Compendio di Teologia Ascetica e mistica (5)

…L’aumento della vita spirituale per mezzo del merito. La natura del merito. Che cos’è il merito. Come gli atti meritori aumentano la grazia e la gloria. Condizioni che aumentano il nostro merito…

ART.II. LA PARTE DELL’UOMO NELLA VITA CRISTIANA.


 


II. L’aumento della vita spirituale per mezzo del merito.


228. Noi progrediamo per mezzo della lotta contro i nostri nemici ma più ancora con gli atti meritorii che facciamo ogni giorno. Ognì opera buona, fatta liberamente da un’anima in stato di grazia per,un fine soprannaturale, possiede un triplice valore, meritorio, sodisfattorio e impetratorio, che contribuisce al nostro progresso spirituale.


a) Un valore meritorio, col quale aumentiamo il nostro capitale di grazia abituale e i nostri diritti alla gloria celeste: ne riparleremo subito.


b) Un valore sodisfattorio, che inchiude a sua volta un triplice elemento: 1) la propiziazione, che per ragion del cuore contrito ed umiliato ci rende propizio Dio e l’inclina a perdonarci le colpe; 2) l’espiazione che, con l’infusione della grazia, cancella la colpa; 3) la sodisfazione che, per il carattere penoso annesso alle nostre buone opere, annulla in tutto o in parte la pena dovuta al peccato. Questi felici risultati non sono prodotti soltanto dalle opere propriamente dette ma anche dall’accettazione volontaria dei mali e dei patimenti di questa vita, come insegna il Concilio di Trento[1]; il quale aggiunge che vi è in questo un gran segno del divino amore. Che cosa infatti di più consolante che poterci giovare di tutte le avversità per purificarci l’anima e unirla più perfettamente a Dio?


c) Finalmente queste opere hanno pure un valore impetratorio, in quanto contengono una domanda di nuove grazie rivolta all’infinita misericordia di Dio. Come ben fa notare S. Tommaso, si prega non solo quando in modo esplicito si presenta una supplica a Dio, ma anche quando con uno slancio del cuore o con le opere si tende a Lui, così che prega sempre colui che l’intiera sua vita tiene sempre ordinata a Dio: “tamdiu homo orat quamdiu agit corde, ore vel opere ut in Deum tendat, et sic semper orat qui totam suam vitam in Deum ordinat[2]. Infatti, questo slancio verso Dio non è forse una preghiera, un’elevazione dell’anima verso Dio e un mezzo efficacissimo per ottenere da Lui quanto desideriamo per noi e per gli altri?


Per lo scopo che ci proponiamo, ci basterà esporre la dottrina sul merito dicendone: 1° la natura; 2° le condizioni che ne aumentano il valore.


 


I. La natura del merito.


 


Due punti sono da spiegare: 1° che cos’è il merito; 2° in che modo le nostre azioni sono meritorie.


 


1° CHE COS’E’ IL MERITO”.


 


229. A) Il merito in generale è il diritto a una ricompensa. Il merito soprannaturale, di cui qui trattiamo, sarà dunque il diritto a una ricompensa soprannaturale, vale a dire a una partecipazione alla vita di Dio, alla grazia e alla gloria. Non essendo Dio tenuto a farci partecipare alla sua vita, occorrerà una promessa da parte sua per conferirci un vero diritto a questa ricompensa soprannaturale. Si può quindi definire il merito soprannaturale: un diritto a una ricompensa soprannaturale, che risulta da un’opera soprannaturalmente buona, fatta liberamente per Dio, e da una promessa divina che garantisce questa ricompensa.


230. B) Il merito è di due specie: a) il merito propriamente detto (che si chiama de condigno), al quale la retribuzione è dovuta per giustizia, perché vi è una specie d’uguaglianza o di proporzione reale tra l’opera e la retribuzione; b) il merito di convenienza (de congruo), che non si fonda sulla stretta giustizia ma su un’alta convenienza, essendo l’opera solo in piccola misura proporzionata alla ricompensa. Per dare un’idea approssimativa di questa differenza, si può dire che il soldato che si diporta valorosamente sul campo di battaglia, ha uno stretto diritto al soldo di guerra, ma solo un diritto di convenienza ad essere citato nel bollettino di guerra o ad essere decorato.


C) Il Concilio di Trento insegna che le opere dell’uomo giustificato meritano veramente un aumento di grazia, la vita eterna, e, se muore in questo stato, il conseguimento della gloria[3].


231. D) Richiamiamo brevemente le condizioni generali del merito. a) L’opera, per essere meritoria, dev’essere libera; infatti se si opera per forza o per necessità, non si è moralmente responsabili dei propri atti. b) Deve essere soprannaturalmente buona, per aver proporzione colla ricompensa; c) e, quando si tratta di merito propriamente detto, dev’essere fatta in stato di grazia, perché è la grazia che fa abitare e vivere Cristo nell’anima nostra e ci rende partecipi dei suoi meriti; d) fatta nel corso della vita mortale o viatoria, avendo Dio sapientemente determinato che, dopo un periodo di prova in cui possiamo meritare o demeritare, arrivassimo al termine, dove si resta fissati per sempre nello stato in cui si muore. A queste condizioni da parte dell’uomo si aggiunge, da parte di Dio, la promessa che ci dà un vero diritto alla vita eterna; secondo S. Giacomo infatti “il giusto riceve la corona di vita che Dio ha promesso a coloro che l’amano: Accipiet coronam vitae quam repromisit Deus diligentibus se [4].


 


2° COME GLI ATTI MERITORI AUMENTANO LA GRAZIA E LA GLORIA.


 


232. Pare difficile a prima vista capire come atti semplicissimi, comunissimi, ed essenzialmente transitori, possano meritare la vita eterna. La difficoltà sarebbe insolubile se questi atti provenissero solo da noi; ma in verità si è in due a farli, sono il risultato della cooperazione di Dio e della volontà umana il che spiega la loro efficacia: Dio, coronando i nostri meriti, corona pure i suoi doni, avendo in questi meriti una parte preponderante. Spieghiamo dunque la parte di Dio e quella dell’uomo e così intenderemo meglio l’efficacia degli atti meritori. A) Dio è la causa principale e primaria dei nostri meriti: “Non sono io che opero, dice S. Paolo[5], ma la grazia di Dio con me: Non ego, sed gratia Dei mecum. E Dio infatti che crea le nostre facoltà, che le eleva allo stato soprannaturale perfezionandole con le virtù e coi doni dello Spirito Santo; è Dio che con la grazia attuale, preveniente e adiuvante, ci sollecita a fare il bene e ci aiuta a farlo; egli è dunque la causa primaria che mette in moto la nostra volontà e le dà forze nuove per abilitarla a operare soprannaturalmente.


233. B) Ma la nostra libera volontà, rispondendo alle sollecitazioni di Dio, agisce sotto l’influsso della grazia e delle virtù, e diviene quindi causa secondaria ma reale ed efficiente dei nostri atti meritorii, perché siamo i collaboratori di Dio. Senza questo libero consenso non c’è merito; in cielo non meritiamo più, perché là non possiamo non amare Dio che chiaramente vediamo essere bontà infinita e fonte della nostra beatitudine. D’altra parte anche la nostra cooperazione è soprannaturale: per mezzo della grazia abituale noi siamo divinizzati nella nostra sostanza, per mezzo delle virtù infuse e dei doni lo siamo nelle nostre facoltà, e per mezzo della grazia attuale anche nei nostri atti. Vi è quindi vera proporzione tra le nostre azioni, divenute deiformi, e la grazia che è essa pure una vita deiforme o la gloria che non è se non lo sviluppo di questa stessa vita. E’ vero che questi atti sono transitorii e la gloria è eterna; ma poiché nella vita naturale atti che passano producono abiti e stati psicologici che restano, è giusto che nell’ordine soprannaturale avvenga lo stesso, che i nostri atti di virtù, producendo nell’anima una disposizione abituale ad amar Dio, siano ricompensati con una durevole ricompensa; ed essendo l’anima nostra immortale, conviene che la ricompensa non abbia fine.


234. C) Si potrebbe certamente obiettare che, non ostante questa proporzione, Dio non è tenuto a darci una ricompensa così nobile e duratura come la grazia e la gloria. Il che concediamo senza difficoltà e riconosciamo che Dio, nella sua infinita bontà, ci dà più di quanto meritiamo; non sarebbe quindi tenuto a farci godere dell’eterna visione beatifica se non ce l’avesse promesso. Ma ei l’ha promesso per il fatto stesso d’averci destinato a un fine soprannaturale; la qual promessa ci è più volte ricordata nella S. Scrittura, dove la vita eterna ci è presentata come ricompensa promessa ai giusti e come corona di giustizia: “coronam quam repromisit Deus diligentibus se… corona justitiae quam reddet mihi justus judex[6]. Quindi il Concilio di Trento dichiara che la vita eterna è nello stesso tempo una grazia misericordiosamente promessa da Gesù Cristo e una ricompensa che, in virtù della promessa di Dio, è fedelmente concessa alle buone opere ed ai meriti[7].


235. Per ragione appunto di questa promessa si può conchiudere che il merito propriamente detto è qualche cosa di personale: per noi e non per gli altri meritiamo la grazia e la vita eterna, perché la divina promessa non va oltre. ‑ La cosa va ben diversamente per Gesù Cristo, il quale, essendo stato costituito capo morale dell’umanità, in virtù di quest’ufficio meritò per ognuno dei suoi membri, e meritò in senso stretto.


Possiamo certamente meritare anche per gli altri, ma solo con merito di convenienza; il che è già cosa molto consolante, perché cotesto merito viene ad aggiungersi a ciò che meritiamo per noi stessi e ci fa così capaci, lavorando alla nostra santificazione, di cooperare pure a quella dei nostri fratelli. Vediamo ora quali sono le condizioni che aumentano il valore dei nostri atti meritorii.


 


II. Condizioni che aumentano il nostro merito.


 


236. Queste condizioni si traggono dalle varie cause che concorrono a produrre gli atti meritori e quindi da Dio e da noi. Quanto a Dio, possiamo fare assegnamento sulla sua liberalità, perché è sempre magnifico nei suoi doni. Onde la nostra attenzione deve principalmente rivolgersi alle nostre disposizioni: vediamo ciò che può renderle migliori sia da parte della persona che merita, come da parte dell’atto meritorio.


 


I. CONDIZIONI TRATTE DALLA PERSONA.


 237. Quattro sono le condizioni principali che contribuiscono all’aumento dei meriti: il grado di grazia abituale o di carità; ‑ l’unione con Nostro Signore; ‑la purità d’ intenzione; ‑ il fervore.


a) Il grado di grazia santificante. Per meritare in senso proprio, bisogna essere in stato di grazia: quindi quanta più grazia abituale possediamo, tanto più, a parità di condizioni, siamo atti a meritare. E’ vero che alcuni teologi lo negarono sotto pretesto che questa quantità di grazia non influisce sempre sui nostri atti per renderli migliori, e che anche certe anime sante operano talora con negligenza e imperfezione. Ma la dottrina comune è quella che sosteniamo.


1) Infatti il valore d’un atto, anche presso gli uomini, dipende in gran parte dalla dignità della persona che opera e dal credito che gode presso colui che deve ricompensarla. Ora ciò che fa la dignità d’un cristiano e gli dà credito sul cuore di Dio è il grado di grazia o di vita divina a cui è elevato; è questa la ragione per cui i Santi del cielo o della terra hanno un potere d’intercessione così grande. Se quindi possediamo un grado di grazia più alto, ne viene che agli occhi di Dio valiamo più di quelli che ne hanno meno, che maggiormente gli piacciamo, e che per questo capo le nostre azioni sono più nobili, più accette a Dio e quindi più meritorie.


2) Ma poi ordinariamente e normalmente questo grado di grazia avrà un felice influsso sulla perfezione dei nostri atti. Vivendo di vita soprannaturale più abbondante, amando Dio con amore più perfetto, siamo portati a far meglio le nostre azioni, a mettervi più carità, ad essere più generosi nei nostri sacrifizi; le quali disposizioni, come tutti ammettono, aumentano certamente i nostri meriti. Né si dica che talora avviene il contrario; si ha in tal caso l’eccezione non la regola generale, e noi ne abbiamo tenuto conto aggiungendo: a parità di condizioni. Quanto consolante è questa dottrina! Moltiplicando gli atti meritori, aumentiamo ogni giorno il nostro capitale di grazia; questo capitale a sua volta ci aiuta a mettere maggior amore nelle nostre opere, onde acquistano maggior valore per accrescere la nostra vita soprannaturale: Qui justus est, justificetur adhuc.


238. b) Il grado d’unione con Nostro Signore. E’ cosa evidente: la fonte del nostro merito é Gesù Cristo, autore della nostra santificazione, causa meritoria principale di tutti i beni soprannaturali, capo d’un corpo mistico di cui noi siamo le membra. Quanto più vicini siamo alla sorgente, tanto più riceviamo della sua pienezza; quanto più ci accostiamo all’autore di ogni santità, tanto maggior grazia riceviamo; quanto più siamo uniti al capo, tanto più riceviamo da lui moto e vita. E non è ciò che dice Nostro Signore stesso in quel bel paragone della vite? “Io sono la vite, voi i tralci… chi rimane in me ed io in lui, questi porta gran frutto: Ego sum vitis vera, vos palmites… qui manet in me, et ego in eo, hic fert fructum multum”[8].


Uniti a Gesù come i tralci al ceppo, noi riceviamo tanto maggior linfa divina quanto più abitualmente, più attualmente, più strettamente siamo uniti al ceppo divino. Ecco perché le anime fervorose o che tali vogliono divenire, cercarono sempre un’unione ognor più intima con Nostro Signore; ecco perché la Chiesa stessa ci chiede di fare le nostre azioni per Lui, con Lui, in Lui: per Lui, per Ipsum, perché “nessuno va al Padre senza passar per Lui, nemo venit ad Patrem nisi per me[9]; con Lui, cum Ipso, operando con Lui, perché si degna di essere il nostro collaboratore; in Lui, in Ipso, vale a dire nella sua virtù, nella sua forza, e soprattutto nelle sue intenzioni, non avendone altre che le sue.


Gesù allora vive in noi, ispira i nostri pensieri, i nostri desideri, le nostre azioni, tanto da poter dire con S. Paolo: “Io vivo, non più io, ma vive in me Gesù: Vivo autem, jam non ego, vivit vero in me Christus[10]. A chiaro che opere fatte sotto l’influsso e l’azione vivificante di Cristo, con l’onnipotente sua collaborazione, hanno un valore incomparabilmente più grande che se fossero fatte da noi soli. Quindi in pratica bisogna unirsi spesso, massime al principio delle nostre azioni, a N. S. Gesù Cristo e alle sue così perfette intenzioni, con la piena coscienza della nostra incapacità a far nulla di bene da noi stessi e con l’incrollabile fiducia ch’Egli può rimediare alla nostra debolezza.


239. c) La purità d’ intenzione o la perfezione del motivo che ci fa operare. Molti teologi dicono che perché le nostre azioni siano meritorie basta che siano ispirate da un motivo soprannaturale di timore, di speranza o d’amore. S. Tommaso vuole certamente che siano fatte sotto l’influsso almeno virtuale della carità, ossia in virtù d’un atto d’amor di Dio posto precedentemente e il cui influsso persevera. Ma aggiunge che questa condizione si avvera in tutti coloro che sono in stato di grazia e compiono un atto lecito: “Habentibus caritatem omnis actus est meritorius vel demeritorius”[11]. Ogni atto buono infatti si riconduce ad una virtù; ora ogni virtù converge alla carità, essendo essa la regina che comanda a tutte le virtù, come la volontà è la regina di tutte le facoltà. La carità, sempre attiva, ordina a Dio tutti i nostri atti buoni e vivifica tutte le virtù dando loro la forma.


Tuttavia, se vogliamo che i nostri atti diventino meritori quanto più è possibile, occorre una purità d’intenzione molto più perfetta e attuale. L’intenzione è la cosa principale nei nostri atti, è l’occhio che li illumina e li dirige al debito fine, è l’anima che li ispira e dà loro valore agli occhi di Dio: “Si oculus tuus fuerit simplex, totum corpus lucidum erit “. Ora tre elementi danno alle nostre intenzioni un valore speciale.


240. 1) Essendo la carità la regina e la forma delle virtù, ogni atto ispirato dall’amor di Dio e del prossimo avrà assai maggior merito di quelli ispirati dal timore o dalla speranza. Conviene quindi che tutte le nostre azioni siano fatte per amore: così diventano, anche le più comuni (come il pasto e la ricreazione), atti di carità, e partecipano al valore di questa virtù, senza perdere il proprio; mangiare per rifarsi le forze è motivo onesto e in un cristiano anche meritorio; ma rifarsi le forze per meglio lavorare per Dio e per le anime, è motivo di carità assai superiore che nobilita quest’atto e gli conferisce un valore meritorio molto più grande.


241. 2) Poiché gli atti di virtù informati dalla carità non perdono il proprio valore, ne viene che un atto fatto con più intenzioni insieme sarà più meritorio. Così un atto d’obbedienza ai superiori fatto per doppio motivo, per rispetto alla loro autorità e nello stesso tempo per amor di Dio considerato nella loro persona, avrà il doppio merito dell’obbedienza e della carità. Uno stesso atto può quindi avere un triplice, un quadruplice valore: detestando i miei peccati perché hanno offeso Dio, io posso avere l’intenzione di praticare nello stesso tempo la penitenza, l’umiltá e l’amor di Dio; onde quest’atto è triplicemente meritorio. È quindi cosa utile proporsi più intenzioni soprannaturali; ma si eviti di dar negli eccessi col cercare troppo affannosamente intenzioni multiple, il che turba l’anima. Abbracciare quelle che spontaneamente ci si presentano e subordinarle alla divina carità, è questo il mezzo di aumentare i propri meriti senza perdere la pace dell’anima.


242. La volontà dell’uomo essendo volubile, è necessario esprimere e rinnovar spesso le intenzioni soprannaturali; altrimenti potrebbe accadere che un atto cominciato per Dio continuasse sotto l’influsso della curiosità, della sensualità o dell’amor proprio, e perdesse così una parte del suo valore; dico una parte, perché queste intenzioni sussidiarie non distruggendo intieramente la principale, l’atto non cessa d’essere soprannaturale e meritorio nel suo complesso. Quando una nave, salpando da Genova, fa rotta per New York, non basta dirigere la prora una volta per sempre verso questa città; ma poiché la marea, i venti e le correnti tendono a farla deviare , bisogna continuamente ricondurla, per mezzo del timone, verso la meta. Così è della nostra volontà; non basta ordinarla una volta, e neppure ogni giorno, a Dio; le umane passioni e le influenze esterne la faranno deviar presto dalla diritta via; bisogna spesso con atto esplicito ricondurla verso Dio e verso la carità. Così le nostre intenzioni restano costantemente soprannaturali, anzi perfette e assai meritorie, specialmente se vi aggiungiamo il fervore nell’operare.


243. d) L’intensità o il fervore con cui sì opera. Si può infatti operare, anche facendo il bene, con negligenza, con poco sforzo, o invece con slancio, con tutta l’energia di cui si è capaci, utilizzando tutta la grazia attuale messa a nostra disposizione. E’ chiaro che il risultato in questi due casi sarà ben diverso. Se si opera con negligenza, non si acquistano che pochi meriti e talvolta anche uno si rende colpevole di qualche colpa veniale, la quale del resto non distrugge tutto il merito; se invece uno prega, lavora, si sacrifica con tutta i? anima, ognuna delle fatte azioni merita una quantità considerevole di grazia abituale. Senza entrare qui in ipotesi poco sicure, si può dire con certezza che, rendendo Dio il cento per uno di ciò che si fa per lui, un’ anima fervorosa acquista ogni giorno un numero considerevolissimo di gradi di grazia, e diviene così in poco tempo molto perfetta, secondo l’osservazione della Sapienza: “Perfezionatosi in breve, compi una lunga carriera; Consummatus in brevi, explevit tempora multa”[12]. Qual prezioso incoraggiamento al fervore, e come torna conto rinnovar spesso gli sforzi con energia e perseveranza!


 


2. CONDIZIONI TRATTE DALL’OGGETTO O DALL’ATTO STESSO.


244. Non le sole disposizioni della persona aumentano il merito, ma tutte le circostanze che contribuiscono a rendere l’azione più perfetta. Le principali sono quattro :


a) L’eccellenza dell’oggetto o dell’atto che si compie. Vi è gerarchia nelle virtù: le virtù teologali sono più perfette delle virtù morali, quindi gli atti di fede, di speranza e massime quelli di carità sono più meritori degli atti di prudenza, di giustizia, di temperanza, ecc. Ma, come abbiamo detto, questi ultimi possono, per ragione dell’intenzione, diventare atti d’amore e parteciparne quindi lo speciale valore. Similmente gli atti di religione, che tendono direttamente alla gloria di Dio, sono più perfetti di quelli che hanno per fine diretto la nostra santificazione.


b) Per certe azioni, la quantità può influire sul merito; così, a parità di condizioni, un dono generoso di mille lire sarà più meritorio di uno di dieci centesimi. Ma si tratti di quantità relativa; l’obolo della vedova, che si priva d’ una parte del necessario, moralmente vale di più della ricca offerta di colui che si spoglia d’una parte del superfluo.


c) Anche la durata rende l’azione più meritoria pregare, soffrire per un’ora vale più che farlo per cinque minuti, perché questo prolungamento esige maggiore sforzo e maggior amore.


245. d) La difficoltà dell’atto, non per sé stessa ma in quanto richiede maggior amor di Dio, sforzo Più energico e più sostenuto, quando non provenga da imperfezione attuale della volontà, accresce anch’essa il merito. Così resistere a una tentazione violenta è più meritorio che resistere a una tentazione leggiera; praticare la dolcezza quando si ha un temperamento portato alla collera e quando si è frequentemente provocati da chi ci sta attorno, e più difficile e più meritorio che farlo quando si ha un naturale dolce e timido e si è circondati da persone benevoli.


Non se ne deve però conchiudere che la facilità, acquistata con ripetuti atti di virtù, diminuisca necessariamente il merito; questa facilità, quando uno se ne giovi per continuare e anche aumentare lo sforzo soprannaturale, favorisce l’intensità o il fervore dell’atto, e sotto quest’aspetto aumenta il merito, come abbiamo già spiegato. Come un buon operaio, perfezionandosi nel suo mestiere, evita ogni sciupio di tempo, di materia e di forza e ottiene maggior frutto con minor fatica; così un cristiano che sa meglio servirsi degli strumenti di santificazione, evita le perdite di tempo, molti sforzi inutili, e con minor fatica guadagna maggiori meriti. I Santi, che con la pratica delle virtù riescono a fare più facilmente degli altri atti di umiltà, d’ obbedienza, di religione, non ne hanno minor merito per il fatto che praticano più facilmente e più frequentemente l’amor di Dio; e d’ altra parte essi continuano a fare sforzi e sacrifizi nelle circostanze in cui sono necessari. In conclusione, la difficoltà accresce il merito, non in quanto è ostacolo da vincere ma in quanto eccita maggiore slancio e maggior amore.


Aggiungiamo solamente che queste condizioni oggettive non influiscono realmente sul merito se non in quanto sono liberamente accettate e volute e reagiscono quindi sulla perfezione delle interne nostre disposizioni.


 


Conclusione.


 


246. La conclusione che spontaneamente ne viene è la necessità di santificare tutte e ciascuna delle nostre azioni, anche le più comuni. Come infatti abbiamo detto, possono essere tutte meritorie, se le facciamo con mire soprannaturali, in unione con l’Operaio di Nazareth, il quale, lavorando nella sua bottega, meritava continuamente per noi. E se è così, qual progresso non possiamo fare in un sol giorno! Dal primo svegliarsi del mattino fino al riposo della sera, centinaia di atti meritori un’anima raccolta e generosa può compire; perché non solo ogni azione, ma, quando si prolunga, ogni sforzo per farla meglio, per esempio, per cacciar le distrazioni nella preghiera, per applicare la mente al lavoro, per schivare una parola poco caritatevole, per rendere al prossimo il minimo servizio; ogni parola ispirata dalla carità; ogni buon pensiero da cui si trae profitto; in una parola, tutti i movimenti interni dell’anima liberamente diretti verso Dio, sono altrettanti atti meritori che fanno crescere Dio e la grazia nell’anima nostra.


247. Si può quindi dire con tutta verità che non c’è mezzo più e efficace, più pratico, più facile a tutti per santificarsi, che rendere soprannaturali tutte le proprie azioni; questo mezzo basta da solo ad elevare in breve tempo un’anima al più alto grado di santità. Ogni atto è allora un germe di grazia, perché la fa germogliare e crescere nell’anima, e un germe di gloria, perché aumenta nello stesso tempo i nostri diritti alle beatitudine celeste.


248. Il mezzo pratico di convertire a questo modo tutti i nostri atti in meriti, è di raccoglierci un momento prima di operare, di rinunziare positivamente a ogni intenzione naturale o cattiva, di unirci a Nostro Signore, nostro modello e nostro mediatore, col sentimento della nostra impotenza, e offrire per mezzo di Lui le nostre azioni a Dio per la gloria sua e per il bene delle anime; così intesa l’offerta spesso rinnovata delle nostre azioni è un atto di rinunzia, di umiltà, di amore a Nostro Signore, di amore di Dio, di amore del prossimo; è un’accorciatoia per giungere alla perfezione[13]. A pervenirvi più efficacemente abbiamo pure a nostra disposizione i Sacramenti.




Note:




[1] Sess. XIV, De sacram. paen, cap. 9: “Docet praeterea tantam esse divinae munificentiae largitatem, ut non solum poenis spente a nobis pro vindicando peccato susceptis… sed etiam (quod maximum amoris argumentum est) temporalibus flagellis a Deo inflictis et a nobis patienter toleratis apud Deura Patrem per Christum Jesum satisfacere valeamus”.



[2] In Romanos, cap. I, 9-10.



[3] Jac., 1. 12.



[4] Jac., 1. 22.



[5] 1 Cor. XV, 10.



[6] Jac., 1, 12: Il Tim., IV, 8.



[7] Sess. VI, c. 16.



[8] Joan, XV, 1‑6.



[9] Joan., XIV, 6.



[10] Galat., II, 20.



[11] Quaest. disput., de Malo, q. 2, a. 5, ad 7



[12] Sap, IV, 13.



[13] Tutti gli autori spirituali raccomandano quest’offerta sotto una forma o sotto un’ altra, come il RODRIGUEZ, Pratica, P. 1, 2° et 3° Trattato; J.‑J. OLIER, Introduction, c. XV; TRONSON, Examens, XXVI‑XXIX.