Compendio di Teologia Ascetica e Mistica (1320-1338)


Di Adolfo Tanquerey. Parte seconda. Le Tre Vie. LIBRO III. La via unitiva. IV. Classificazione dei doni dello Spirito Santo. § II. Dei doni in particolare. I. Il dono del consiglio. II. Il dono della pietà. III. Il dono della fortezza. IV. Il dono del timore.


IV. Classificazione dei doni dello Spirito
Santo.


1320.   Il Profeta Isaia, vaticinando la
venuta del Messia, dichiara che riposerà su di lui lo Spirito di Dio, “spirito
di sapienza e d’intelletto, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di
scienza e di timore” 1320-1. Incorporati col battesimo a Cristo, noi
partecipiamo degli stessi doni, che, secondo l’insegnamento tradizionale, sono
sette.

Si possono classificare in varie maniere.

A) Quanto a perfezione, il meno perfetto è il
timor di Dio, e il più perfetto è il dono della sapienza.

B) Se si considerano le facoltà su cui operano, si
distinguono in doni intellettuali e in doni affettivi: i primi,
che illuminano l’intelletto, sono la scienza, l’intelletto, la sapienza e il
consiglio; i secondi, che fortificano la volontà, sono la pietà, la fortezza e
il timor di Dio. — Tra i doni intellettuali, tre specialmente producono la
contemplazione infusa: i doni della scienza, dell’intelletto e
della sapienza; gli altri sono detti attivi.

C) Se si studiano i doni in corrispondenza colle virtù da
essi perfezionate:


  • il dono del consiglio perfezione la prudenza;
  • il dono della pietà perfeziona la religione,
    che è virtù annessa alla giustizia;
  • il dono del timore perfeziona la virtù della
    temperanza;
  • i doni della scienza e dell’intelletto
    perfezionano la virtù della fede;
  • il dono del timore si riferisce alla speranza;
  • il dono della scienza alla virtù della carità.
Noi seguiamo questa divisione, perchè fa meglio
risaltare la natura di ogni dono appaiandolo alla corrispondente virtù.

 



§ II. Dei doni in particolare.

I. Il dono del consiglio.

1321.   1° Natura. A) Il dono del
consiglio perfeziona la virtù della prudenza, facendoci giudicare prontamente
e sicuramente, per una specie di intuizione soprannaturale, ciò che conviene
fare, specialmente nei casi difficili.
Con la virtù della prudenza noi
riflettiano e accuratamente ricerchiamo i mezzi migliori a conseguire uno scopo,
giovandoci delle lezioni del passato e traendo partito dalle cognizioni presenti
per prendere una savia risoluzione. Col dono del consiglio la cosa corre
altrimenti: lo Spirito Santo ci parla al cuore e ci fa intendere in un istante
quello che dobbiamo fare; onde si effettua la promessa di Nostro Signore agli
apostoli: “Quando sarete posti nelle loro mani, non vi date pensiero di che o di
come abbiate a parlare, perchè in quel punto vi sarà dato ciò che dovrete dire:
nolite cogitare quomodo aut quid loquamini; dabitur enim vobis in illâ horâ
quid loquamini
” 1321-1. Questo appunto vediamo nel contegno di
S. Pietro dopo la Pentecoste: arrestato dal Sinedrio, riceve ordine di non
predicar più Gesù Cristo; ed egli subito risponde: “Obedire oportet Dei magis
quam hominibus
 1321-2: è meglio ubbidire a Dio che agli
uomini”.

Molti santi godettero del dono del consiglio. S. Antonino
lo possedeva in sì alto grado che i posteri gli diedero il titolo di buon
consigliere, Antoninus consiliorum; veniva infatti consultato non solo
dai semplici fedeli, ma anche da uomini di Stato, specialmente da Cosimo dei
Medici, che lo scelse più volte per ambasciatore. Ammiriamo pure questo dono in
S. Caterina da Siena, la quale, benchè giovanissima e senza studi, dà savi
consigli a principi, a Cardinali, agli stessi Sommi Pontefici; in
S. Giovanna d’Arco che, ignara d’arte militare, forma piani di guerra
ammirati dai migliori capitani, e indica ove attingesse la sua sapienza: “Voi
siete stati al vostro consiglio, e io pure sono stata al mio”.

1322.   B) L’oggetto proprio
del dono del consiglio è la buona direzione delle azioni particolari; i doni
della scienza e dell’intelletto ci danno i principi generali; il dono del
consiglio ce li fa applicare ai mille casi particolari che ci si presentano: i
lumi dello Spirito Santo ci mostrano allora ciò che dobbiamo fare nel tempo, nel
luogo e nelle circostanze in cui ci troviamo; e, se siamo incaricati di dirigere
gli altri, quali consigli dobbiamo dare.

1323.   2° Necessità. A) A
tutti
questo dono è necessario in certi casi più importanti e più difficili,
dove si tratta dell’eterna salute o della propria santificazione, per esempio
nella vocazione o in certe occasioni di peccato che s’incontrano nell’esercizio
del proprio ufficio. Essendo la ragione umana fallibile ed incerta nelle sue vie
e non potendo procedere che lentamente, è necessario, nei momenti decisivi della
vita, ricevere i lumi di questo divino Consigliere, che abbraccia tutto con un
unico sguardo e che in tempo opportuno ci fa con sicurezza vedere ciò che
dobbiamo fare in questa o quella difficile circostanza 1323-1. “Col dono del consiglio, dice Mons. Landrieux,
l’anima cristiana ha il sicuro discernimento dei mezzi; vede la propria via; e
la batte intrepida, per ardua e arida e ripugnante che sia… sapendo aspettar
l’ora propizia” 1323-2.

B) Questo dono è necessario specialmente ai
superiori e ai sacerdoti, così per la propria come per l’altrui
santificazione. a) È talora così difficile saper conciliare la vita
interiore con l’apostolato, l’affetto che si deve alle anime con la perfetta
castità, la semplicità della colomba con la prudenza del serpente, che non è
davvero di troppo un lume speciale dello Spirito Santo che suggerisca nel
momento opportuno la condotta da tenere. b) Parimenti i
Superiori, che devono far fedelmente osservare la regola e nello stesso
tempo conservarsi la fiducia e l’affetto dei sudditi, hanno bisogno di molto
discernimento per associare una giusta severità con la bontà, non moltiplicar le
prescrizioni e gli avvisi e fare osservare la regola più per amore che per
timore. c) Quanto ai direttori poi di qual lume non hanno
bisogno per discernere ciò che conviene a ognuno dei loro diretti, conoscere i
difetti e scegliere i mezzi migliori per riformarli; dar retto giudizio sulla
vocazione e guidare ogni anima al grado di perfezione o al genere di vita a cui
è chiamata!

1324.   3° Mezzi per coltivarlo.
A
) Per coltivar questo dono è necessario prima di tutto avere profondo
sentimento della nostra impotenza e ricorrere spesso allo Spirito Santo perchè
ci faccia conoscere le sue vie: “Vias tuas, Domine, demonstra mihi: et
semitas tuas edoce me
” 1324-1. Verrà allora o in un modo o in un altro ad
illuminarci, perchè s’abbassa volentieri agli umili; principalmente se ci
studiamo di invocarlo fin dal mattino per tutta la giornata, poi al principio
delle principali azioni e specialmente nei casi difficili.

B) Bisogna pure abituarsi a prestare orecchio alla
voce dello Spirito Santo, a giudicar tutto alla sua luce senza lasciarsi muovere
da considerazioni umane, e a seguirne le minime ispirazioni; trovando l’anima
arrendevole e docile le parlerà al cuore con molto maggior
frequenza 1324-2.

 
II. Il dono della pietà.

1325.   1° Natura. Questo dono
perfeziona la virtù della religione, che è annessa alla giustizia,
producendo nel cuore un affetto filiale a Dio e una tenera devozione alle
persone o alle cose divine, per farci compiere con santa premura i doveri
religiosi.


La virtù della religione si acquista
laboriosamente, il dono della pietà ci è comunicato dallo
Spirito Santo.

A) Ci fa vedere in Dio non più soltanto il supremo
Padrone, ma un ottimo e amantissimo Padre: “Accepistis spiritum adoptionis
filiorum, in quo clamamus: Abba, Pater
” 1325-1. Onde ci allarga l’anima con la confidenza e
l’amore, senza escludere la debita riverenza.

Coltiva quindi in noi un triplice sentimenti: 1) Un
rispetto filiale per Dio, che ce lo fa adorare con santa premura, come un
Padre dilettissimo; onde le pratiche di pietà, in cambio di riuscire pesanti,
diventano un bisogno dell’anima, uno slancio del cuore verso Dio. 2) Un
amor tenero e generoso, che ci porta a sacrificarci per Dio e per la sua
gloria, a fine di piacergli: “quæ placita sunt ei facio semper“. Non è
quindi una pietà egoista, che vada in cerca di consolazioni; una pietà inerte,
che resti oziosa quando invece bisognerebbe operare; una pietà sentimentale, che
cerchi soltanto emozioni e si perda in fantasticherie: è pietà virile, che
manifesta l’amore facendo la divina volontà. 3) Un’affettuosa
ubbidienza
, che vede nei precetti e nei consigli la altamente sapiente e
paterna espressione dei divini voleri su di noi; onde un santo abbandono nelle
mani di questo amantissimo Padre, che conosce meglio di noi ciò che ci conviene
e che non ci prova se non per purificarci e unirci a lui: “diligentibus Deum
omnia cooperantur in bonum
” 1325-2.

1326.   B) Questo stesso sentimento
ci fa amare le persone e le cose che partecipano dell’essere
divino e delle sue perfezioni.

1) Onde amiamo e veneriamo la SS. Vergine, perchè è Madre
di Dio e Madre nostra (n. 155-156); riversiamo in lei qualche cosa della
venerazione e dell’amore che abbiamo per Dio, essendo quella tra tutte le
creature che meglio riflette le divine perfezioni. 2) Così pure amiamo e
veneriamo negli Angeli e nei Santi un riflesso dei divini attributi. 3) La
Sacra Scrittura diventa per noi la vera parola di Dio e come una lettera
scrittaci dal Padre celeste, che ce ne comunica il pensiero e i disegni su di
noi. 4) La Santa Chiesa è per noi la Sposa di Cristo, uscita
dal sacro suo costato, che ne perpetua la missione sulla terra, rivestita
dell’infallibile sua autorità; e la madre nostra che ci generò alla vita
della grazia da lei alimentata coi sacramenti. Prendiamo quindi parte a tutto
ciò che prossimamente la riguarda, ai suoi trionfi come alle sue umiliazioni;
facciamo nostri tutti gli interessi suoi, lieti di poterli promuovere; ne
compatiamo i dolori; abbiamo insomma per lei un amore filiale. Vi
aggiungiamo pure una cordiale ubbidienza, persuasi come siamo che
l’assoggettarci ai suoi precetti è un ubbidire a Dio stesso: “qui vos audit,
me audit
” 1326-1. 5) Il capo della Chiesa, il Sommo
Pontefice
, è per noi il luogotenente, il rappresentante visibile di Gesù
Cristo sulla terra; onde riversiamo su lui la venerazione e l’amore che abbiamo
pel capo invisibile della Chiesa e dolce ci torna l’ubbidire a lui come a Cristo
stesso. 6) Questi sentimenti li proviamo pure verso i nostri
superiori, in cui vediamo volentieri Gesù Cristo: “superiori meo
imaginem Christi imposui
; e se Dio ci affida degli inferiori,
abbiamo per loro quella filiale tenerezza che Dio ha per noi.

1327.   2° Necessità. A) Tutti i
cristiani hanno bisogno di questo dono per adempiere lietamente e premurosamente
i doveri di religione verso Dio, di rispettosa ubbidienza ai superiori e di
condiscendenza cogli inferiori. Senza di esso tratterebbero con Dio come con un
padrone: la preghiera riuscirebbe più un peso che una consolazione, le prove
provvidenziali parrebbero castighi severi ed anche ingiusti. Per opera di questo
dono, invece, Dio ci appare come Padre, a cui con filiale contento porgiamo i
nostri ossequi e con dolce sottomissione baciamo quella mano che ci percuote
solo per purificarci e unirci più intimamente a lui.

1328.   B) Questo
dono è assai più necessario ai sacerdoti, ai religiosi, a tutte le persone che
si consacrano a Dio pur vivendo nel mondo. a) Senza di esso, i
numerosi esercizi spirituali che formano come la trama della loro vita,
diverrebbero giogo insopportabile; perchè non si può pensare lungamente a Dio
che quando si ama; ora è appunto il dono della pietà quello che, unito alla
carità, ci mette nell’anima sentimenti di filiale tenerezza verso Dio, che
trasformano i pii esercizi in dolce conversazione col Padre celeste. Vengono
talora, è vero, le aridità a turbare questa conversazione, ma si accettano
pazientemente, anzi lietamente, come venienti da un Padre che si nasconde solo
per farsi cercare; e non desiderando che un’unica cosa, di piacergli, si è
contenti di soffrire per lui: ubi amatur non laboratur.

b) Non ci è meno necessario questo dono per trattare con
bontà e dolcezza le persone che non ci fossero naturalmente simpatiche; ed avere
paterna tenerezza per coloro che Dio si degna di affidarci, appropriandoci i
sentimenti di S. Paolo, che nei discepoli suoi voleva formar Gesù Cristo:
Filioli mei, quos iterum parturio donec formetur Christus in
vobis
” 1328-1.

1329.   3° Mezzi per coltivar questo
dono. A
) Il primo è di meditar frequentemente quei bei testi della
Sacra Scrittura
che descrivono la bontà e la misericordia paterna di Dio,
verso gli uomini e principalmente verso i giusti (n. 93-96). Il titolo di
Padre è quello sotto cui si compiace di essere conosciuto ed amato, massime
nella Nuova Legge; onde dobbiamo ricorrere a lui, in ogni difficoltà, con la
premura e la confidenza di figli. Perciò amorosamente compiremo le
pratiche di pietà, cercando prima di tutto il beneplacito di Dio e non la nostra
consolazione.

B) Il secondo è di trasformare le azioni ordinarie in
atti di religione
, facendole per piacere al Padre celeste (n. 527);
così l’intiera nostra vita diventa una preghiera, e quindi un atto di pietà
filiale verso Dio e di fraterna pietà verso il prossimo. Onde mettiamo
perfettamente in pratica la parola di S. Paolo: “Exerce teipsum ad
pietatem… pietas autem ad omnia utilis est, promissionem habens vitæ quæ nunc
est et futuræ:
la pietà è utile a tutto: ha delle promesse per la vita
presente e per la futura” 1329-1.

 
III. Il dono della fortezza.

1330.   1° Natura. È un dono che
perfeziona la virtù della fortezza, dando alla volontà un impulso e una
energia che la rendono capace di operare o di patire lietamente e intrepidamente
grandi cose, superando tutti gli ostacoli.


Differisce dalla virtù per questo che non deriva dai nostri
sforzi aiutati dalla grazia, ma dall’azione dello Spirito Santo, che afferra
l’anima dall’alto comunicandole particolare signorìa sulla facoltà inferiori e
sulle esterne difficoltà. La virtù non toglie una certa esitazione e un certo
timore degli ostacoli e dei cattivi successi; il dono vi sostituisce la
risolutezza, la sicurezza, la letizia, la speranza certa della riuscita, onde
produce i più grandi risultati. Ecco perchè si dice di S. Stefano che era
pieno di fortezza, perchè era pieno di Spirito Santo: “Stephanus autem plenus
gratiâ et fortitudine… cum autem esset plenus Spiritu Sancto
” 1330-1.

1331.   Operare e patire, in
mezzo alle più spinose difficoltà e con sforzi talora eroici: tali sono i due
atti a cui ci porta il dono della fortezza.

a) Operare, vale a dire intraprendere senza
esitazione e timore le più ardue cose: per esempio, praticare perfetto
raccoglimento in vita affaccendatissima, come fece S. Vincenzo de’ Paoli o
S. Teresa; serbare inviolata la castità fra le più pericolose occasioni,
come S. Tommaso d’Aquino e San Carlo Borromeo; restar umili in mezzo agli
onori, come S. Luigi; sfidare i pericoli, le noie, le fatiche, la morte,
come S. Francesco Saverio; calpestare il rispetto umano e disprezzar gli
onori, come S. Giovanni Crisostomo, che una sola cosa temeva, il peccato.
b) Nè occorre minor fortezza per sopportare lunghe e dolorose
malattie, come fece S. Liduina; o morali tribolazioni come quelle sostenute
da certe anime nelle prove passive; o semplicemente per osservare tutta la vita,
senza venirvi mai meno, tutti i punti della propria regola. Il martirio è
reputato l’atto per eccellenza del dono della fortezza, e a ragione, perchè si
dà per Dio il bene più caro che è la vita; ma versare il sangue a goccia a
goccia, sacrificandosi intieramente per le anime, come fanno, dopo
S. Paolo, tanti umili sacerdoti e tanti pii laici, è martirio ovvio a tutti
e quasi altrettanto meritorio.

1332.   2° Necessità. È inutile
insistere a lungo sulla necessità di questo dono. Abbiamo detto infatti, n. 360,
che in molte circostanze per conservare lo stato di grazia occorre praticar
l’eroismo. È appunto il dono della fortezza quello che ci fa generosamente
compiere questi atti difficili.

Più necessario ancora è questo dono in certe professioni in cui
si è obbligati ad esporsi a malattie e alla morte, per esempio al medico, al
soldato, al sacerdote.

1333.   3° Mezzi per coltivarlo.
A
) Non provenendo da noi la nostra fortezza ma da Dio, è chiaro che si
deve cercarla in lui, riconoscendo umilmente la nostra impotenza. La Provvidenza
infatti si serve degli strumenti più deboli, purchè abbiano coscienza della loro
debolezza e si appoggino su Colui che solo può fortificarli. Tal è il senso di
quelle parole di S. Paolo 1333-1: “le folli cose del mondo elesse Dio per
confondere i sapienti; e le impotenti del mondo elesse Dio per confondere le
forti… e quelle che non sono per annientare quelle che sono: affinchè non si
glorii persona alcuna dinanzi a Dio”. Specialmente nella santa comunione
possiamo attingere da Gesù la forza che ci occorre per trionfare di tutti gli
ostacoli. S. Giovanni Crisostomo presenta i cristiani che, all’uscire dalla
sacra mensa, sono forti come leoni, perchè partecipano della forza stesso di
Cristo 1333-2.

1334.   B) Bisogna pure
attentamente cogliere le mille piccole circostanze in cui, perseverando nello
sforzo, si può praticar la fortezza e la pazienza.

Così fanno quelli che lietamente si assoggettano da mane a sera
a una regola, che si sforzano di essere devoti nelle preghiere e raccolti nel
corso del giorno, che osservano il silenzio quando avrebbero voglia di
chiacchierare, che schivano di guardare oggetti eccitanti la curiosità, che
soffrono senza lagnarsi le intemperie delle stagioni, che si mostrano cortesi
verso chi è loro naturalmente antipatico, che ricevono con pazienza e umiltà i
rimproveri, che s’adattano ai gusti, ai desideri, agli umori altrui, che
sopportano calmi la contraddizione, che si studiano insomma di trionfar delle
piccole loro passioni e di vincere se stessi. Ora far tutto ciò non una volta
sola, di passaggio, ma abitualmente, e farlo non solo pazientemente ma anche
lietamente, è già eroismo; onde non sarà difficile essere eroici nelle grandi
circostanze che poi si presenteranno 1334-1, perchè allora avremo con noi la fortezza
stessa dello Spirito Santo: “Accipietis virtutem supervenientis Spiritus
Sancti in vos et eritis mihi testes
” 1334-2.

 
IV. Il dono del timore.

1335.   1° Natura. Qui non si
tratta di quella paura di Dio che, al ricordarci dei nostri peccati, ci
inquieta, ci attrista, ci conturba. Non si tratta neppure del timor
dell’inferno, che basta per abbozzare una conversione ma non per dar compimento
alla nostra santificazione. Si tratta del timore riverenziale e filiale
che ci fa paventare ogni offesa di Dio.

Il dono del timore perfeziona nello stesso tempo le virtù della
speranza e della temperanza: la virtù della speranza, facendoci
paventare di dispiacere a Dio e di essere da lui separati; la virtù della
temperanza, staccandoci dai falsi diletti che potrebbero farci perdere Dio.

Può quindi definirsi un dono che inclina la volontà al
rispetto filiale di Dio, ci allontana dal peccato perchè gli dispiace, e ci fa
sperare nel potente suo aiuto.


1336.   Abbraccia tre atti principali:
a) Un vivo sentimento della grandezza di Dio e quindi sommo orrore
dei minimi peccati che ne offendono l’infinita maestà: “Non sai tu, figliuola
mia, diceva il Signore a S. Caterina da Siena 1336-1, che tutte le pene che sostiene o può sostenere
l’anima in questa vita, non sono sufficienti a punire una minima colpa? Perocchè
l’offesa che è fatta a me, che sono Bene infinito, richiede soddisfazione
infinita. E però io voglio che tu sappi che non tutte le pene che sono date in
questa vita, sono date per punizione, ma per correzione”. Cosa che avevano
capito molto bene i Santi, i quali amaramente deploravano le colpe anche più
lievi e non credevano di aver fatto mai abbastanza per ripararle.
b) Una viva contrizione delle minime colpe commesse, perchè
hanno offeso un Dio infinito e infinitamente buono; onde sorge un ardente
desiderio di ripararle, moltiplicando gli atti di sacrificio e di
amore 1336-2.

c) Una vigile cura di fuggire le occasioni di
peccato come si fugge un serpente: “quasi a facie colubri fuge
peccata
” 1336-3; e quindi grande diligenza in voler conoscere
in tutto il beneplacito di Dio per conformarvi la propria condotta.

È chiaro che, operando in questo modo, si perfeziona la virtù
della temperanza con lo scansare i proibiti diletti, e quella della speranza con
l’innalzare con filiale fiducia lo sguardo a Dio.

1337.   2° Necessità.
A
) Necessario è questo dono per evitare la troppa grande familiarità
con Dio. Ci sono di quelli che, dimenticando facilmente la grandezza di Dio e
l’infinita distanza che ci separa da lui, si prendono con Dio e colle cose sante
sconvenienti libertà e gli parlano con troppa arditezza, trattando quasi alla
pari con lui. È vero che Dio stesso invita certe anime a una dolce intimità e a
una stupenda familiarità; ma sta a lui a farlo per il primo e non già a noi. Del
resto il timore filiale non impedisce quella tenera familiarità che si vede in
alcuni santi 1337-1.

B) Non meno utile è questo dono per preservarci, nelle
relazioni col prossimo, massime con gli inferiori, da quel fare altezzoso e
superbo che ha più dello spirito pagano che del cristiano; il timore
riverenziale di Dio, che è nello stesso tempo padre loro e nostro, ci farà
esercitare l’autorità in modo modesto, come conviene a chi la tiene non da sè ma
da Dio.

1338.   3° Mezzi per coltivare questo
dono. A
) Bisogna meditare spesso l’infinita grandezza di Dio, i suoi
attributi, il potere che ha su di noi; e considerare al lume della fede che
cos’è il peccato, il quale, per lieve che sia, è pur sempre offesa all’infinita
maestà di Dio. Non può darsi allora che non si concepisca un timore riverenziale
per questo Sommo Padrone, che non finiamo mai di offendere: “confige timore
tuo carnes meas; a judiciis enim tuis timui
” 1338-1; e nel comparire dinanzi a lui ci sentiremo il
cuore contrito ed umiliato.

B) A fomentar questo sentimento, è bene fare
diligentemente gli esami di coscienza, eccitantosi più alla compunzione
che alla minuziosa ricerca dei peccati: “cor contritum et humiliatum, Deus,
non despicies
” 1338-2. A ottenere purità di cuore sempre più
perfetta, conviene unirsi e incorporarsi ognor più a Gesù penitente; quanto più
ne parteciperemo l’odio per il peccato e le umiliazioni, tanto più pieno sarà il
perdono.

 
NOTE

1320-1 Isa., XI, 2-3. — Il testo
ebraico non fa menzione del dono della pietà, come fanno i
Settanta e la Volgata; la Tradizione dal secolo III° in poi
conferma questo numero settenario. Del resto, come nota il Knabenbauer (in
Isaiam
, Vol. I, p. 272), il concetto di timore ha nella
Sacra Scrittura tal ampiezza da potersi esprimere più analiticamente coi due
vocaboli di pietà e di timore.

1321-1 Matth., X, 19.

1321-2 Atti, V, 29.

1323-1 “Sed quia humana ratio non potest
comprehendere singularia et contingentia quæ occurrere possunt, fit quod
“cogitationes mortalium sint timidæ et incertæ providentiæ nostræ” (Sap.
IX, 14). Et ideo indiget homo in inquisitione consilii dirigi a Deo qui omnia
comprehendit; quod fit per donum consilii, per quod homo dirigitur quasi
consilio a Deo accepto”. (S. Tommaso, IIª IIæ, q. 52,
a. I, ad I).

1323-2 Mons. Landrieux, op.
cit.
, p. 163. — “La mancanza di questo dono ci causa gravissimi
mali, dice il P. S. Jure, P. Iª, c. IV, § 7, perchè…
ci rende confusi nei pensieri, ciechi nei disegni, precipitati nelle
risoluzioni, imprudenti nelle parole, temerari nelle opere”.

1324-1 Ps. XXIV, 4.

1324-2 Ecco perchè Donoso Cortès
diceva che i migliori consiglieri sono i contemplativi: “Fra le persone che
conobbi da vicino, e ne conobbi molte, le sole in cui io abbia riconosciuto
imperturbabile buon senso, vera sagacia, mirabile disposizione a dar soluzioni
pratiche e savie sui problemi più difficili… sono quelle che condussero vita
contemplativa e ritirata”. (Saggi sul Cattolicismo).

1325-1 Rom., VIII, 15.

1325-2 Rom., VIII, 28.

1326-1 Luc., X, 16.

1328-1 Galat., IV, 19.

1329-1 I Tim., IV, 7-8.

1330-1 Atti, VI, 8; VII, 55.

1333-1 I Cor., I, 27-29.

1333-2 “Ab illâ mensâ recedamus tanquam
leones, ignem spirantes, diabolo terribiles”. (In Joan., homil. LXI,
3, P. L., LIX, 260).

1334-1 È la lezione che il
B. E. Susone ebbe un giorno dalla divina Sapienza: “È necessario, gli
disse, che il mio servo ami prima di tutto l’abnegazione e che muoia interamente
a se stesso e alle creature. Questo grado di perfezione è molto raro, ma colui
che vi è arrivato, s’innalza rapidamente a Dio… Sarà allora meraviglia che le
afflizioni e le croci non lo impressionino punto, come impressionano quelli il
cui formale desiderio è di non soffire? Non è che i Santi siano più degli altri
insensibili al dolore… Ma l’anima loro è al sicuro da ogni assalto, perchè non
cerca e non ama che la croce… Il loro corpo soffre, ma l’anima s’inebria di
Dio e gusta nell’estasi una ineffabile felicità… L’amore che le anima fa che
non possono più considerare il dolore come dolore, nè l’afflizione come
afflizione: non conoscono in Dio che pace profonda ed inalterabile”.

1334-2 Atti, I, 8.

1336-1 Il Dialogo, l. I,
c. 2, (edizione Gigli).

1336-2 “Nè colui che per me desidera e vuole
mortificare il corpo colle molte penitenze senza uccidere la propria volontà, mi
è molto a grado. Ma io voglio le molte operazioni del sostener virilmente e con
pazienza e le altre virtù intrinseche dell’anima. Io, che sono infinito,
richieggo infinite operazioni, cioè infinito affetto d’amore. Voglio che le
operazioni della penitenza e degli altri esercizi corporali siano posti per
strumento e non per principale affetto. Che se fosse posto il principale affetto
ivi, mi sarebbe data cosa finita, e farebbe come la parola, che, uscita che è
fuori della bocca, non è più. Se già la parola non uscisse coll’affetto
dell’anima, il quale concepisce e partorisce in verità la virtù, cioè che
l’operazione finita, che ho chiamata parola, fosse unita coll’affetto della
carità; allora sarebbe grata e piacevole a me; perchè non sarebbe sola ma
accompagnata colla vera discrezione, usando operazioni corporali per strumento,
non per principale capo”. Il Dialogo, l. I, c. X, (edizione
Gigli).

1336-3 Eccles., XXI, 2.

1337-1 È una giusta osservazione del
P. de Smedt (Notre vie surnat., t. I, p. 501-502):
“Quando abbiamo un’alta ideale della superiorità di una persona su di noi, non
ci avviciniamo a lei che con un senso di timidità o anche di turbamento; ma se
questa persona riguardata molto al di sopra di noi si mostra piena di bontà, se
manifesta vivo piacere di vederci, di conversare con noi, di sapersi da noi
amata, se ambisce di trattare con noi con la più intima familiarità, il rispetto
ispiratoci dalla sua superiorità non c’impedisce di concepire per lei un vivo
affetto. Anzi, quanto più grande è l’idea che abbiamo della sua superiorità su
di noi, tanto più grande è pure il nostro amore, tanto più profonda la
riconoscenza e più vivo il desiderio di attestargli quest’amore e questa
riconoscenza colla tenerezza e colla devozione nostra. D’altra parte, vedendola
più da vicino e addentrandoci nella sua intimità, maggiormente ne stimiamo
l’eccellenza delle doti; onde cresce la nostra venerazione per lei e ci sentiamo
compresi di riconoscenza e di confusione alla vista della stima, della
tenerezza, della premura, della delicatezza che ci dimostra”.

1338-1 Ps. CXVIII, 120.

1338-2 Ps. L, 19.