Come la Chiesa può aiutare la società.

Di Régine Pernoud. (Titolo originale: Misticismo e politica, tratto da I santi nel medioevo, Rizzoli 1986, pp. 228-236). Nel caso dei re e delle regine che furono santi si osserva un’alta alleanza fra il misticismo e la politica; ma è stata addirittura necessaria, a questo scopo, una santità che si può considerare eccezionale.

Tutto comincia con il misticismo e finisce con la politica” constatava Péguy. Nel caso dei re e delle regine che furono santi si osserva proprio il contrario: un’alta alleanza, fermamente mantenuta, fra il misticismo e la politica; ma è stata addirittura necessaria, a questo scopo, una santità che si può considerare eccezionale. Tra gli altri, san Luigi è l’esempio più impressionante di questa santità. Poté essere un amministratore notevole, che antepose sempre i bisogni del suo popolo alle stesse necessità della sua amministrazione, e che seppe, con un’audacia sorprendente, stabilire rapporti diplomatici con quell’orda di invasori terribili che furono i mongoli. Al tempo stesso aveva una vita mistica intensa e, anzi, la sua riuscita ineguagliabile scaturisce proprio dall’unione profonda della sua fede con il suo ruolo quale gli era stato assegnato: essendo re, lo fu fino al punto di diventare santo. Come l’imperatore (santo) Enrico II, è proprio superando le reazioni sue proprie, trascendendo se stesso, che assicura la pace e la prosperità al suo popolo: alleanza del misticismo e della politica, realizzata con una risposta sempre positiva all’appello divino.
Questo problema dei rapporti fra il misticismo e la politica, o, in altri termini, dei diritti e doveri dell’uomo di stato, quale che sia d’altronde la forma di questo stato, non ha mai cessato di interessare, e di suscitare la riflessione. Fin dall’antichità preoccupava sia Platone che Aristotele, e molti altri dopo di loro, dal momento che ha dato luogo a opere intere, di Plutarco, di Cicerone, di Seneca. La riflessione è stata stimolata da quel desiderio di perfezione che provocava il Vangelo – tanto che una vasta letteratura è dedicata, nel Medioevo, a questo desiderio di conciliare (e rispettare) le necessità del governo e il benessere del popolo. Inutile dare l’elenco di tutti i grandi pensatori che trattarono il problema; lo si troverà nelle opere notevolissime dedicate all’argomento e uscite recentemente (1). Ci limitiamo a ricordare quegli Specchi del principe, in latino o in francese, che disegnano, in Francia, il ritratto ideale dell’uomo di stato, e indicano dettagliatamente le qualità indispensabili a colui che esercita il potere, sempre alla luce dell’insegnamento evangelico, per cui è necessario che la felicità del popolo sia anteposta a ogni altra considerazione.
D’altronde una donna occupa una posizione eminente in questo concerto di scrittori: Christine de Pisan. Eminente e originale, poiché essa non si accontenta (come molti suoi contemporanei) di adottare la teoria del “diritto divino”, secondo la quale, nell’epoca in cui visse (a cavallo fra i secoli XIV e XV), il titolo di re era una specie di privilegio, predestinato. Invece ripristina il significato originario della formula “re per grazia divina“, nata da un desiderio di umiltà, poiché in tal modo il re dichiarava di avere una carica a cui accedeva solo per grazia di Dio, al quale avrebbe dovuto rendere conto.
Tale è l’etica dei tempi feudali; ma essa è stata singolarmente maltrattata da Filippo il Bello, il quale già considerava ogni discorso mistico come uno strumento al servizio della sua politica. Così si proclama “campione della fede“, ma allo scopo di disporre dei tribunali dell’Inquisizione, i quali in effetti si mostreranno pronti a eseguire docilmente la sua volontà, specialmente in occasione del processo dei Templari (come abbiamo già sottolineato). Da questo momento l’Inquisizione (…) viene ad abbandonare l’intenzione prima dei papi che l’hanno istituita, e rientra tra gli ingranaggi che fa agire il potere temporale, il quale dichiara da solo di essere l’unico organo qualificato per condurre la lotta contro gli eretici che vivono nel regno.
A questo proposito dobbiamo ritornare a considerare quel concordato di Bologna che, nel 1516, stabilisce, in Francia, una chiesa di stato.
Con questo concordato, concluso fra il papa Leone X e Francesco I, la scelta di tutti i dignitari ecclesiastici è ormai affidata al re, che diventa veramente un monarca che governa da solo il regno, anche nelle sue sorti spirituali. Fino al termine dell’Ancién Regime, e anche oltre, di fatto nel corso di quattro secoli, è installata, in Francia, una chiesa di funzionari nominati dallo stato e da esso retribuiti; sappiamo come, nel 1904, sia proclamata la separazione della chiesa dallo stato. In seguito è risultato che questo regime di separazione (…), senza ancora permettere di stabilire una giusta sistemazione dei rapporti fra poteri distinti nella loro essenza, ma che (…), in pratica, sono indissolubilmente mescolati, nella società.
E la Chiesa nei tempi classici della storia francese, sotto apparenze splendide e molto rassicuranti, soprattutto nel XVII secolo, vede deteriorarsi, minati dall’interno, la maggior parte degli ordini monastici. La pietà ha assunto una forma individuale o si è rifugiata in fondo ai chiostri negli ordini riformati, come i carmelitani e le carmelitane, o i trappisti (inFlüenzati dall’abate di Rancé). Quelli che sorgono in quel tempo, come i gesuiti, e vogliono mantenere una loro indipendenza temporale, vengono soppressi alla fine del XVIII secolo, e rinascono solo dopo la Rivoluzione, in condizioni difficili. I quattro secoli classici della storia francese sono in realtà quelli in cui il misticismo è imprigionato dalla politica. Intanto, per riassumere la morale imperante, basterà contrapporre due pagine significative – una di Christine de Pisan, l’altra dovuta alla penna del solo teorico che sia ormai riconosciuto, Machiavelli. “Il buon principe che amerà Dio” scrive Christine “temerà di fare qualcosa contro il suo comandamento, e si preoccuperà di sapere tutte le cose che deve fare o non fare; e in questo modo conoscerà la propria fragilità e saprà di essere un uomo mortale e fragile come tutti gli altri, senza altre differenze fuorché quella rappresentata dai suoi beni di fortuna… e se non ne fa buon uso, è perduto“.
Quanto a Machiavelli, che vive un secolo dopo (1469-1527), una sola citazione basta anche a definire la sua filosofia: “[…] e quello che ha saputo meglio usare la golpe, è meglio capitato. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire, et essere gran simulatore e dissimulatore. […] A un principe, adunque, non è necessario avere tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle. Anzi, ardirò di dire questo, che avendole et osservandole sempre, sono dannose, e parendo di averle, sono utili; come parere pietoso, fedele, umano, intero, religioso […]”. Pragmatismo integrale che, deliberatamente, mette al servizio di Cesare quello che è di Dio.
Ma a questo punto ci interessa di più il fatto che, nel frattempo, abbia espresso la sua personalità un santo che da’ una risposta inattesa al problema della santità al potere – e, aggiungiamo, una risposta vicinissima al nostro tempo, poiché con lui ci troviamo in un ambiente di completa democrazia, al di fuori di ogni diritto divino. E solo nel nostro tempo è stata compresa questa figura, ed è stata riconosciuta la sua santità. Ma la sua fama non ha fatto che crescere; Arthur Honegger gli ha dedicato un oratorio, come ha fatto per Giovanna d’Arco.
San Nicola della Flüe è in realtà un santo straordinario, che ha instaurato, nel suo tempo, lo stato più moderno che si possa concepire, quello in cui le istituzioni democratiche funzionano – quali che siano le vicende nel corso dei tempi – in una maniera che si può considerare paradigmatica alla fine del nostro secolo XX, e che inoltre ha assicurato, in Europa, la presenza di quello spazio pacifico che è rimasta la Svizzera.
Bruder Klaus“, come è chiamato nel suo paese, è uno di quei santi che sembrano appartenere a una parte speciale dell’umanità, un po’ come Giovanna d’Arco, sebbene siano bene radicati nella vita quotidiana e nella società più umile, quella dei contadini vicinissimi alla terra – ricordandoci bruscamente come questa terra sia creazione divina. E’ un semplice contadino nato nel 1417 a Flüeli, nell’Obwalden, proprio al centro della Svizzera. Appartiene a una famiglia di contadini agiati (un po’ come quella di Giovanna d’Arco), e la sua casa natale è stata conservata, come quella di Domremy; è una casa costruita nello stile del paese, di legno solidamente strutturato che poggia su una base di pietra; oggi vi portano tre strade, provenienti rispettivamente da Sarnen, da Kerns e da Sachsen. Nicola conduce la vita dei contadini del posto, semplice e pia. Come gli altri, si sposa con una giovane contadina, Dorotea Wyss, che è nata sull’altra sponda del lago di Sarnen, e si stabilisce in una casa non lontana da quella dei suoi genitori. I coniugi avranno dieci figli: cinque maschi e cinque femmine; e raggiungeranno un buon livello di benessere grazie a un lavoro agricolo tenace e accanito. Nicola è illetterato, ma i suoi compatrioti gli riconoscono una saggezza che lo fa scegliere come giudice e consigliere municipale, poiché in quest’epoca si amministrano da soli, in questo piccolo paese come in molti altri. Si arriverà al punto di proporgli la carica di governatore, che però Nicola rifiuta, non giudicandosi degno ne’ capace di svolgerla bene. E invece probabile che, come gli altri contadini del posto, abbia partecipato alla difesa del suo piccolo paese contro un’incursione degli altri confederati, nel 1460.
Tutta la vita di Nicola testimonia una profonda pietà che attinge alla fonte stessa della fede, nella contemplazione della vita trinitaria, alimentata dal sacramento dell’eucaristia. Nicola, sua moglie e i loro figli vivono “come gli altri“.
Un giorno, improvvisamente, Nicola abbandona il suo paese e la sua famiglia. Ha cinquant’anni. Non gli è accaduto nulla di straordinario, fuorché un appello interiore a vivere d’ora in poi nella solitudine e nella preghiera. Ciò avvenne il 16 ottobre 1467.
Dapprima vuole allontanarsi, raggiungere l’Alsazia; lo arrestano e poi lo fanno tornare indietro diverse circostanze: prima una specie di esitazione, poi l’incontro di un amico. Ritorna nel suo paese e finisce per recarsi nel Ranft, una gola solitaria nel Melchtal, situata non lontano dalla dimora della sua famiglia. Vi costruisce una piccola capanna. Ben presto i suoi compatrioti vi edificheranno spontaneamente una cappella e un romitaggio. Nicola trascorre i giorni che gli restano da vivere nella preghiera – nella preghiera, nella solitudine e anche con un’astinenza assoluta, poiché non mangia ne’ beve e si nutre solo dell’eucaristia, quando un prete viene a celebrare la messa nella cappella del Ranft. Si è diffusa la voce di questo digiuno miracoloso che pratica. Per un mese le autorità municipali incaricano delle guardie di controllare giorno e notte se non sia nutrito di nascosto da qualche suo familiare. In capo a un mese si stancano: non è stata constatata nessuna frode. In seguito sono le autorità ecclesiastiche, in particolare il vescovo Ermanno di Costanza, che vengono a rendersi conto della realtà di questa vita di astinenza totale. Pur consacrando la cappella per fratello Nicola, il prelato gli ordina di mangiare un boccone di pane e di bere un po’ di vino. L’eremita si sente così male che il vescovo non insiste più. Quando gli sono rivolte domande indiscrete (poiché nasconde questo suo digiuno), quando gli chiedono se è vero che non ha mangiato né bevuto per molti anni, risponde: “Dio la sa”. Di fatto lo hanno confermato tutte le testimonianze.
Una preghiera di Nicola della Flüe è stata conservata e compare in un manoscritto della fine del XV secolo. Riassume, nella sua semplicità, tutto ciò che costituisce la santità di quest’uomo:
O mio Signore e mio Dio,
allontanami da me stesso
e donami interamente a Te.
Mio Signore e mio Dio,
prendimi tutto ciò che mi separa da Te.
Mio Signore e mio Dio,
donami tutto
ciò che mi avvicina a Te.
Il romitaggio del Ranft, così strano nella sua posizione in fondo al Melchtal, a poco a poco diventa una specie di meta di pellegrinaggi. Vengono a vedere colui che vi abita; Nicola fa quello che può per evitare le domande indiscrete, ma non sfugge le visite di coloro che gli chiedono aiuto, consiglio, assistenza per la loro vita interiore. In seguito molti hanno lasciato le loro testimonianze preziose per la storia, come Giovanni di Waldheim, scrittore conosciuto, o l’umanista Albrecht von Bonstetten, decano di Einsiedein. E così (sempre come Giovanna d’Arco, sebbene in condizioni molto diverse) Nicola della Flüe è conosciuto attraverso ogni specie di testimonianze concordanti.
In quell’epoca la vita della Confederazione Elvetica era molto agitata e perturbata. L’unione già abbozzata tra i diversi cantoni si rivelava difficile da mantenersi, di fronte all’ostilità divenuta quasi tradizionale fra i cantoni rurali e quelli urbani; i cantoni di campagna rifiutavano l’ingresso nella Confederazione alle città di Friburgo e di Soletta, poiché temevano già il potere delle città (Zurigo, Berna, Lucerna), e queste discordie interne furono notevolmente incentivate quando le guerre contro la Borgogna e il ducato di Milano ebbero apportato ricchezze insperate, ma anche nuovi motivi di litigio fra gli abitanti. Dalla distribuzione del bottino fatto a spese di Carlo il Temerario (che, come sappiamo, aveva trovato la morte combattendo contro gli svizzeri) alle alleanze sollecitate con l’Italia, l’Impero o la Borgogna, tutto era fonte di discordie, che potevano degenerare in lotte armate, come accadde a Ginevra nel 1477.
Fu in queste condizioni che, nel novembre del 1481, i delegati delle città e delle campagne svizzere si riunirono a Stans, per tentare di liquidare le diverse cause di turbamento e di elaborare un nuovo statuto per la Confederazione; l’ammissione di Friburgo e di Soletta figurava tra i principali problemi; l’assemblea discusse per parecchi giorni; i delegati tornarono nei rispettivi cantoni per ricevere nuove istruzioni, e si ritrovarono a Stans a metà dicembre.
Nessuna soluzione era sembrata accettabile, e si affrontavano più che mai diversi campi; si considerava la possibilità dello scontro armato. Il 21 dicembre tutti i delegati lasciavano l’assemblea, tornavano nelle loro locande e si preparavano alla partenza fissata per l’indomani.
Faceva parte dell’assemblea il curato di Stans. Senza parlarne con nessuno, lo stesso giorno (21 dicembre) prese la strada del Ranft. Si chiamava Heini am Grund, e riteneva che solo un uomo potesse ristabilire l’accordo di tutti: l’eremita del Ranft. La mattina del 22 dicembre, quando i delegati per lo più erano già montati a cavallo per partire, ricompare il curato Heini am Grund; grondava sudore, poiché aveva cavalcato tutta la notte. Corse dietro a quelli che se ne andavano, supplicò tutti i delegati, “con le lacrime agli occhi, di volersi nuovamente riunire, in nome di Dio e di fratello Nicola, per sentire la sua opinione e il suo consiglio“. A lungo si è creduto che Nicola della Flüe si fosse allora presentato di persona all’assemblea; la cronaca di un testimone oculare, Diebold Schilling, riferisce invece che Nicola aveva solo affidato un messaggio al curato di Stans, ma questo messaggio ci è stato comunicato integralmente, ed è anche riferito dal verbale della dieta di Stans: “Rinunciate alle alleanze particolari che possono solo ingenerare dissensi; rammentate i servigi che vi hanno reso Friburgo e Soletta; ammettetele nel grande Corpo elvetico. Un giorno vi rallegrerete di avere seguito il mio consiglio… Litigate tra voi per il bottino: cari amici, dividete le terre conquistate seguendo il numero dei cantoni, e il resto del bottino secondo il numero degli uomini… Unitevi con un comune vincolo di amore di fedeltà e di ordine“.
Un cronista scrive: “Prima di mezzogiorno le cose andavano malissimo, ma grazie a questo messaggio migliorarono molto, e nello spazio di un’ora tutto fu perfettamente risolto e regolato“. Alle cinque pomeridiane di quel 22 dicembre la pace era conclusa; era stabilito il nuovo statuto della Confederazione dei dieci cantoni, ed era assicurata la pace tra essi. In tutto il paese, in quel giorno vicino a Natale, le campane si scatenarono per annunciare la notizia: “Fratello Nicola ha fatto bene le cose… ” ripeteva la gente del popolo, e il cancelliere di Soletta, Giovanni di Stali, se ne faceva eco: “Voi avete ristabilito la pace, la calma e l’unione in tutta la Confederazione“.
A distanza di tempo si è potuta apprezzare l’importanza del consiglio dato da fratello Nicola, eremita del Ranft: scartando a priori le alleanze straniere, ha consentito la neutralità della Svizzera, per secoli interi e fino a oggi. Ciò ha avuto l’effetto – in occasione delle guerre più spaventose, quelle del nostro secolo XX – di assicurare, proprio al centro dell’Europa, uno spazio di pace, il solo in grado di accogliere, nel 1918-1919, i delegati di tutte le nazioni che avevano conosciuto carneficine così crudeli. In altri termini, quella Società delle Nazioni (…), avrebbe mai potuto essere riunita in una località diversa da Ginevra, con la protezione del governo svizzero? Nicola della Flüe è stato l’uomo della pace per eccellenza, l’artefice di una pace durevole, e anche di più: oggi è riconosciuto come il padre della patria sia dalla Svizzera protestante che da quella cattolica. Tardi, del resto, poiché è stato canonizzato solo il 15 maggio 1947 (nel giorno dell’Ascensione).

NOTE
(1) Tutti i testi importanti sull’argomento sono contenuti nell’opera completa di Dora M. Beli, L’ideal éthique de la royauté en France au Moyen Age, d’après quelques moralistes du temps, Ginevra 1972. Abbiamo affrontato l’argomento nel lavoro (Pernoud) Christine de Pisan, Parigi 1982