Decretali di Gregorio IX (X, I, 21, 3 alla parola alienum): la terza ragione delle quattro di questo divieto è: “Perché si deve temere (in questo caso) l’incontinenza”.


Che questa interpretazione di untus uxoris vir era accettata anche in Oriente dimostra anche lo storico della Chiesa primitiva Eusebio di Cesarea, che si deve ritenere ben informato e che, come abbiamo già detto, era presente al Concilio di Nicea e quale amico degli ariani avrebbe dovuto prendere piuttosto la difesa dell’uso del matrimonio dei preti prima sposati. Ma egli dice espressamente che, paragonando il sacerdote dell’Antico Testamento con quello del Nuovo, si confronta la generazione corporale con quella spirituale e in questo consiste il senso dell’unius uxoris vir cioè che coloro i quali si sono consacrati e dedicati al servizio e culto divino devono astenersi convenientemente, in seguito, dal rapporto sessuale con la moglie.


Questo divieto dell’apostolo, che nessun bigamo doveva essere ammesso agli ordini sacri, è stato osservato assai severamente attraverso tutti i secoli e si trova tra le irregolarità per l’ordine ancora nel Codice del Diritto Canonico del 1917 (can. 984, 4°). Nella canonistica classica si riteneva che la dispensa da questo divieto non era possibile neanche da parte del Sommo Pontefice, perché neanche egli potrebbe dispensare contra apostolum, vale a dire contro la Sacra Scrittura.


Da notare che anche la legislazione celibataria Trullana nel suo can. 3 mantiene in vigore questa proibizione per sacerdoti, diaconi e suddiaconi che cioè i candidati a questi ordini non potevano essere sposati con una vedova ossia con chi era già stata sposata una volta. Si voleva solo, dicono i Padri Trullani, mitigare la severità della Chiesa Romana in questo punto, concedendo a coloro che avevano peccato contro il divieto della bigamia la possibilità del ravvedimento e della penitenza. Se fino ad un certo termine dopo il Sinodo avessero rinunciato a questo matrimonio, avrebbero potuto rimanere nel ministero. L’illogicità di questa disposizione del can. 3, paragonato con il can. 13 che permette ai sacerdoti e diaconi l’uso del matrimonio contratto prima dell’ordinazione, si spiega solo con il fatto che questo divieto apostolico era profondamente ancorato anche nella tradizione Orientale, ma senza rendersi più conto del suo vero senso originale. Da ciò deriva un’altra prova tacita per questo autentico significato originale quale garanzia della continenza completa dopo l’ordinazione come era rimasto vivo nella Chiesa Occidentale, sempre accettato quale osservanza fedele da parte di Roma.


In questo contesto conviene far menzione ancora di altri due testi della Sacra Scrittura, i quali non si trovano esplicitamente nelle testimonianze antiche, il secondo dei quali viene invocato oggi contro la continenza dogli stessi apostoli.


Tra le qualità che san Paolo esige nel ministro della Chiesa si richiede anche che debba essere ejgkrathvı; ossia continens. Questo termine significa la continenza sessuale come risulta dal testo parallelo nel quale san Paolo chiede ai fedeli in genere la necessaria continenza o astinenza dogli sposati per la preghiera e da tutti i testi posteriori greci circa il celibato, raccolti per esempio nella raccolta ufficiale del Pedalion.


Il secondo testo della Sacra Scrittura si trova in 1 Cor 9,5 dove san Paolo afferma che anche lui avrebbe il diritto di avere con sé una donna come gli altri apostoli, i fratelli del Signore e Cepha. Molti interpretano questa “donna” per la “sposa” degli apostoli, ciò che per Pietro potrebbe essere anche vero. Ma bisogna tenere ben conto del fatto che il testo originale greco parla non semplicemente di una “gunai~ka” che potrebbe essere benissimo anche la moglie. Ma certamente non senza intenzione san Paolo aggiunge la parola “ajdelfhvn” ossia donna “sorella” per escludere ogni malintesa confusione con una moglie.


Ci convinceremo facilmente di questa rettificazione se consideriamo che in seguito tutti i più importanti testimoni della continenza dei ministri sacri ci dicono continuamente che, quando si parla della sposa di tali ministri nel contesto della conseguente continenza sessuale, si usa sempre la parola “soror”, sorella, così come in genere il rapporto tra gli sposi dopo l’ordinazione del marito è visto sotto quello di fratello e sorella. Così dice san Gregorio Magno: “Il sacerdote dal tempo della sua ordinazione amerà la sua sacerdotessa (ossia la sua sposa) come una sorella”. Il Concilio di Gerona (a. 517) decide che “se sono stati ordinati coloro che prima erano sposati, non devono vivere insieme con quella che da sposa è diventata sorella”. Ed il Concilio II di Auvergne (a. 535) dispone a sua volta: “Se un sacerdote o un diacono ha ricevuto l’ordine al servizio divino diventa subito da marito fratello di sua moglie”. Questo uso delle parole si trova in molti testi patristici e conciliari.


3. L’insegnamento dell’Antico Testamento

È necessario che ci dedichiamo ora ad un altro argomento che si invoca spesso contro la continenza dei ministri nei primi secoli. Ci si appella cioè – come già riportato diverse volte in vari contesti – all’Antico Testamento, nel quale come si sa è stato lecito anzi doveroso vivere il pieno uso matrimoniale durante il tempo in cui sacerdoti e leviti vivevano a casa loro, liberi dal servizio nel Tempio. Si è soliti dare sempre una doppia risposta a questa obiezione. Anzitutto si dice che il sacerdozio vetero-testamentario era affidato ad una tribù la quale doveva essere conservata e ciò rendeva necessario il matrimonio. Il sacerdozio del Nuovo Testamento invece è configurato senza successione di sangue e perciò senza discendenza familiare.


Si aggiunge un secondo argomento a favore della differenza, che è ancora più importante e viene sempre ripetuto: i sacerdoti dell’Antico Testamento avevano un servizio del Tempio limitato nel tempo, mentre i sacerdoti del Nuovo Testamento hanno un servizio ininterrotto, il quale perciò ha esteso l’obbligo temporaneo della continenza e della purezza ad una osservanza illimitata e continua. La spiegazione persuasiva che si adduce a questo scopo la si trova nel passo di san Paolo ai Corinzi (1 Cor 7,5) nel quale l’apostolo consiglia agli sposi “di non privarsi l’uno dell’altra se non di comune accordo per un tempo determinato per attendere alla preghiera”. I sacerdoti del Nuovo Testamento invece devono pregare in continuità e dedicarsi ad un servizio giornaliero ininterrotto nel quale, attraverso le loro mani, viene data la grazia del battesimo e offerto il Corpo di Cristo. La Scrittura Sacra li ammaestra ad essere in tutto questo servizio del tutto puri, e i Padri comandavano di conservare l’astinenza del corpo.


Gli stessi documenti danno pero ancora un’altra motivazione che è di ordine pastorale: come può un sacerdote predicare ad una vedova o vergine continenza e illibatezza se egli stesso dà maggior valore a generare figli al mondo anziché a Dio? Così l’obiezione contro si trasforma in un argomento a favore della continenza ministeriale.


Da tutte queste considerazioni si può trarre una immagine del sacerdote del NT modellata sulla volontà di Cristo e che si distingue sostanzialmente da quella dell’AT: quest’ultima è configurata solo come una funzione, per di più limitata nel tempo e puramente esteriore. Quella invece coinvolge la natura e perciò tutto l’uomo in quanto sacerdote, il suo interno ed esterno e perciò il suo servizio. Cristo dal suo sacerdote vuole anima, cuore e corpo e in tutto il suo ministero la purezza e la continenza quale testimonianza che non vive più secondo la carne ma secondo lo spirito (Rm 8,8). Il sacerdozio levitico funzionale dell’AT non può perciò mai essere un modello di quello ontologico del NT, configurato a Cristo. Questo supera quello in tutta la sua essenza.


Di qui gli uomini che hanno accolto il messaggio salvifico di Cristo hanno compreso sin dall’inizio la richiesta del Maestro ai suoi apostoli di dover rinunciare per il regno dei Cieli anche al matrimonio (Mt 19,12) e che, quali discepoli in senso stretto e pieno, devono anche lasciare padre, madre, sposa, figli, fratello e sorella (Lc 18, 29; 14,26). Si comprende anche presto la parola di san Paolo che riguarda il rapporto diverso con Dio da parte di celibi e sposati (1 Cor 7,32-33) e con ciò il suo significato per il celibato ecclesiastico.


Sarà compito della scuola, cioè della canonistica classica dal sec. XII in poi, trovare, spiegare e sviluppare le motivazioni del nesso fra continenza e sacerdozio neotestamentario. Nella storia dello sviluppo scientifico descritto già brevemente nella seconda parte si è accennato alle difficoltà di allora di arrivare alla elaborazione di una teoria soddisfacente. Per quanto gli antichi Padri avessero già compreso che la continenza apparteneva all’essenza del nuovo sacerdozio – quando per esempio Epifanio di Salamina dice che il carisma di esso consiste nella continenza; oppure sant’Ambrogio dice che l’obbligo della preghiera continua è il comandamento della Nuova Alleanza – i glossatori non hanno potuto creare una teologia del celibato perché erano troppo poco teologi. Nel loro lavoro attorno alla disciplina del celibato dell’Occidente erano anche troppo condizionati da quella dell’Oriente, la legittimità della quale hanno preso per buona giacché riconoscevano sia la leggenda di Paphnutius che la legislazione Trullana.


Ma partendo dai testi rispettivi della Chiesa Cattolica hanno cercato di creare una teoria che conteneva elementi essenziali per una valida teologia. Essi hanno compreso anzitutto che la continenza è in stretto rapporto con l’ordo sacer e che questa legge è stata data dalla Chiesa propter ordinis reverentiam, per la riverenza che si deve all’ordine; comprendevano pero anche che la continenza è stata annessa piuttosto all’ordine che all’uomo da ordinarsi, il quale perciò resto libero di accettare l’ordine solo se voleva accettare anche l’obbligo che vi era annesso.


Anche dalla sintesi fatta da san Raymundo da Peñafort, riportata sopra, risulta con certezza che il vero motivo della continenza clericale era per quel tempo non tanto la purezza cultuale del ministro dell’altare (che si combinerebbe benissimo anche con la prassi Orientale decisa dal Trullano), ma l’efficacia della preghiera mediatrice del ministro sacro, che proveniva dalla totale dedicazione a Dio, e in genere la possibilità libera di pregare e la completa libertà per il proprio ministero e per il servizio della Chiesa appaiono già chiaramente i veri motivi della continenza completa.


Anche se la teologia dei secoli successivi fino ad oggi non ha trascurato il sacerdozio del Nuovo Testamento, solo la crisi più recente dei sacerdoti e delle vocazioni al sacerdozio dalla seconda metà di questo secolo, diffusa ed ampliata dai mezzi di comunicazione di massa, richiedeva con urgenza un particolare approfondimento di questo argomento come detto sopra.


Il fondamento di questo approfondimento è stato posto dal Concilio Vaticano II. E su questo si basano gli sforzi successivi che il Pontefice f.r. ha fatto oggetto particolare del suo programma dottrinale e pastorale sin dall’inizio del suo Pontificato. In questo senso è significativo che già nel suo primo messaggio ai sacerdoti in occasione del Giovedì Santo ha detto, riguardo al celibato sacerdotale, che la Chiesa Occidentale lo ha voluto e lo vuole anche nel futuro in quanto “si ispira all’esempio di nostro Signore Gesù Cristo stesso, alla dottrina apostolica e a tutta la tradizione a lei propria”. Negli anni successivi è ritornato continuamente sul tema del sacerdozio e sul celibato legato ad esso in quanto si è impegnato nello stesso tempo a frenare le troppo facili dispense in materia.


Il vertice di queste premure di altissima coscienza pastorale è stato senza dubbio la convocazione dell’ottavo Sinodo dei vescovi per il mese di ottobre dell’anno 1990, nel quale doveva essere trattato l’argomento sulla formazione sacerdotale nel contesto delle circostanze attuali.


Ciò si è fatto in maniera esauriente attraverso le voci dei rappresentanti dell’episcopato mondiale e ha trovato la sua espressione più perfetta nella Esortazione Apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis che ci autorizza a parlare di una “Magna Charta” della teologia del sacerdozio che rimarrà norma autorevole per tutto l’avvenire della Chiesa.


4. La teologia del celibato sacerdotale

Non è possibile, neanche per lo scopo di questa nostra esposizione storica, farne oggetto di una completa considerazione. Ma essa ispira un’ultima parola, assai opportuna, sulla teologia del celibato sacerdotale, intimamente connessa con la teologia dello stesso sacerdozio.


Un’ultima motivazione di esso e della volontà della Chiesa nei suoi confronti sta “nel legame che il celibato ha con l’ordinazione sacra che configura il sacerdote a Gesù Cristo, Capo e Sposo della Chiesa” (n. 29). Queste parole si possono considerare il nucleo centrale di tutta la teologia del celibato che è stata sviluppata nell’Esortazione Apostolica e che è data alla meditazione approfondita e a base di ogni ulteriore sviluppo.


Partendo da questa asserzione centrale della Lettera Pontificia, abbiamo cercato sin dall’inizio di questa quarta parte di indicare gli elementi della teologia del celibato che erano già apparsi nella tradizione ma erano stati sviluppati in maniera piuttosto insufficiente. Siamo ora in grado di costatare che nell’esposizione della Esortazione non solo sono stati accolti tutti questi elementi e sviluppati sistematicamente, ma che ne sono stati utilizzati degli altri allora non considerati.


In questo senso è da valutare anzitutto quello che viene esposto nel capitolo terzo, particolarmente nei numeri 22 e 23, sulla “configurazione a Gesù Cristo Capo e Pastore e la carità pastorale”. Cristo ci si mostra qui nel senso di 5,23-32 della lettera agli Efesini, quale Sposo della Chiesa e la Chiesa quale unica sposa di Cristo. In connessione con altri brani scritturistici viene qui elaborata la profonda mistica di Cristo-Chiesa, per essere messa subito in relazione con il sacerdote: “Il sacerdote è chiamato ad essere immagine viva di Gesù Cristo Sposo della Chiesa… È chiamato, pertanto, nella sua vita spirituale a rivivere l’amore di Cristo sposo nei riguardi della Chiesa sposa”. Il sacerdote non è perciò senza amore sponsale, egli ha per sua sposa la Chiesa. “La sua vita dev’essere illuminata e orientata anche da questo tratto sponsale, che gli chiede di essere testimone dell’amore sponsale di Cristo, di essere quindi capace di amare la gente con cuore nuovo, grande e puro, con autentico distacco da sé, con dedizione piena, continua e fedele, ed insieme con una specie di “gelosia” (cf 2 Cor 11,2), con una tenerezza che si riveste persino delle sfumature dell’affetto materno, capace di farsi carico dei “dolori del parto” finché “Cristo” non sia formato nei fedeli (cf Gal 4,19)”.


“Il principio interiore, la virtù che anima e guida la vita spirituale del presbitero in quanto configurato a Cristo Capo e Pastore è la carità pastorale, partecipazione della stessa carità pastorale di Gesù Cristo”. Il contenuto essenziale di essa “è il dono di sé, il totale dono di sé alla Chiesa, ad immagine e in condivisione con il dono di Cristo”… “Con la carità pastorale che impronta l’esercizio del ministero sacerdotale come amoris officium, “il sacerdote, che accoglie la vocazione al ministero, è in grado di fare di questo una scelta di amore, per cui la Chiesa e le anime diventano il suo interesse principale””.


CONCLUSIONE

Il sacerdozio della Chiesa Cattolica appare così come un mistero il quale è, a sua volta, immerso nel mistero della Chiesa di Cristo. Ogni problema concernente questo sacerdozio e soprattutto il grave, grande e sempre attuale problema del celibato non può e non deve essere visto e risolto con considerazioni e motivazioni puramente antropologiche, psicologiche, sociologiche e, in modo generale, profane e terrene. Questo problema non si può risolvere con categorie puramente disciplinari. Ogni manifestazione della vita e dell’attività del sacerdote, la sua natura e la sua identità postulano prima di tutto una giustificazione teologica. Questa, per il celibato ministeriale, abbiamo cercato di attingerla alla storia e alla riflessione teologica che si basa sulla rivelazione.


Ne consegue primieramente, sotto l’aspetto formale, che ad una spiegazione soddisfacente che ha per oggetto un tale mistero non si addice un linguaggio profano, ma richiede piuttosto un modo di parlare elevato rispondente al mistero stesso.


Inoltre, tenendo conto della natura descritta del sacerdozio cattolico, non è sufficiente chiedere ciò che rende più funzionale la Chiesa stessa: conservazione o rinuncia al celibato; poiché il sacerdozio del Nuovo Testamento non è un concetto funzionale come quello dell’Antico Testamento, ma un concetto ontologico, dal quale solo può derivare l’adeguato agire secondo l’assioma: agere sequitur esse, ossia l’azione è guidata dall’essere.


Di fronte a questa teologia del sacerdozio neotestamentario che è stata confermata e approfondita pure dal magistero ufficiale della Chiesa, ci dobbiamo ancora domandare, se le ragioni a favore del celibato così come sono state esposte militano solo per una “convenienza” di esso o se non sia realmente necessario e irrinunciabile, e se non esista realmente un Junctum tra i due. Solo se è stato risposto rettamente a questa domanda si può anche rispondere all’altra, se cioè la Chiesa Cattolica possa decidere un giorno di modificare l’obbligo del celibato o abolirlo addirittura del tutto.


Per non correre rischi con la risposta a questa domanda, dobbiamo partire dal fatto che il sacerdozio cattolico dal Fondatore della Chiesa non è stato fondato sull’uomo che si trasforma e cambia ma sul mistero immutabile della Chiesa e di Cristo stesso.