Gaspare Bretoni un Santo incarnato nel sociale.

L’OSSERVATORE ROMANO, Sabato 14 Febbraio 1998

La riflessione di un Vescovo sulla figura del fondatore degli Stimmatini

di GIUSEPPE AGOSTINO


Arcivescovo di Crotone-Santa Severina

Nella mia città operano da oltre un ventennio i PP. Stimmatini. Amano sul serio la Diocesi e sono molto amati. Noto in loro una ben radicata spiritualità che si esprime in una intensa umanità.

Hanno della comunità non il senso istituzionale, formale ma la «percezione affettiva», vitale.

Osservandoli – e questo è già indicativo perché sanno essere «segno» – mi sono incuriosito della loro spiritualità ed in specie del loro Fondatore. Tra l’altro ho notato che sono dei religiosi, anche in questo, simpatici.

Sanno parlare «con discrezione» ma con «puntualità illuminante» del loro istituto. Non assumono, mai, atteggiamenti di proselitismo ben convinti di uno degli insegnamenti più suggestivi e concreti del loro Fondatore che annotava nel suo Memoriale privato: «Tu non devi precedere, ma seguire il Signore».
La sua canonizzazione che misteriosamente avvenne nella festa di Tutti i Santi (1989), nel giorno in cui alla Chiesa itinerante nel tempo appare la «moltitudine immensa che nessuno può contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua» (Ap 7,9), assieme all’adorante benedizione di Dio, mirabile nei suoi santi, mi ha stimolato a capire questa figura di prete veronese, spentosi alla terra, accesosi per sempre nel firmamento di Dio per la Chiesa, all’età di 76 anni, il 12 giugno 1853.
Non ho fatto ricerche ma solo un’attenta meditazione della quale presento alcuni spunti inquadrando il Bertoni nel suo tempo che ha agganci indiscutibili con il nostro, guardando i cardini della sua spiritualità, le sue scelte prioritarie ed il suo stile mostrato in una santità intensissima ma incarnata, direi, eccezionale nella sua ordinarietà.
I tempi del Bertoni (1777-1853), ordinato prete nel 1800, sono i tempi dell’invasione napoleonica con il tentativo di proporre una cultura rivoluzionaria, e quello successivo del dominio austriaco caratterizzato da una forte linea di restaurazione, che imponeva l’«ordine», pretendendo di soffocare ogni creatività.
Dovette navigare, in fondo, tra Scilla e Cariddi. E mostrò particolarmente chiarezza e saldezza mentre spirava il vento rivoluzionario, e provocante senso profetico di apertura nell’ambiguo momento del perbenismo formale.
Il Bertoni fu, come tutti i santi, uomo per il suo tempo perché fu uomo dell’Eterno. Non fu un adattato, un tattico ma un incarnato ed un infaticabile operatore di carità, di quella carità che senza spiritualismi evadenti né orizzontalismi ambigui, egli ha definito «la perfetta amicizia che passa tra noi e Dio, la quale però in vista di Dio si estende al nostro prossimo, come cosa tutta di Dio e a Dio appartenente».
Con acuta penetrazione del cuore umano e con lucidità soprannaturale, commentando il detto paolino (I Cor 13,5): «Caritas non quaerit quae sua sunt», osservava: «Chi ama con vera amicizia deve cercare l’utile dell’altro; mentre chi cerca l’utile ed il piacere proprio nell’altro, questi ama sé stesso, ma non l’altro».
Il fondamento della sua spiritualità ha due cardini interessantissimi: la dimensione «sponsale» e quella «stimmatica».
Il Bertoni fu uno dei pochi che presentò al suo Istituto ed alla Chiesa la contemplazione dello «sponsalizio» di Maria e Giuseppe, in una prospettiva apostolica.
Ordinariamente, nella tradizione della «spiritualità» cristiana, si sottolinea della figura di Maria, modello della Chiesa, o la «maternità» o la «verginità», raramente si contempla, come esempio per tutti, la «sponsalità». Per il Bertoni, con intensa lettura mistica, il «verginale» illumina l’autentico «sponsale» e fonda il «materno».
È sorprendente ed interessantissimo che un fondatore assegni come patroni e modello ad una congregazione di frati consacrati verginalmente, proprio i «santi Sposi». Il Bertoni contemplò nei santi Sposi la traduzione dell’Amore come gratuità pura, come libertà da sé, dal proprio gusto e, quindi, verginità, e vide in Essi la fecondità sacramentale, cioè, quale riflessione della inesauribile e purissima fecondità divina. In termini concreti e dinamici il Bertoni insegnò che solo chi si fa «sposare» dall’Amore di Dio è verginalmente fecondo.
Questa altissima dimensione mistica la fa l’uomo della contemplazione delle «sante Stimmate» con cui dona nome, cioè caratterizzazione alla sua Congregazione. C’è un legame profondo, infatti, tra la dimensione «sponsale» e quella «stimmatica». Nel fianco aperto, stigmatizzato di Cristo, si apre il «cubicolo» d’amore dove la sposa è fecondata dal «sangue e l’acqua» (Gv 19,34). Le stimmate sono il segno amante della condivisione del dolore umano.
Giustamente osserva p. Giancarlo Bregantini, stimmatino, (ora Vescovo di Locri) (Cfr «La sensibilità sociale del beato Gaspare Bertoni», pro manuscripto 1985, pag. 68): «I santi Sposi e le Stimmate del Signore, nel Bertoni, sono le due facce della stessa medaglia: la conformazione al Cristo, sentito come sposo («fu tratto il mio cor… dalla voce gentil d’un casto sposo: l’udii, n’arsi, il vidi quasi…»), uno Sposo però che lascia nelle vostre membra e nella vostra storia i segni tangibili della sua vita e del suo amore. I segni delle Stimmate – secondo la tradizione mistica di s. Caterina – diventano così il segno visibile della «Conformazione allo Sposo».
Il Bertoni fu maestro di vita, nella sua carne, di questa saldatura tra l’amore ed il soffrire.
Sorprende come la vera forza umana, il suo dinamismo sia scaturito non da forza umana, ma da un «vaso fragile» proprio perché apparisse la «potenza di Dio».
Il Bertoni, infatti, dai 35 ai 76 anni, cioè alla sua morte, ebbe una successione continua, direi petulante, di malattie serie e dolorose. Egli chiamava la sofferenza, come di fatto è, la «scuola di Dio».
E perché fu vero discepolo della Croce, fu vero maestro del dolore fatto amore. Fu fecondo, era chiamato «vero angelo del Consiglio», proprio perché crocifisso.
Nel contesto inquieto o stagnante del suo tempo, vedendo attorno a sé scardinamento di valori e lassismo di vita, confusione e corruzione, fece una scelta, se così posso dire, profeticamente «genetica». In una società in trasformazione andò alle radici, là dove si «genera» l’uomo.
Per usare una plastica immagine del Bresciani «mirò a due imprese, ai giovani ed al clero, alle piante ed ai coltivatori».
I giovani!! Leggendo la vita del Bertoni mi è ritornata in mente un’espressione che ripeteva un mio grande educatore, l’Arciv. Montalbetti, quando in seminario ci diceva: «Un prete è tanto prete per quanti giovani ha accanto».
La ragione è semplice: amare i giovani vuole passione del gratuito, carica di speranza, freschezza di cuore.
I giovani sono il segnale di un tempo e rinnovano continuamente la Chiesa.
E quanti giovani non ha incontrato il Bertoni. Con coraggio, in un momento storico nel quale la sfiducia poteva avere la meglio, senza alcun mezzo economico ed in contesto ecclesiale diffidente, avviò gli «Oratori Mariani».
Cominciò in una tettoia vicina alla canonica di s. Paolo e si estese man mano per tutta la città di Verona e a non poche della Diocesi.
Il metodo educativo precorre le esperienze dei grandi santi educatori dell’800. È il metodo riassumibile in tre forti intenzioni: prevenzione, attivismo, globalità. I giovani non erano gestiti ma corresponsabilizzati. L’avvio del processo educativo non era l’applicazione di un cliché ma un’amicizia profonda, confidente. Calamitava i giovani amandoli.
L’impegnava perché fossero artefici liberi, coscienti della loro vita ma nulla sfuggiva per una educazione integrale: gioco, ricerca, catechizzazione. Il suo metodo era globale.
Il Dalle Vedove (Vita e pensiero del B. Gasp. Bertoni, p. 379) annota e commenta: «È qui che traspaiono più evidenti le analogie con quanto si verificherà nell’Azione Cattolica della fine del sec. XIX e nel movimento scoutistico dell’inizio del sec. XX. D. Gaspare fu veramente un precursore di queste istituzioni non solo sul piano organizzativo ma molto più su quello educativo».
I suoi giovani non erano, come si dice, i figli di «papà»; i suoi oratorî non erano segnali di «perbenismo» o «manierismo» educativo; l’oratorio bertoniano scoppiava di tutte le emarginazioni e tensioni giovanili: c’erano fanciulli orfani, abbandonati, delinquentelli, la maggior parte erano lavoratori. Il Bertoni precorre la via che oggi noi, con sofferta coscienza, chiamiamo degli «ultimi».
Lavorò con i giovani nonostante le non poche difficoltà, addirittura, la soppressione politica dei suoi oratori avvenuta con decreto il 27 maggio 1807, come conclusione formale di un atteggiamento di persecuzione che il governo francese aveva messo in atto nei loro confronti. La Croce fu veramente la sua via.
Altra scelta cui dedicò la sua forte, chiara ed appassionata attenzione fu la formazione dei preti. Era ben a ragione convinto che l’ignoranza ed i vizi del popolo sono da attribuirsi alla trascuratezza del Sacerdote.
Ha chiesto ai preti coerenza, onestà, conversione. Fu forte con i preti disorientati, ripiegati nel mondano, attaccati al denaro, mestieranti. Ed allora si viveva una sfasatura che lo fa gridare senza mezzi termini!!: «O se tanti sacerdoti ai nostri giorni guardassero a questo nobilissimo fine (la gloria di Dio)… o quanto gli spiacerebbero i teatri, le danze, i conviti, le case dei grandi, il far comparsa nel mondo come damerini, il possedere molto ne’ campi e negli scrigni…» (ms. 2238). Il Bertoni soffrì la crisi del clero ed intuì che doveva lavorare, come fece, per formare dei preti appoggiati a Xto, forti della sua Parola e soprattutto liberi da ogni compromesso mondano, da ogni aggancio con il potere.
Comprese che formando dei preti veri, liberi sarebbe stato possibile che essi diventassero liberanti.
La sua attenzione al prete la tradusse concretamente nella fondazione degli Stimmatini cui chiese nelle regole una esperienza di comunione gioiosa, umana, nella ricerca dell’unità nella pluralità di giudizi e di opinioni, in un profondo rispetto reciproco, in una saldatura comunità-autorità che indicò in questa idea: «Mai imporre ma sempre indicare il da farsi, e tutti si servano l’un l’altro».
Queste scelte non furono precludenti ma solo preminenti, dato che il suo cuore si fece «tutto a tutti»; fu, infatti, presente ai poveri, agli ammalati, specie ai moribondi, ai soldati, agli infettivi, ecc.
Dentro queste scelte sono rimasto colpito dallo stile come visse, cioè come sostenne la sua spiritualità, la sua donazione.
Nel modo come si impostò ci sono degli orientamenti attualissimi che a me piace riassumere in questi quattro: coltivarsi come dottrina, esprimersi come povertà, saldarsi ai Vescovi, essere uomini del discernimento, della saggia direzione spirituale.
Il Bertoni non fu un empirico. Questo uomo di «straordinaria carità» studiò moltissimo. Assieme ai sofferenti, ai poveri fece una forte esperienza tra i libri… «da chierico studiava dieci ore al giorno, oltre la scuola…»; si recava «in seminario in tempo di inverno in alcune stanze destinate ad una biblioteca che dovea formarsi. Le suddette stanze erano affatto abbandonate e però il freddo v’era d’intenso che era quasi intollerabile. Pur egli vi durava saldo più ore…» (Dalle Vedove op. cit., pag. 279).
È suggestivo, specie per l’oggi, quando emerge il rischio dell’emotivo religioso, del «volontarismo» morale, risentire questa linea del Bertoni che è una sintesi da ripensare e vivere: Diceva: «Voler sapere per poter edificare: questa è carità». Ed ancora rilevava che il «primo germe di corruzione è l’ignoranza» e molto argutamente: «Io ho detto sempre che le braccia non mancano, ma quel che è bisogno sono le teste: le quali non saranno mai troppe; e chi ha testa, si trova pure ad avere due braccia; ma le braccia non sempre hanno buona la testa. (Ep. Bertoni 219).
Ebbe, mi sia consentita l’espressione, il gusto provocatorio della povertà. La povertà fu la sua forza, paradossalmente la sua ricchezza.
Timbro tipico delle scuole che aprì fu la gratuità. Aveva un criterio che lo guidò sempre e che trascrisse come orientamento ineludibile: «Chi vuol far bene alle anime, deve lasciar stare le borse».
Non partì mai nelle sue opere in misura delle possibilità economiche, anzi risulta chiaro il suo netto rifiuto di ogni eredità, di ogni offerta straordinaria e di ogni elemosina particolare.
Pare che accettasse solo l’elemosina per la S. Messa. Il Dalle Vedove (op. cit., p. 72) osserva: «Don Gaspare mostrerà il suo animo di silenzioso contestatore quando aprendo al pubblico la Chiesa delle Stimmate escluderà ogni cassetta per le elemosine, proibirà assolutamente che si raccolgano offerte nelle Messe e nelle funzioni, e non permetterà che si fondino cappellanie perpetue di Messe. Il ministero suo e dei figli doveva essere interamente gratuito».
Ancora il Bertoni ebbe un senso «ecclesiale» straordinario; anticipò la grande riscoperta conciliare della Chiesa particolare. Volle – e questo è interessantissimo per una congregazione religiosa – i suoi «Stimmatini» in «Obsequium episcoporum». Non tradusse, quindi, la Chiesa nella sua Congregazione; al contrario tradusse la sua Congregazione in temi di Chiesa e di Chiesa locale, di cui si sentì sempre servo ed umile animatore.
Questa saldatura tra esperienza religiosa e Chiesa diocesana è una connotazione «stimmatina» da riscoprire e da approfondire perché è profeticamente indicativa di una via da battere senza divaricazioni e senza confusioni ma in un incontro tale che quanto è «della Chiesa», quale è il carisma religioso, sia di fatto nella Chiesa e per la Chiesa e dove essa esiste e così nella Chiesa locale, secondo la intuizione di s. Cipriano, ripresa dal Conc. Vat. II che vede le «Chiese particolari, formate ad immagine della Chiesa universale» per cui «in esse e da esse è costituita l’una ed unica Chiesa cattolica».
Ed, infine, un altro elemento che connota il suo esprimersi fu l’accoglienza, essere il «segno del Padre», il prete «uomo del discernimento.
Fu chiamato «l’uomo del consiglio», cioè l’uomo che diede «direzione» e strada. Quante persone di ogni condizione, età e stato non incontrò!
Il Bresciani così mostra don Gaspare: «Un sacerdote in povera veste, quasi un anacoreta… che fin dal primo entrare sulla soglia attira il visitatore con l’affabilità dell’incontro e col riverente saluto, quando, anziché mostrarsi il padrone della stanza, se ne proferisce il Servo».
Nelle Costituzioni Stimmatine (cfr 246-247) dice: «La carità prima di tutto si deve mostrare nell’accoglienza, che deve essere accompagnata dai segni esterni della più grande amicizia… senza risparmio di fatiche e di spese…».
Oggi c’è tanto bisogno di direttori spirituali. I religiosi, illuminati dallo Spirito, dovrebbero particolarmente assolvere tale compito.
Possa la sua recente canonizzazione essere per i cari Stimmatini una grande ricarica per attualizzare nell’oggi l’insegnamento ed il carisma del loro Santo fondatore, e possa essere per tutta la Chiesa, per la Chiesa del nostro tempo un segnale profetico perché scopra le autentiche vie di Dio che si incontrano con quelle dell’uomo, per essere «stigmatizzata» con il dolore dell’uomo, ma rivelatrice della sempre nuova e sconvolgente speranza pasquale.