I PECCATI CONTRARI AL RETTO AMORE DEL CORPO (13)

…Il Suicidio. L’uccisione diretta e indiretta. La guida pericolosa. La mutilazione diretta. I trapianti omoplastici. Interventi chirurgici e trattamenti medicali che interessano soprattutto il campo della psicochirurgia e neurochirurgia. La sterilizzazione. L’illiceità dell’abuso dei narcotici, degli stupefacenti e degli ipnotici. L’ubriachezza. La cremazione del cadavere….

Trattato di Teologia morale


PARTE II.


DOVERI DELL’UOMO VERSO SE STESSO


IV. I PECCATI CONTRARI AL RETTO AMORE DEL CORPO.


1.  Il Suicidio (377). Il suicidio, inteso come diretta distruzione della propria vita, ad iniziare da Giuda (Mt. 27, 5-10; Atti 1, 16-20), ha trovato sempre nella dottrina cattolica la più esplicita ed assoluta condanna. Essa si fonda sul fatto che il suicida usurpa un dominio che solo a Dio compete, essendo la vita insieme un suo dono ed una missione da svolgere per tutto il tempo da Lui stesso fissato. Il corpo non è oggetto dei diritti dell’individuo, ma è piuttosto, insieme con l’anima cui è sostanzialmente unito, soggetto degli altri diritti, i quali poggiano tutti, radicalmente, sul diritto e sul dovere che l’uomo ha di raggiungere il suo fine attraverso allo sviluppo della vita presente. L’uomo può disporre delle proprie azioni, ma non di se stesso. Niente, perciò, può giustificare il gesto di colui che si toglie arbitrariamente la vita, e nessuno, all’infuori di Dio, può dare all’uomo la facoltà di compierlo. Bisogna tuttavia riconoscere che il più delle volte è assai difficile giudicare del grado di responsabilità di chi arriva ad un simile eccesso, che sa sicuramente di follia.


Il rispetto della vita propria e altrui è un principio di diritto naturale, al quale la rivelazione non ha aggiunto nulla di sostanziale. Anche l’elaborazione della dottrina morale cristiana non presenta nulla di originale in ciò che concerne il fondamento del diritto e del dovere di vivere.


Essendo il pensiero cristiano tutto impregnato dell’idea della sovranità divina e del governo divino del mondo, i pensatori cristiani, quasi per istinto, hanno posto alla base del dovere di rispettare la vita, il principio che Dio è il governatore della natura, che l’uomo deve accettare l’ordine naturale e che in virtù di questo ordine naturale, soltanto Dio può togliere la vita, come lui solo può donarla.


Dio ha posto l’uomo sulla terra, perché lo lodi e lo serva. L’uomo può avere la scelta fra le maniere di servire Dio, ma egli non ha la scelta del momento in cui il servizio cesserà. L’uomo dunque non ha la proprietà, ma solo l’uso della vita; ha di fronte agli altri esseri umani il diritto di vivere e Dio solo può riprendergli quanto gli ha dato; ma, di fronte a Dio, ha il dovere di vivere, di rimanere al posto assegnategli fino al termine stabilito da Dio, di custodire intatto il deposito affidategli. Il depositario deve conservare e custodire il deposito fino alla richiesta del padrone.


A Dio quindi la scelta del termine. L’uomo deve accettare la vita così lunga quanto Dio gliela lascia. Dio poi agisce e manifesta la sua volontà per mezzo dell’ordine naturale di cui egli è l’autore.


Ma anche quest’idea del dominio sovrano di Dio sull’uomo e della vita, concepita come deposito da Dio affidato all’uomo, affinché ne usi a bene proprio ed altrui, per quanto ripetuta nella letteratura cristiana, non è esclusiva di questa. Platone condannava già il suicidio come un attentato ai diritti di Dio sull’uomo (378) ed i neo-platonici, contemporanei dell’inizio del Cristianesimo, riprendevano il suo argomento, nell’opporsi agli stoici (379).


Ciò conferma che il fondamento del rispetto della vita si trova nella morale naturale, e che la rivelazione non fa altro in questo campo che riaffermare e tutelare la legge naturale.


Ha un fondamento razionale anche l’altro principio che si invoca per la condanna del suicidio, che il dolore cioè ha una funzione provvidenziale la quale esclude ogni fuga ignominiosa e valorizza la vita.


Il dolore infatti non solo consiglia e fomenta il superamento del male morale e il razionale dominio del proprio tormento, ma rende l’uomo umile ed eroico nell’affermazione di un ideale di vita virtuosa. Nella vita sociale poi affratella intimamente gli uomini, suggerendo slanci di solidarietà e sensibilità morale che altrimenti mancherebbero, spingendo altresì alla conquista di nuovi mezzi di superamento scientifico che arricchiscono il progresso civile dell’umanità. Il suicidio invece rovina irrimediabilmente l’intera esistenza nel mentre che offende e scandalizza la società che non può trovarvi altro che uno scandaloso delitto di crudeltà e di codardia contro la vita.


A tutto ciò con la Rivelazione si aggiunge il precetto positivo di Dio Non uccidere (380), che vieta non solo l’omicidio, ma anche il suicidio (381).


Solo Dio dunque, il vero padrone della vita umana, può permettere che uno si uccida; ma a scanso di pericolose illusioni una simile autorizzazione, non solo non può mai presumersi ma neppure ci si può accontentare di una autorizzazione implicita, ad es. nelle circostanze; occorre chiara ed esplicita la manifestazione della volontà di Dio. Il caso quindi è più ipotetico che reale; si suole spiegare con questa ipotesi il caso di alcuni martiri, venerati dalla Chiesa; ma spesso l’autenticità dei loro atti non è fuori di ogni discussione.


Non si può ammettere neppure il cosiddetto suicidio religioso, come atto del supremo riconoscimento del supremo dominio di Dio e di assoluta dipendenza da lui come espiazione di peccato. E non è neppure troppo rispondente ai principi morali il gesto di Lucrezia, che preferisce il suicidio al disonore convenzionale. Molto meno è lecito acconsentire all’abbreviazione della propria vita per sottrarsi al dolore (eutanasia).


Controverso è invece se il giudice possa comandare il suicidio come pena di un delitto. Non mancano autori che difendano la liceità del provvedimento e quindi dell’esecuzione, ritenendo che se tale atto non è omicidio, non è neppure suicidio.


Qualche incertezza si è avuta pure tra gli autori a proposito di casi eccezionali del cosiddetto sacrificio della vita, cioè nell’ipotesi di colui che si uccide per non tradire il segreto in caso di ingiusta perquisizione e inquisizione da parte del nemico e del tiranno. E veramente il dubbio può tuttora permanere nel caso in cui i danni di una rivelazione coatta sarebbero immensi, Ma in via ordinaria è comunemente rigettata la liceità del sacrificio della vita nel caso in oggetto.



2. Con la dottrina del sacrificio della vita non va confusa la dottrina dell’attiva permissione della morte in colui che accetta di morire o di abbreviare la vita per attendere ad un fine che stima più nobile della preservazione della vita.


La volontarietà dell’atto che procura la morte può essere nell’agente diretta o indiretta, per cui l’uccisione si dirà a sua volta diretta o indiretta (382).


L’uccisione diretta si ha quando la morte è per sé (non per accidens) effetto dell’atto letale; di modo che, quando si pone un tale atto, si provoca sempre la morte, a meno che un’altra causa non impedisca l’attuazione dell’effetto.


L’uccisione indiretta invece si ha quando l’atto non per sua natura porta alla morte violenta, ma l’effetto segue accidentalmente, cioè per causa di un altro motivo o di altre cause, le quali concorrono con tale atto, causante in effetto la morte. Nell’attiva permissione della morte l’uccisione è indiretta e non quindi intrinsecamente illecita, supposta la moralità, anzi la nobiltà del fine e la proporzione tra ciò che si permette e la causa che si intende perseguire o servire con tale sacrificio. Una tale causa può essere il bene comune sia materiale che morale (progresso della scienza, della cultura ecc.); il bene individuale proprio o di altri, sia spirituale che morale o anche materiale solo, ma notevole.


Tale potrebbe essere il caso di una vergine che, piuttosto che perdere la sua integrità, preferisca morire; di un naufrago che per salvare la vita di un terzo, gli ceda il suo salvagente (a meno che altri doveri verso la famiglia o la patria non rendano questo sacrificio sproporzionato all’altrui utilità); di un marinaio che preferisca affondare insieme con la sua nave, anziché farla cadere in mano del nemico con grave danno per la sua patria ecc. In tutti questi casi la morte non è intesa né come fine né come mezzo, ma è solo permessa.


Al contrario il dovere di conservare sempre la gerarchia dei valori vieta che un atteggiamento analogo a quelli precedentemente descritti sia scelto dal soldato per sfuggire alla prigionia.


Parimenti non è lecito esporsi., senza proporzionato motivo, al pericolo di perdere la vita o la sanità fisica, ed il grado di colpa va misurato oggettivamente tenuto conto della gravità del pericolo e della sua sproporzione nel confronto del bene sperato.


Può dar luogo ad incertezze il verificarsi o meno dell’una o dell’altra condizione.


La casistica in materia è varia e abbondante ed investe problemi di diversa natura, quali la cura del proprio corpo in correlazione di una più o meno giustificata abbreviazione della vita, la determinazione del diritto prevalente in caso di conflitto tra il bene individuale ed il bene sociale ecc.


L’analisi di una casistica minuta ha posto a volte i moralisti di fronte a dei problemi, che possono sembrare peregrini, ma sono pure concreti. Spesso nella valutazione concreta le soluzioni meno ortodosse sono da spiegare con interferenze del sentimento sull’applicazione fredda dei principi da parte della ragione. Poiché non è possibile scendere ad una analisi minuta, basterà aver revocato alcune norme generali ed alcuni esempi.


L’uomo dunque non può disporre della propria vita; ma non ha il dovere di desiderare di vivere. Egli può desiderare la morte, perché si attende un bene più grande nella vita futura; il cristiano che brama la morte per vedere Dio, dimostra una comprensione completa della propria fede. Quando un uomo è giunto al termine della vita, quando l’età lo rende incapace di lavorare, è ragionevole che egli preferisca lasciare questo mondo piuttosto che languirvi, e di subire il decadimento della vecchiaia. Si può bramare la morte: si può cercarla indirettamente, scegliendo una occupazione, che rischi di portare alla morte, purché giusti motivi ispirino la scelta. Nella storia della Chiesa si è avuto il rigetto della ricerca diretta del martirio, ma vi è stata sempre ammirazione per il desiderio del martirio.


In ciò che concerne la cura della salute, i moralisti cattolici insegnano che si ha il dovere di usare la diligenza ordinaria nella preservazione della vita. L’uomo colpito da un grande dispiacere, che cessa di mangiare per stanchezza e si lascia così morire di fame, è colpevole (383), ed il malato deve accettare di curarsi come si ha l’uso di farlo, cioè con mezzi ordinari. Ma si ammette che egli non ha l’obbligo di fare degli sforzi straordinari per salvarsi. E questa regola si applica sia riguardo agli altri sia riguardo a noi stessi.



3. Può essere causa di mettere a rischio la propria vita assieme a quella degli altri l’incidente stradale (384). Perciò ogni guida d’automobile, fatta in condizioni tali da poter perdere il controllo del veicolo, è colpa grave davanti a Dio.


Un cristiano compie con ciò un atto che gli fa rompere la comunione con Colui che egli riconosce come il suo creatore e il padrone della vita. Si tratta qui di una sentenza magisteriale che si riscontra nelle lettere pastorali di vari Vescovi, che richiamano gli automobilisti a voler essere più responsabili e più fraterni nell’uso della loro macchina, affinché cessi la grande strage degli incidenti stradali che, nel mondo, uccide 200 mila persone l’anno.


Senza dubbio il problema è complesso. Infrastrutture varie, insufficiente e scarsa sicurezza del veicolo hanno la loro parte negli incidenti della strada. Inoltre anche la spaventosa fragilità del veicolo ha la sua incidenza, per cui si impone all’attenzione dei pubblici poteri l’obbligatorietà di maggiori dispositivi tecnici per ridurre le conseguenze degli incidenti stradali, nella situazione di pericolo permanente che si è creata con l’accelerata motorizzazione.


Ma sono coloro che guidano la macchina che hanno la responsabilità principale dei sinistri. E le statistiche lo confermano. Il 97% degli incidenti del traffico è imputabile alla condotta dell’uomo. Tre, infatti, risultano i fattori che ricorrono maggiormente nella genesi del sinistro: distrazione, sonnolenza e imprudenza, e tutti e tre sono ” tipici ” dell’essere umano irresponsabile.


Mettersi o persistere a condurre quando il cibo, l’alcool o la caffeina appesantiscono i riflessi e abbassano il limite di vigilanza psichica è esporsi colpevolmente a rischi mortali. Diminuire la normalità della sfera percettiva nelle sue possibilità di ideazione, valutazione critica, coordinazione fluida e reazione rapida, è superficialità imputabile.


La guida è un affare grave che si accosta più al lavoro del macchinista di locomotiva che non al diversivo. Tenere il volante è atto così responsabile quanto utilizzare un bisturi: si può salvare la vita, ma vi è altresì la possibilità di causare la morte. E la vita e la morte non è imputabile al congegno meccanico: l’uomo soltanto ne rende conto.


Ne risponde davanti agli uomini, e in questo ambito giudicano i tribunali. Ne risponde davanti a Dio e Dio giudica i cuori. L’automobilista vi è giudicato sulla condotta nella guida, non sulle conseguenze dell’incidente.



4. Non solo il suicidio, ma anche la diretta mutilazione (385) del proprio corpo è illecita, a meno che non si tratti di un intervento chirurgico necessario per la conservazione della vita o di funzioni più necessario di quella di cui si viene ad essere privati.


Le membra del corpo appartengono all’integrità dell’essere vivente, cioè all’integrità della vita e delle funzioni vitali: perciò anch’esse direttamente appartengono a chi è padrone della vita, di modo che resta all’uomo solo il loro uso.


Essendo poi, membra e relative funzioni, naturalmente subordinate all’integrità del tutto, ne segue per ragione di questa subordinazione d’un membro all’integrità del tutto, che è lecita l’amputazione di un membro, quando la sua ablazione è necessaria condizione per salvare l’integrità della vita. Questa necessità non esiste, quando astenendosi dall’uso di quel membro ammalato, si può ugualmente provvedere al ripristino della salute o ad evitare pericolose conseguenze.



5. Propugnando in modo abbastanza rigido questi principi, fino a una quindicina di anni fa si era apertamente contrari ai trapianti omoplastici (386) nel caso di prelievo di un membro o di un organo intero ancorché gemellare, come ad esempio la donazione di un rene, della cornea, ecc. (387).


Si insisteva particolarmente sul concetto di mero uso del proprio corpo, un uso limitato e legato strettamente alla teleologia immanente che la natura ha impresso in ogni singolo organo e relativa funzione; conseguentemente si escludeva la possibilità di ammettere come lecita l’asportazione di parti anatomiche di una certa importanza dall’insieme dell’organismo e anche una notevole menomazione delle funzioni proprie del medesimo.


Ma nei prelievi a scopo di trapianto la mutilazione non appare semplicemente come un danno inferto al proprio corpo contro natura e contro ragione, ma come un danno proprio che è simultaneamente sorgente di vita ed esercizio di carità verso altri. Perciò la dottrina più recente, pur ritenendo la mutilazione volontaria e diretta per sé contraria alla morale, ammette però una notevole evoluzione nel suo concetto; una evoluzione che ne restringe il contenuto e nel contempo modifica necessariamente il concetto di integrità fisica, anatomica e funzionale, la quale deve essere salvaguardata e restare intangibile.


E sufficientemente salvaguardata e intangibile si ritiene l’integrità personale, allorché resta inviolabile e indisponibile il diritto alla vita e il diritto alle sue funzioni essenziali, in quanto l’uomo, come non può e non deve essere impedito da terzi, così non può porre a sé stesso impedimenti nella consecuzione degli scopi immanenti della propria esistenza.


Il nuovo atteggiamento dei teologici è intimamente legato ai progressi scientifici e tecnici, i quali hanno posto in luce nuovi aspetti e sommamente positivi dei trapianti omoplastici, aprendo concrete possibilità di riuscita, aspetti e possibilità che nel passato non che ignoti erano imprevedibili. È’ quindi naturale che anche la morale, precisando maggiormente le sue indicazioni, senza rinnegare principi immutabili, bensì applicandoli a una nuova realtà, possa assumere nuovi atteggiamenti e prospettare nuove soluzioni, che possono benissimo essere diverse da quelle che la dottrina tradizionale aveva indicate.


Ovviamente la liceità è legata alla presenza di determinate condizioni e richiede le dovute cautele.


Il donatore deve essere perfettamente libero e pienamente consapevole del danno e del rischio che corre; deve trattarsi di venire incontro a gravissime necessità di un paziente; il trapianto deve essere l’unica via per scongiurare la morte; inoltre si richiede che il trapianto abbia molto solida probabilità di riuscita.



6. È alla luce sempre di questi principi che bisogna giudicare di alcuni recenti interventi chirurgici e trattamenti medicali che interessano soprattutto il campo della psicochirurgia e neurochirurgia (388). In tutti quei moderni interventi chirurgici sul cervello che hanno lo scopo di agire direttamente sullo psichismo per sopprimere sintomi mentali gravi e, a volte, pericolosi (leucotomia, leubotomia, lobectomia, talamotomia ecc.) è agli effetti principalmente che bisogna attendere. Accanto agli importanti miglioramenti che ricevono dall’intervento chirurgico con la scomparsa della tensione psichica, i soggetti operati restano inferiormente impoveriti e portati o verso l’apatia o verso una sorta di euforia infantile. Si tratta allora di domandarsi se il bene procurato supera il male (come accade ordinariamente) o almeno è uguale.


Nella chirurgia del dolore, in cui cioè il dolore viene efficacemente combattuto o eliminato, asportando date porzioni della catena simpatica o dei suoi rami, resecando tronchi nervosi, o con interventi meno radicali, bisognerà invece guardare alla pericolosità dell’intervento operatorio, prima di tutto, nel timore che possa venire affrettata una morte altrimenti lontana.


Per il resto questi interventi non sopprimono la coscienza, di cui anzi vengono eliminati i turbamenti. Si tratta naturalmente di dolori insopportabili ed inguaribili ed è lasciato sempre all’eroismo individuale (escluse pericolose allettative di suicidio) di scegliere la via della Croce più pesante.


È ancora nella luce di questi princìpi che si deve giudicare dell’eticità della asportazione delle ghiandole sessuali, operazione lecita se ritenuta necessaria in ordine alla salute fisica, illecita se eseguita per altri motivi. Qualora, poi, il fine fosse di sopprimere la fecondità, alla malizia propria di qualsiasi mutilazione illegittima, verrebbe ad aggiungersi la malizia di un’intenzione contraria al bonum prolis: l’operazione, infatti, sarebbe eseguita nella supposizione dell’uso delle proprie facoltà genitali. Lo stesso si dica di qualsiasi altra operazione tendente direttamente alla sterilizzazione.


È lecita quindi la cura del medico per guarire una malattia, anche se segue la sterilità.



7. La sterilizzazione, invece, per cause eugenetiche o per altri motivi deve considerarsi come una illecita violazione della natura. Né lo Stato la può imporre (389).


La sterilizzazione, come pena, sebbene per sé non si possa rigettare, non è di grande interesse, in quanto spesso non è idonea a raggiungere gli scopi necessari della pena stessa. Per quanto riguarda la tutela del bene comune, bisogna osservare che questa pena può avere come conseguenza una sfrenata ed impudente concupiscenza.


In ogni caso la sterilizzazione, se coatta, contrasta col diritto naturale ed ha sapore omicida; mentre, se è volontaria, costituisce un’esaltazione dell’egoismo edonistico e rappresenta un’autolesione con affinità verso il suicidio.



8. Se è doveroso avere una cura moderata del proprio corpo, si comprende facilmente perché sia peccato non solo pregiudicare positivamente la propria salute senza un motivo proporzionatamente grave, ma anche trascurare, come si è detto, i mezzi ordinari necessari per conservarla. La natura del mezzo va giudicata in rapporto alle possibilità ed agli altri doveri della persona.


L’illiceità dell’abuso dei narcotici, degli stupefacenti e degli ipnotici (390) non è che una facile conseguenza dei principi sopra esposti.


Sono detti ipnotici tutti quegli agenti che conciliano o provocano il sonno forzoso, senza indurre ebbrezza o assenza dei riflessi. A differenza dei primi, i narcotici sono quelle sostanze che determinano la narcosi, sonno assai più profondo (nárkê  = torpore, sonno profondo) con notevole ottundimento della coscienza, con rilassamento muscolare e abolizione dei riflessi.


La necessità della narcosi è resa spesso necessaria dal fatto che il dolore, causando moti istintivi di difesa incoercibili, potrebbe pregiudicare ad es. la precisione e sicurezza dell’intervento operatorio, e provocare morte da arresto del cuore e del respiro per via riflessa; quindi la necessità di ottenere durante l’atto chirurgico il rilasciamento del tono muscolare chiarisce la necessità della narcosi. Oltre a fenomeni bio-fisiologici, i narcotici provocano anche turbamenti nel funzionamento delle attività psichiche. Queste alterazioni psichiche sono state sfruttate nella narco-analisi, pratica medico-psichiatrica tendente a togliere le resistenze inibitrici opposte alla esplorazione della coscienza e del subconscio, mediante la via chimica. Infatti sotto l’influsso dell’etere, narcominal, amytal, pentothal, ecc. iniettati per via endovenosa si produce uno stato crepuscolare tra la narcosi e la veglia tanto nella frase preanestetica quanto in quella che precede immediatamente il risveglio. In questo stato il soggetto, facilissimamente suggestionabile, è incapace di eludere le domande a lui sottoposte per l’assenza dei freni inibitori, che la seminarcosi ha paralizzato e può rivelare segreti che pur egli ignorava.


Si dicono poi stupefacenti quelle sostanze tossiche ad azione elettiva sulla corteccia cerebrale che, inibendo i centri nervosi superiori, sono atte a modificare le capacità percettive, immaginative ed intellettive in modo da indurre (secondo le dosi) stati di semplice euforia, di sonnolenza, di ebbrezza stuporosa, di allucinazioni e di sensazioni cinestetiche generalmente gradevoli.


Il loro uso protratto determina nell’organismo una condizione di abitudine, di resistenza crescente e d’altra parte una diminuzione progressiva di reazione specifica. La mania, fenomeno caratteristico dell’abuso di stupefacenti, pur avendo una base organica, è in se stessa una tendenza impulsiva determinante, essenzialmente psichica.


La morale proibisce l’uso abituale degli ipnotici e narcotici, senza la direzione di un medico coscienzioso e prudente. La morale impone ai medici e a coloro che curano un malato il dovere di non prescrivere ed amministrare narcotici se non con grande cautela e non soltanto per contentare il paziente o per non essere disturbati.


La legittimità della narcosi e della narco-analisi ai fini terapeutici con le cautele dovute e l’assenso da parte del paziente, quando si trovava in uno stato di lucidità, non è contestata (391).


Non si discute neppure sull’uso degli stupefacenti e dei narcotici nel campo della anestesia e come analgesici per interventi operatori; il loro impiego è umano, ragionevole e perciò morale.


Ma si possono presentare questioni morali per l’impiego degli stupefacenti, quando essi, oltre il loro effetto di lenimento del dolore, hanno altri effetti che si presentano con valore negativo. Se queste sostanze diminuissero nel caso concreto la resistenza dell’organismo in modo da facilitare l’opera distruttiva dei fattori morbosi e accelerare la morte, il loro uso come analgesici va regolato secondo il principio del duplice effetto.


È chiaro invece che riguardo all’abuso degli stupefacenti il giudizio morale non può che essere evidentemente di condanna; la ricerca infatti del piacere, ottenuta con l’obnubilamento delle facoltà superiori e la degenerazione biofisiologica, è contraria alla natura dell’uomo. La ricerca del piacere come fine ultimo esclusivo rappresenta una inversione di valori e perciò è essenzialmente immorale.



9. L’ubriachezza (392) è contraria alla virtù della temperanza, e quando non sia semplice ebbrezza, ma privi l’uomo dell’uso della ragione, costituisce una colpa grave.


Essa, infatti, importa un disordine essenziale nella gerarchia delle potenze dell’uomo, subordinando al diletto sensibile l’uso delle facoltà superiori: disordine che è insito, non solo nell’alcoolismo abituale, ma in qualsiasi stato di ubriachezza, e che è indipendente dall’atteggiamento spesso immorale o ripugnante offerto dall’ubriaco e dalle altre gravissime conseguenze di ordine fisiologico cui codesto vizio può dar luogo (epilessia alcolica, alcoolismo cronico, allucinosi acuta, delirium tremens, paranoia alcolica ecc.). Tuttavia va da sé che tutte queste conseguenze di ordine morale e fisiologico, se previste, aggravano notevolmente la colpa di ubriachezza.


Il disordine proprio del peccato di ubriachezza non consiste nella sospensione momentanea dell’uso della ragione (che tale sospensione avviene anche nel sonno), ma nella temporanea paralisi dei poteri intellettuali, per cui talvolta le idee tendono, come nei maniaci, a scivolare per vie illogiche, cessa l’autocritica, viene ad essere momentaneamente distrutto il potere di inibizione, in una parola manca il potere immediato di riprendere da sé l’uso delle facoltà superiori e si rimane necessariamente soggetti all’efficacia dell’intossicazione alcolica.


Il disordine cessa, invece, come si è detto per l’abuso degli stupefacenti, quando l’uso dei medesimi non sia determinato dal desiderio di benessere sensibile, connesso col medesimo, ma sia comandato dalla ragione, in vista di un bene fisico da raggiungere. In tal caso, infatti, viene a cessare quel carattere di irrazionalità, proprio di questo disordine, per cui le facoltà superiori sono subordinate al diletto sensibile. Tuttavia è ovvio che, anche in questo caso, è necessario che il male, che all’organismo può derivare dall’intossicazione propria di queste forme di ebbrezza, sia compensato dal bene che si spera.



10. Il rispetto dovuto al proprio corpo non cessa neanche dopo che la morte avrà disciolta l’unione sostanziale che lo legava all’anima: la funzione da esso svolta durante la vita terrena, come compagno dell’anima e tempio dello Spirito Santo, ed il destino che lo attende dopo la risurrezione, rendono inumana ed illecita qualsiasi profanazione.


Tra queste va notata, quando sia accompagnata da spirito di irriverenza e di empietà, la cremazione (393) dei cadaveri. Pur non esistendo nessun preciso motivo dogmatico che postuli la inumazione, questa si rivela più consona alla divina speranza nella risurrezione dei corpi, che già S. Paolo annunziava come il rifiorire della carne seminata nella terra (394). Al contrario il movimento pro-cremazione, sorto nel sec. XIX, fu ispirato dal principio a motivi agnostici ed ebbe sempre un atteggiamento anticristiano (395). Per questo la Chiesa lo condannò. Queste condanne non si applicano a coloro i quali dispongono che il loro corpo, dopo morte, sia cremato (396) per motivi ragionevoli; anzi bisogna che risulti manifesta la irreligiosità dei motivi, perché la cremazione risulti proibita e si dia corso alle pene (397).



NOTE


378     Fedone, 6.


379     La concezione cinico-stoica giustifica il suicidio come un atto virtuoso (cfr. R. MONDOLFO, II pensiero antico, Roma 1929, 156 ss.). Qui la vita morale dell’uomo si fa consistere in un processo di affrancamento da ogni piacere ed affetto terreno da alimentarsi con continue rinunzie che alla fine creano uno stato d’indifferenza che produce la liberazione che è il supremo ideale di detta scuola. Se però tali rinunzie non sono sufficienti a far superare l’infelicità della vita, l’uomo può ricorrere al suicidio, che, implicando un radicale distacco dalle cose terrene, produce con un semplice gesto la desiata liberazione che fece assurgere a ruolo di simbolo la fine sul rogo di Eracle, celebrato come un eroe del superamento sociale.


380      Es 20, 13; Dt 5, 17; Mt 5, 21, Né vale chiedersi, come fa qualche moralista oggi (cfr. L. Rossi, Suicidio, in Dizionario enc. di teologia morale, 2″ ed,, Roma 1973, p, 1020) se il suicidio possa essere oggi lecito per chi non crede in Dio. Anche oggi la vita è un dono di Dio. Ci potrà essere l’incredulo che non arriva a credere ciò ed avrà allora le attenuanti soggettive, ma oggettivamente l’atto resta quello che è.


381      II suicidio è poi considerato dalla Chiesa delitto specialmente quando è consumato. Ma con ciò non si vuole pronunziare nessun giudizio di responsabilità soggettiva.


382     Cfr. L. BENDER, Occisio directa et indirecta, in Angelicum, 28 (1951) 224-252; A. W. VON EIFF, L’esperimento nell’indagine clinica., in Concilium, a. 7, fase. 5 (1971) 97 [953] 114 [970].


383        Lo stesso si deve dire se alcuno per motivo di lucro o per dar saggio di resistenza fisica prendesse la decisione di astenersi da ogni nutrimento, esponendosi anche a pericolo della morte per inedia. Più complessa è la questione quando simile astensione dal cibo con il proposito di perseverare in questo atteggiamento anche se seguisse la morte (sciopero della fame in senso stretto) fosse presa come mezzo per ottenete un gran bene.


Per alcuni (e la loro opinione ha maggior carattere di probabilità) si avrebbe qui un’uccisione diretta, da condannarsi senz’altro come omicidio, per altri invece si sarebbe di fronte ad un’uccisione indiretta e quindi lecita per grave motivo. Cfr. ANON., Il caso del sindaco di Cork e una discussa questione morale, in Civiltà Cattolica, (1920) IV, 521-531; M. HOGAN, The ecclesiastical Review on morality of Hungerstrike, in The Irish World, New York, 20 maggio 1.933; L. SCREMIN, Dizionario di morale professionale per i medici, Roma 1949, 120; P. PALAZZINI, Suicidio. IV: Sciopero della fame, in EC, XI, 1493-1494.


384       Automobile Club d’Italia. Dialogo internazionale per la moralizzazione dell’utenza stradale. Roma 1-2 ottobre 1965; C. FINTO, II conducente dei veicoli a motore di fronte alla propria coscienza, Roma 1965; Centro studi, probi, medici TCI, tavola rotonda. Tecnica e morale al servivo della sicurezza stradale – atti ufficiali – Milano, 16 Ottobre 1966.


385        Cfr. A, MICHEL, Mutilation, in DTC, X, 2569-2581, L. SCREMIN, Dizionario di morale professionale per i medici, Roma 1949, 86-93; L. SIMEONE-G. DE NINNO, Mutilazione, in EC, VIII, 1573-1575; L. SIMEONE, De mutilatione quaedam, in Miscellanea francescana, 55 (1955) 59-87; G. PERICO, il problema dei trapianti umani e aspetti tecnici e morali, in Aggiornamenti sociali, 6 (1955) 337-352; ID,, II impianto del rene, ibid. (1967) 519 ss,; M. G. BlAGI, Gli atti di disposizione del proprio corpo nel diritto canonico e civile italiano, in Apollinaris, (1968) II, 361-422; E. INNOCENTI, Considerazioni sul trapianto del cuore, Roma 1968 (pro manuscripto); G, BIAGI, Gli atti di disposizione del proprio corpo nel diritto canonico e civile italiano, Roma 1968; F, BATAZZI, Moralità del trapianto renale, Roma 1969; G. PERICO, Trapianti, in Diz. enc. di teol. mor., ed. Paoline, pp. 1089-1098; Pio XII, Allocuzione del 7 settembre 1953), Discorso al comitato promotore dell’associazione italiana donatori di cornea, 14 maggio 1956: AAS 45 (1953) 596-607; 48 (1956) 459-467.


386    I trapianti si distinguono – dal punto di vista biologico – in autoplastici, omoplastici, alleloplastici ed eteroplastici, a seconda che il donatore sia lo stesso individuo, ovvero un altro essere, ma della stessa razza, o di razza diversa, oppure, infine, di specie diversa.


Corrisponde, in certo qual modo, ad un trapianto omoplastico anche la trasfusione sanguigna notissimo mezzo terapeutico che ha ridato la salute e la vita, in pace ed in guerra, ad una innumerevole quantità di infermi.


Nelle operazioni di innesto o di trapianto omoplastici si deve anche tener conto dei gruppi sanguigni, come si fa per la trasfusione del sangue.


La chirurgia dei trapianti di organo ha fatto, nell’ultimo decennio, passi da gigante. Prova ne sia che – dopo il primo successo ottenuto dal Merrill a Boston, trapiantando un rene da un gemello monocoriale all’altro – un siffatto trapianto è stato effettuato già parecchie centinaia di volte, con elevate percentuali di successo.


Per altri organi (polmone, fegato, cuore ecc.) i tentativi di trapianto sono già in avanzata fase sperimentale con parziali successi.


Non esistono più difficoltà di attecchimento per la cornea e per la cartilagine ialina.


La precarietà dell’attecchimento non ha neppure molta importanza negli innesti ossei.


387        L’uso dei trapianti eteroplastici è sempre lecito, purché non abbia uno scopo cattivo (quale sarebbe quello di riattivare una vita libertina mercé il trapianto di gonadi). Purtroppo la loro utilità pratica è più che modesta.


Nel caso di trapianti di tessuti prelevati da cadaveri ed opportunamente conservati (e molti preferiscono dare a questi speciali trapianti il nome di ” impianti “), la liceità morale è subordinata a due pregiudiziali: che il prelievo avvenga col consenso dei parenti, qualora vi siano, del defunto, che il cadavere sia trattato con quel riguardo che gli spetta in considerazione della sua precedente dignità di dimora dell’anima.


388      Sulla leucotomia, cfr, P. TESSON, Leucotomie et moral, Cahiers Laennec, 1, 1951; B. J. FICARRA, Newer ethical problems in medicine and surgery, Westrainster 19.51; R. KOTHEN, Directives recentes de l’Eglise concernant l’cxercise de la medicine, in Saint Luc medical, 24 (1952) 73-177; G, KELLY, Medico-moral problems, St, Louis 1951; A. NIEDERMEYER, Seelenleiden und Seclenbeilung (Psychopathologie und Psychoterapie) (Handbuch… Pastoral Medizin, V), Wien 1952, F. BELLELLI, La neurochirurgia oggi, in La riforma medica, 20 giugno 1964. Pio XII. Discorsi al 1″ Congresso int. di istopatologia del sistema nervoso, 13 settembre 1952; e al 5° Congresso int. di Psicoterapia e Psicopatologia clinica, 13 aprile 1953, in AAS 44 (1952) 779-789; 45 (1953) 278-286. Sulla castrazione, cfr. L. VERVAECK, La castration au point de vue thérapeutique, penal, social, moral, in St. Luc medical, (1936) 128-176; M. RIQUET, La castration, Paris 1948; ID., Castracion. Estudio historico moral, Madrid 1951,


389        Cfr. P. A. MARTIN DE SOBREDILLO, La procréation et la stérilisation au point de vue de droit naturel, Paris 1932; L. BENDER, La sterilizzazione, in Medicina e morale, 1939, 1940, 1941; B. H. MERKELBACH, Quaest, de embriologia et de sterilisatione, Liège 1937, U, LOPEZ, Difesa della, razza ed etica cristiana, in Civiltà Cattolica, 85 (1934) I, 574 ss.; E. BOGANELLI, De coacta sterilisatione, in Apollinaris, 9 (1936) 58-84; A. GENNARO, La sterilizzazione volontaria e coatta, Torino 1950; A. PAZZINI, II medico di fronte alla morale, Brescia 1951, 36-39; A. LANZA-P. PALAZZINI, o. e, 264-270; A. BOSCHI, Problemi morali del matrimonio, Torino 1953, 135 ss,, I, PA5QUIN, Morale e medicina, Roma 1958, 246-247; G. PERICO, La sterilizzazione umana, in A difesa della vita, Milano 1965, 33-34; C. DE NINNO, La sterilizzazione, in Problemi di coscienza, Assisi 1966,227 SS.


La sterilizzazione fu imposta la prima volta negli Stati Uniti, seguiti in ciò da altri Stati, anche se non dappertutto attuata allo stesso modo. Talvolta infatti essa è applicata solo ai dementi od a persone comunque affette da malattie mentali; altre volte invece è estesa anche ad altri tarati.


Tuttavia anche là, dove è stata ammessa, ha sollevato non poche critiche da parte degli stessi eugenisti, sia per l’oscurità che regna ancora circa le leggi dell’eredità, sia perché, anche ammessa la trasmissibilità di una malattia, non è assolutamente provata la necessità della sterilizzazione per la sanità della stirpe. Non si può non tener conto, a tale riguardo, della naturale infecondità od incapacità che colpisce alcuni tarati, e dei processi rigenerativi, di cui sono capaci le cellule turbate da agenti morbigeni, Sia infine per i non pochi danni individuali e sociali, che derivano dalla sterilizzazione (cfr. A. LANZA, Eugenica e morale, in Scuola Cattolica, 69 [1941] 569 ss.).


La Chiesa ha condannato la sterilizzazione. Viene già rilevato nell’enc. Casti connubii (1930): “Le pubbliche autorità non hanno alcuna potestà diretta sulle membra dei sudditi; quindi è che, se non sia intervenuta colpa alcuna, ne vi sia motivo alcuno di infliggere una pena cruenta, non possono mai, in alcun modo ledere direttamente o toccare l’integrità del corpo, né per ragioni eugeniche, né per qualsiasi altra ragione… ” (AAS 22 [1930] 565). II Sant’Uffizio riprovò prima in un decreto del 21 marzo 1931 l’eugenica indipendente, quell’eugenica cioè che si preoccupa unicamente del miglioramento dell’umana stirpe: posthabitis legibus seu naturalibus seu divinis seu ecclesiasticis ad matrimonium singulorum iura spectantibus (AAS 23 [1931] 118 ad II) e quindi con decreto del 24 febbraio 1940, condannò la sterilizzazione coatta imposta dalla pubblica autorità. Questa dottrina e queste condanne sono ricordate nel discorso di Pio XII alle ostetriche, 29 ottobre 1951 (AAS 43 [1951] 844), e in quello ai partecipanti al VII Congresso di ematologia, 12 settembre 1958 (AAS 50 (1958) 734-735). La condanna è ribadita nella Humanae vitae, n, 14; AAS 60 (1968) 490.


390      Cfr. H. MAIER, Der Kokainismus, Leipzig 1926; L. LEVIN, Gli stupefacenti, Milano 1928; LUGIATO, I disturbi mentali, patologia e cura, Milano 1922; G. MOGLIE, Manuale di Psichiatria, Roma 1947; M, MESSINI, Trattato di terapia dittico, Torino 1944; GASTALDI, Gli accordi internazionali e la legislazione italiana sugli stupefacenti, Reggio Emilia 1937; CH. H. NODET, Psychanalise et morale, in Cahiers Laennec, 1 (1946) 22-36; P. DE BOECK, Retour du congres de Rome; quelques questions de deontologie. II; La narco-analyse, in St, Luc medical, 44 (1949) 393-400; E. BOGANELLI, Corpo e spirito, Roma 1951, 191-198; P. PAUZZINI, La coscienza, Roma 1961,299-301; A, W, STORK, Le droghe, in Rassegna medica e culturale, a, 6-7, 1962; VARI, I paradisi della droga, Torino 1968; G. PERICO, Giovani e droga, in Aggiornamenti sociali (1970) 141 ss.


L’attenzione degli studiosi viene oggi richiamata sulle diaboliche possibilità che offre la tecnica dei riflessi condizionati, innestati nell’individuo dopo aver ottenuto lo stato di vuoto e di stupore, per estorcere testimonianze e confessioni assurde. Cfr. I. PAVLOV, I riflessi condizionati, Torino 1950.


391        Balzano dalla proposizione del problema due altre questioni: una psicologica ed una giuridico-morale. La prima si pone in questi termini; è assodato scientificamente che le “confessioni ” ottenute nello stato di seminarcosi siano assolutamente sincere?


La seconda (giuridico-morale) ha parecchie direzioni:


a) Riguardo al valore della testimonianza ottenuta per mezzo di narcotici la questione è già pregiudicata dalle riserve che gli psicologi avanzano sulla sincerità delle confessioni ottenute nello stato di seminarcosi.


b) È legittimo l’uso di detto metodo in campo giuridico?


Per una risposta soddisfacente sono da tenere presenti alcuni principi che vi devono funzionare:


L’imputato non è tenuto a svelarsi spontaneamente (nemo tenetur prodere seipsum).


L’imputato è e deve essere trattato come uomo cioè come persona; quindi si deve rispettarne la libertà che non deve essere menomata con qualsiasi mezzo.


Altra questione è se l’uso di tali sostanze può essere legittimo come mezzo diagnostico di perizia medica allo scopo cioè di scoprire se l’imputato può essere o no simulatore (pazzia, mutismo, sordità, e amnesie simulate). Questa forma di intervento del perito richiede il consenso preventivo dell’imputato perché nessuno può obbligarlo a essere privato della sua volontà e libertà e anche nel caso di consenso il perito deve limitarsi esclusivamente ai fini della sua perizia medico-psichiatrica senza sconfinare nel campo dell’indagine poliziesca.


392      N. COLAJANNI, L’alcoolismo, Catania 1887, E. DE AMICIS, Gli effetti fisiologi del vino, Torino 1890; F. TILLMANN, II Maestro chiama. Compendio di morale cristiana, Brescia 1945, 245-246; V. M. PALMIERI, Medicina legale canonista, Città di Castello-Bari 1946, 47-50. Per l’opera di repressione, svolta contro l’alcoolismo, cfr. E. MARTIRE, Alcoolismo, in EC, I, 728-732; I. BLAND, Hibernian Crusade. The Story of the catholic total abstinence Union of America, Washington 1951; I. PAQUIN, Morale e medicina, Roma 1958, 42, 52-53, 325.


393     Cfr. VARI AUTORI (Camozzini, Cattaneo, Raes, Siffrin, Gambarl, Ciprotti, De Nino), Defunti, in EC, IV, 1310-1530, con scelta bibliografia..


394     Cfr. A. GUICINI, La cremazione dei cadaveri nei rapporti igienici e morali, Milano 1875; A. CHOLLET, La crémation, in Revue des sciences eccl., 54 (1886) 981 ss.; A. BESI, Inumazione e cremazione, Padova 1886; E. VOOSEN, De inhumatione, in Collationes namurcenses, 26 (1932) 349-362; F. ALBA, La cremazione, Torino 1936; E. RIGHI-LAMBERTINI, De vetita cadaverum crematione…, Venegono Inferiore 1948; P. PALAZZINI, Cremazione, in EC, IV, 838-842.


395     Cfr. 1 Cor 15, 36.44. Cfr. pure: Sir 40, 1; Dn 12, 2; Gb 1, 21; 11, 11-39.


396      E’ stato l’atteggiamento decisamente anticristiano dei cremazionisti di ieri e dei loro sodalizi pro cremazione che suscitò per un fatto, in sé non strettamente legato colla dottrina, l’avversione dei credenti e le esplicite condanne della Chiesa. Contro la cremazione, poi, sta un grave argomento di indole sociale, tratto dalla medicina legale, che ha tra i suoi oggetti di studio, per concorrere al retto esercizio della giustizia, il cadavere umano, anche qualche tempo dopo il suo seppellimento dopo una morte che possa apparire in seguito violenta o delittuosa. La cremazione infatti distrugge col cadavere una delle eventuali prove del delitto; è dunque anche socialmente pericolosa per una maggiore sicurezza data al delitto.


397     Cfr. L’Istruzione della S. Congr. della dottrina della fede (già S. Uffizio) del 5 luglio 1963 (alias; 8 maggio 1964); AAS 56 (1964) 822-823,