Beata ELISABETTA VENDRAMINI (1790-1860)

La vita di questa di questa mistica si può dividere in tre periodi ben definiti: dall’infanzia alla giovinezza, trascorsa nella città natale di Bassano ( 1790-1816 ); dalla travagliata scelta della vocazione, maturata in mezzo a varie difficoltà, alla fondazione delle Suore Terziarie Francescane di S. Elisabetta (1816-1827); dalla fondazione dell’Istituto alla morte (1828-1860).

La Vendramini nacque a Bassano del Grappa (Vicenza) il 9-4-1790, settima dei dodici figli che Francesco, ricco possidente di negozi e magazzini. ebbe da Antonia Angela dei nobili Duodo di Venezia, e fu battezzata il giorno dopo nella chiesa parrocchiale di S. Maria in Colle coi nomi di Elisabetta Giovanna. Bambina vivace e decisamente volitiva, fu affidata dai genitori all’educandato delle Monache Agostiniane di S. Giovanni, il più vicino alla loro abitazione. Colà per nove anni la beata imparò a venerare la Madonna e il Bambino Gesù e a praticare con decisione le più solide virtù. A giudicare dagli strafalcioni di sintassi e di ortografia che farà per tutta la vita nei suoi scritti, dovremmo dire che nello studio della lingua italiana fece pochi progressi.

All’età di quindici anni Elisabetta ritornò in famiglia. Nel Diario Spirituale che l’anno dopo cominciò a scrivere sotto la direzione spirituale del P. Antonio Maritani (+1852), francescano del convento di S. Bonaventura, attesta: “In famiglia, dove tutto spirava piaceri e comodi, io ben presto cambiai modo di vivere e divenni l’anima della conversazione della sera”.


 Con la pace di Presburgo, conclusa il 26-12-1805 da Napoleone I con la Russia e l’Austria, dopo la vittoria di Austerlitz, l’Austria, fu costretta a cedere all’Italia tutto il Veneto e la Dalmazia. Le monete austriache e venete subirono perciò una forte svalutazione con danni incalcolabili anche per la famiglia Vendramini. Per nascondere ai figli le difficoltà alle quali andava incontro confinò, per due anni, Elisabetta con due sorelle nella villa di San Giacomo, nella quale, a contatto della natura ebbe modo di abbandonarsi alla contemplazione e di preparare ai sacramenti nell’oratorio domestico le ragazze del vicinato. Sentiva grande desiderio di darsi agli altri, e nel medesimo tempo di farsi una famiglia. S’innamorò di un bravo giovane ferrarese, fissò persino la data delle nozze, ma esse divennero per lei “un’agonia di morte”. Riprese a pregare e a fare penitenze. Il 17-9-1817 mentre con le amiche stava parlando di una nuova acconciatura di capelli, avvertì chiaramente una voce interiore che le disse: “Non vedi che la tua condotta ti porta a dannazione? Vuoi tu salvarti? Va’ ai Cappuccini”, cioè al convento che da Don Marco Cremona (+1828) era stato trasformato in conservatorio in cui le orfane potevano rimanere fino ai 25 anni.


 La madre e i fratelli della beata fecero quanto poterono per distoglierla da quel proposito, anche perché l’orfanotrofio, per la povertà dei mezzi di sussistenza, non era ancora stato giuridicamente approvato. Elisabetta non recedette dal suo proposito benché, senza motivazioni, le fosse stata rifiutata l’accettazione. Fu allora tentata di tornare alla “vita vana, comoda, non già dissoluta”, invece intensificò la pratica religiosa con “discipline aspre, cilizi, presenza alle pubbliche funzioni’, quasi come una neo-convertita. Dopo due anni di forzata attesa, improvvisamente la Vendramini fu accettata al conservatorio come assistente della priora (l820).


 Compito di Elisabetta fu quello di accudire a dodici orfane, ma dai primi contatti avuti con la diffidente priora, ebbe la sensazione che ivi avrebbe dovuto “fare il purgatorio”. Il 23-2-1822 pronunciò i voti secondo la regola delle terziarie secolari, e l’anno successivo avvertì la profonda “intimazione” di scrivere una regola che trasformasse quel “ritiro di pie donne” in una vera e propria congregazione francescana. Ne parlò al P. Maritani il quale, prima ne rise, poi le concesse il desiderato permesso poiché anche lui si era persuaso che proprio ai Cappuccini dovesse dare vita a una vera comunità di Terziarie regolari. Presentò l’abbozzo della regola anche a Don Cremona il quale, in un primo momento si dichiarò favorevole, in seguito condannò l’iniziativa con “una aperta persecuzione”. La beata prese allora lo scritto, lo collocò accanto al tabernacolo e pregò: “Adesso, Signore, pensaci tu”. Dopo alcuni mesi di incertezze sulla nuova fondazione si sentì dire chiaramente: “Tu devi essere la prima pietra. Lascia che i superiori facciano, questo è il loro tempo”.


 Varie e laceranti furono le sofferenze che la Vendramini continuò a subire. Più tardi scriverà: “Sei anni e mezzo passai in una continua croce, tortura, eculeo, oppressione… Ah, se avessi ben sofferto, sarei ora una santa”. A tante tribolazioni, si aggiunsero le pressioni del fratello Luigi che cercava di ricondurla in famiglia prospettandole la imminente chiusura del conservatorio per mancanza di mezzi di sussistenza. Elisabetta, che era disposta a morire piuttosto di ritornare nel mondo, si chiedeva: “Può forse la sposa per piacere a un fratello lasciare lo sposo?”.


 Luigi si adoperò allora perché fosse assunta nel pio luogo degli Esposti in Padova, dove egli si trovava come commissario di polizia. La beata, soddisfatta di non esser di peso alla famiglia, il 5-1-1827 entrò come prima maestra, con uno stipendio annuo di 300 lire austriache, nell’ampio fabbricato riservato agli Esposti. Curato di quel pio luogo, che stava attraversando in quel tempo momenti difficili, era Don Luigi Moran. La Vendramini intuì che doveva darsi più intensamente alla preghiera e alla mortificazione per potere superare le difficoltà che anche nel nuovo ambiente avrebbe incontrato. I suoi rapporti con la priora, difatti, a volte si trasformavano in vere e proprie tensioni per la diversità del temperamento e per il divergente metodo educativo. Neppure le fu facile all’inizio aprirsi filialmente con don Moran che doveva essere il suo secondo direttore spirituale. Con l’aiuto di Dio riuscì ad esporgli ogni cosa per scritto. Soltanto dopo un anno, però, gli parlò dell’intenzione che aveva di fondare una congregazione per l’istruzione e l’educazione della gioventù, e la cura dei malati. Quando ogni speranza “credeva sepolta”, ebbe la gioia di costatare che anche lui ne condivideva il progetto apostolico. Le sarebbe servito per curare i rapporti con le autorità civili ed ecclesiastiche e per penetrare più agevolmente nell’ambiente padovano. La beata per applicarsi sempre meglio alla pratica dei voti già emessi, gli chiese un efficace metodo di ascesi spirituale per essere in grado di custodire il suo amore sponsale. Sentiva pure il bisogno di avere più frequenti colloqui con lui, ma per evitare gelosie da parte della priora e invidie da parte delle orfane, fu costretta a fargli conoscere quanto desiderava soltanto per mezzo di biglietti. Non le mancarono i dubbi di non essere chiamata alla vita faticosa e povera della terziaria, e il timore di non riuscire ad adattarsi al cibo poco adatto alla sua delicata complessione, ma li superò ribattendo: “II volere di chi mi guida sarà il mio”. Dopo aver fatto sacrificio a Dio anche dei familiari, il 22-8-1828 presentò all’Istituto Esposti le dimissioni dall’incarico di maestra con grande rammarico del direttore. Di lei in precedenza aveva scritto la Delegazione provinciale: “La maestra è attiva, robusta, imperterrita tratta e lavora in forme del tutto analoghe alla sorte delle sue alunne. Quindi con la stessa facilità e premura con cui le addestra nel leggere, le va ella sviluppando in quei lavori che le debbono un giorno occupare; trovasi con esse a tutte quelle funzioni che richiedono sorveglianza; si fa obbedire con prontezza, corregge le mancanze, ne mai si lascia indurre a cattivarsi l’altrui affetto con una pericolosa dissimulazione, quando la buona disciplina vuoi essere dal rigore sostenuta. È pur essa di temperamento facile ad infiammarsi, ma docile al tempo stesso”.


A Padova la Vendramini si sistemò con due compagne che l’avevano seguita, in una povera casa della curia vescovile, situata nella zona detta Codalunga, popolata da famiglie che vivevano in condizioni umilianti di miseria e corruzione. A pianterreno di quella “reggia della santa povertà” la beata accolse ben presto le fanciulle povere del quartiere per educarle.


In poco tempo esse raggiunsero la cifra di 160, cosicché la fondatrice si vide costretta ad acquistare l’attiguo e più ampio edificio. Al mattino le fanciulle, conforme ai “metodi scolastici in corso”, prendevano parte alle lezioni scolastiche, e nel pomeriggio venivano ammaestrate nei lavori tipicamente femminili. La Casa si impose ben presto all’attenzione dei padovani per il profitto che le loro figlie ne traevano. Don Moran fu continuamente ragguagliato sullo sviluppo dell’Opera finché, dimessosi dal pio luogo alla fine del 1832, potè prendersi cura del piccolo seminario che aveva aperto accanto alla comunità delle Terziarie Regolari, e nello stesso tempo dirigere tanto loro quanto la fondatrice, la quale doveva superare gravi difficoltà economiche. Don Moran svolse questo compito da uomo rude e di poche parole, contrariandola alle volte con durezza, dimostrando di non avere sempre le doti di un buon maestro di spirito, quando Madre Elisabetta viveva momenti di sofferenza, di illuminazioni straordinarie e di intima unione con Dio. Migliore fu l’aiuto che le prestò quanto allo sviluppo dell’Istituto. Per questo la fiducia e la gratitudine che la beata nutrì verso la Provvidenza non le venne meno mai.


Il P. Bartolomeo Cornet (11836), filippino, figlio di ricchi commercianti veneziani, considerato l’apostolo di Padova per lo spiccato senso di carità che nutriva verso i bisognosi, divenne anche per le Terziarie quasi “un San Gaetano”, pronto a sollevarle nelle loro necessità. Quando Don Moran fu colpito dal vaiolo, il P. Cornet ritenne opportuno convogliare le Terziarie della Vendramini alle Figlie della Carità, sorte a Verona per opera della marchesa di Canossa (1″1834). Fissò tra loro un appuntamento, ma Elisabetta “dopo due ore di reciproci detti e contrasti”, venne nella determinazione di continuare per la sua strada. Trovando lo spirito serafico più congeniale per sé e per l’Istituto, con il beneplacito di Mons. Modesto Farina (11857), vescovo di Padova, ottenne di inserirlo regolarmente nel Terz’Ordine Francescano sotto la tutela dei minori Conventuali.


 Il 24-10-1830 con le prime compagne ricevette l’abito religioso e venne confermata “Capo d’Ordine” dal visitatore P. Francesco Peruzzo. Nel suo Diario scrisse di avere eletto “Maria SS. Priora” della Casa, e se stessa “sotto Priora”. Un anno dopo con le sue prime compagne emise i tre voti religiosi sotto la denominazione ufficiale di Suore Terziarie Francescane Elisabettine.


Le prime costituzioni furono consegnate alle terziarie regolari nel 1833. La fondatrice per 32 anni fu sempre pronta a spiegarle e a raccomandarle alle sue consorelle nelle riunioni settimanali e nei ritiri spirituali. Asserì chi vi prese parte: “Madre Elisabetta trattava con grande carità le religiose. Era forte sì nell’esigere l’osservanza delle regole, ma insieme umile e prudente. Non aveva ambizione di sorta.


Avrebbe preferito obbedire piuttosto che comandare. Esemplarissima in tutto, amante del lavoro, della mortificazione, sceglieva per sé le occupazioni più umili. Era osservantissima della regola, di condotta ineccepibile; si sacrificava per il bene dell’Istituto e pregava giorno e notte”.


 Secondo altre sue religiose “era imparziale nelle correzioni e nei rimproveri, senza ammettere eccezioni tra le suore. Di solito era affabile, di belle maniere anche se di carattere forte. Usava severità solo quando ve la obbligava la coscienza, sempre ferma nel mantenere il proposito fatto di accogliere le sue figlie con piacevolezza allorché avessero fatto ricorso a lei nelle loro necessità”.


Come Gesù, suo sposo, la beata cercava la vera grandezza con il farsi piccola, amava la vera ricchezza con il farsi povera, mantenendosi davanti a lui nella sua verità di creatura carica di limiti e di pesi, sempre bisognosa della sua grazia e della sua misericordia. Riconosceva che solo Dio operava in lei quando faceva qualche cosa di buono. Mantenendosi in un vero distacco e vuoto da tutto ciò che non è Lui, si riempiva di Lui e del suo amore. A se stessa e alle sue suore, ben a ragione ella ripeteva di non essere propriamente virtù l’umiltà, ma semplicemente verità. Sempre paziente con se stessa e con i suoi difetti non perdeva la pace inferiore, né si scoraggiava: l’umiltà la rendeva fedele, e faceva di lei un’autentica orante, vivente solo in Dio.


Finché visse la Vendramini cercò pure di fare riconoscere legalmente il proprio Istituto, ma le risposte da parte del governo furono sempre negative perché mancava di solide garanzie economiche. Non cessò per questo di accorrere in aiuto di chi si trovava in necessità. Nello spazio di circa vent’anni le sue Terziarie si occuparono di una decina di opere assistenziali della città. Ricordiamo la Casa d’Industria, contigua alla casa delle religiose, in cui prestarono prima l’assistenza e poi l’istruzione alle fanciulle e fanciulli orfani; l’annesso ex-monastero del Beato Pellegrino, occupato da donne anziane sane e malate; il ricovero-ospedaletto ai Santi Giovanni e Paolo di Venezia (1850), l’Istituto degli Esposti (1852), l’ospedale civile di Padova (1853) e quattro asili cittadini. Un giorno la fondatrice scrisse a Don Moran: “Io voglio amare il mio Dio perdutamente, indicibilmente. Operativo amore è quello che chiedo, e questo solo per Iddio, non per i suoi beni”. E nelle Memorie dell’Impianto delle Terziarie annotò: “II soccorrere era il mio vero bene”.


Chi visse con lei nei processi attestò: “Amava immensamente i poveri e per essi sarebbe andata volentieri di porta in porta a chiedere l’elemosina”. “Per le bambine aveva cure materne: le lavava, le pettinava, le copriva con qualche indumento che le veniva regalato; le istruiva insegnando loro il catechismo; le conduceva in chiesa a pregare; e insegnava loro, con inalterabile pazienza, a leggere e a scrivere”. “Ai cari vecchietti porgeva il cibo con le sue stesse mani e diceva loro parole di rassegnazione e di conforto”. “Nei malati vedeva Gesù, perciò li trattava con tanto amore specialmente se erano fastidiosi, esigenti, ingrati e ripugnanti”.


Alla morte di Don Moran (1859) Madre Elisabetta si pose sotto la direzione del P. Bernardino da Portogruaro, provinciale dei Frati Minori di Padova. Avrebbe voluto legarsi anche a lui con il voto di obbedienza, ma ne ebbe un netto rifiuto. Lesse il libro che le suggerì di S. Bonaventura, intitolato Le sei ali serafiche, vale a dire le virtù che deve possedere chi è preposto al governo, e si dichiarò spaventata della sua “somma Spirituale povertà e miseria”. Le forze le vennero meno giorno dopo giorno. Tuttavia, mettendo in pratica i consigli del P. Bernardino, fatto in seguito Ministro generale dell’Ordine, riuscì a trascorrere l’ultimo periodo della vita in una grande pace inferiore.


Anche negli ultimi anni di vita i tanti acciacchi fisici non valsero a indebolire la ferrea volontà della fondatrice. Essa tutto sorvegliava, e visitando asili, scuole, ospedali, ricoveri, consolava, dava buoni consigli, indicava opportuni rimedi, si faceva tutta a tutti ed era l’anima che informava l’intera congregazione. Persino quando si muoveva appoggiata a un bastoncello, o condotta per casa su di una sedia a rotelle a causa di una artrite deformante, con l’eroico suo coraggio sapeva infondere vigoria a tutte le sue figlie spirituali.


 Madre Elisabetta morì il 2-4-1860 di ipertrofia cardiaca dopo avere ripetuto: “Gesù, Giuseppe e Maria”, ed esclamato: “Ho veduto di passaggio la S. Famiglia”. A tutte le religiose in precedenza aveva raccomandato la carità e il distacco da se stesse. Fu seppellita nel cimitero di Padova. In seguito le sue ossa furono esumate a insaputa delle Terziarie Francescane e collocate nell’ossario comune. Giovanni Paolo II ne riconobbe l’eroicità delle virtù il 18-2-1989 e la beatificò il 4-11-1990.



Sac. Guido Pettinati SSP,


I Santi canonizzati del giorno , vol. 4, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 31-37 .


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