B. MICHELE GHÉBRÉ (1791-1855)

Monaco ortodosso etiopico, divenuto amico e discepolo di San Giustino de Jacobis, primo vicario apostolico dell’Abissinia, Ghebre Michele si convertì al cattolicesimo. Ordinato presbitero ed entrato nella congregazione vincenziana, suggellò con il martirio la sua ricerca della Verità. Fu beatificato il 3 ottobre 1926.

E' il primo monaco abissino convertito e ordinato sacerdote da S. Giustino de Jacobis, lazzarista e primo Vicario Apostolico dell'Etiopia. Pio XI lo beatificò il 3-10-1926. La santità non è quindi una nota esclusiva della chiesa latina.
L'Etiopia o Abissinia fu evangelizzata nel secolo IV da S. Frumenzio, consacrato vescovo di Axum (Tigrè) da S. Atanasio di Alessandria d'Egitto. Quando questa sede aderì all'eresia monofisita la chiesa abissina la seguì nell'errore poiché da essa dipendeva. Diversi tentativi furono fatti nel corso dei secoli da domenicani. gesuiti e francescani per ricondurla alla fede cattolica, ma non ebbero successo per varie cause. I viaggi dello scienziato Antonio d'Abbadie e il coraggio del P. Giuseppe Sapeto, lazzarista, riaprirono la via alle missioni con la costituzione in Adua (1838) di un primo centro cattolico. La congregazione di Propaganda Fide ne approfittò per erigere la prefettura apostolica dell'Abissinia affidandola a un gruppo di preti della Missione, capeggiati dal P. Giustino De Jacobis (+1860).
Quando a Dibo, frazione di Mertoulé-Mariàm (Goggiàm) nacque Ghébré Michael (1791), gli abitanti dell'Etiopia erano divisi in tré sètte principali continuamente in lotta tra di loro. La famiglia Ghébré apparteneva a quella dei Kevat. Essa insegnava che Gesù Cristo per l'unzione dello Spirito Santo divenne figlio naturale dell'eterno Padre. Michael crebbe all'ombra del santuario dedicato alla Vergine invocata sotto il titolo "Regina di misericordia", facendo il pastore e imparando a leggere e a scrivere alla scuola dei monaci, in quel tempo unici maestri del popolo.
Sentendosi inclinato all'ascesi e allo studio il beato, a venticinque anni, invece di formarsi una famiglia entrò nel monastero di Mertoulé-Mariàm dove meravigliò tutti per l'illibatezza di vita e l'insaziabile desiderio che aveva d'imparare. Dopo la professione religiosa fu mandato a Debre-Motsa, il più celebre monastero di tutta l'Etiopia, ma non trovò risposta ai dubbi che cominciavano a fluttuargli nella mente riguardo alla vera natura di Gesù Cristo. Riprese dunque il sacco e il bordone di pellegrino per visitare, secondo la consuetudine del tempo, le biblioteche di altri monasteri, mendicando il pane di porta in porta e dormendo di notte per terra nelle chiese. Meditava sul corpo mistico di Cristo tanto straziato dalle fazioni e gemeva: "O Salvatore, dimmi dunque , dov'è la verità? Tu sei la verità, ma chi sono i depositari della tua parola? Troppi sono quelli che si contendono questo vanto, e nessuno può assicurarmi di avere ricevuto il deposito. Io cerco la verità nella sua sorgente, qui non trovo che rivoli inquinati dai dissidi e dalle lotte fraterne".
A Gondar, capitale dell'impero, luogo di convegno per tutti i sapienti dell'Etiopia, Ghébré Michael si fermò per undici anni. Esplorando le biblioteche ebbe modo di avere tra mano il Libro dei Padri, una cristologia tradotta dall'arabo verso la metà del secolo XV. Nella prima parte vi trovò esposti i trattati e le omelie dei Padri che insegnavano come in Gesù Cristo ci fosse una sola persona e due nature; nella seconda parte vi trovò esposta la dottrina di coloro che sostenevano, in contrasto con il concilio di Calcedonia (451), come in Gesù Cristo ci fosse soltanto una natura divina. Per il Ghébré quell'opera fu una rivelazione del cielo, ma non ne fece parola con i suoi confratelli per non venire meno al precetto della carità.
Per arricchire le proprie cognizioni e trovare una conferma alla verità da lui scoperta, ma non ancora professata, decise di recarsi in pellegrinaggio a Gerusalemme. Questa volta, però, nei monasteri del Tigre per cui passò non fece mistero della sua preferenza per la credenza cattolica, ma ovunque fu considerato un nestoriano. A Massaua attese per cinquanta giorni il barcone che lo doveva trasportare verso i luoghi santi. Quando giunse vide scendere da esso tre abissini di ritorno dalla città santa. Li tempestò di domande, ma costoro lo pregarono di andare con loro ad Adua, alla corte di Ubié, re del Tigre, perché doveva incaricarli di una importante missione al Cairo.
Essendo morto avvelenato nel 1828 l'abuna Cirillo, il patriarca copto monofìsita del Cairo, Pietro, si lagnava del ritardo degli Abissini nel richiedere un nuovo abuna. Ubié nominò una commissione di dignitari, ma volle che fosse guidata dal P. Giustino De Jacobis al quale, nel 1839, aveva concesso di stabilirsi ad Adua. Egli, come europeo, avrebbe potuto proteggerli dalle insidie dei turchi. P. Giustino accettò l'incombenza a condizione però che gli fosse concesso di condurre, coloro che lo avessero desiderato, a visitare Roma e Gerusalemme, e che al ritorno gli fosse concesso un luogo in cui costituire una comunità cattolica. Dell'ambasciata fece parte anche Ghébré Michael il quale, all'inizio del viaggio, non risparmiò sgarbatezze a P. Giustino perché lo considerava un prete nestoriano, ma la pazienza e la cortesia del santo lazzarista lo disarmarono talmente che finì con lo stringere amicizia con lui.
Al Cairo fu eletto abuna dell'Etiopia, in modo simoniaco, Abba Andreas, un giovane allievo dei metodisti che volle chiamarsi Salama II. Egli era empio, avido, ignorante e intransigente, nemico giurato dei cattolici. Appena poté il De Jacobis si rimise in cammino. Scrisse da Malta ai suoi confratelli: "Il viaggio di Roma cambierà le idee dei miei poveri abissini; sarà per loro il più bei corso di teologia". Nella Città Eterna giunsero in tempo per assistere alla cappella papale in Santa Maria Maggiore.
Gregorio XVI ricevette l'ambasciata abissina due volte in udienza al Quirinale, e si trattenne in conversazione con i suoi componenti tramite il cardinale Giuseppe Mezzofanti il quale parlava 58 lingue diverse. Grande fu l'impressione che rincontro con il papa e la visita alle basiliche romane produssero in tutti quei dignitari. Difatti andavano dicendo: "Quanto sono buoni i cattolici che i protestanti e i nostri paesani ci avevano dipinti come gente avara e maliziosa!". Tre di essi si fermarono a studiare nel collegio di Propaganda Fide, altri si fecero cattolici dopo il ritorno in Abissinia.
Prima di recarsi in Palestina, il De Jacobis volle fare una sosta con la delegazione a Napoli. Ferdinando II la ricevette in udienza nella reggia di Capodimonte e la colmò di doni. Il 19 settembre nel duomo di Napoli gli abissini ebbero la felice sorte di vedere liquefarsi, come d'ordinario, il sangue di S. Gennaro, e nei luoghi santi della Palestina ebbero modo di ammirare maggiormente la grandezza della fede cattolica.
Di ritorno al Cairo, la delegazione abissina fu di nuovo ricevuta dal Patriarca Pietro. Ghébré Michael disputò con lui e con tutto il clero tanto accanitamente che riuscì a ottenere per l'abuna Salama una lettera in cui s'imponeva a tutte le sètte etiopiche di uniformarsi alla fede della chiesa copta egiziana. Prima di separarsi da lui però gli disse: "Abbiamo visto il papa tra i cardinali come in un coro di serafini e di cherubini. I cattolici amano come insegna il Vangelo, e il papa ne da a tutti l'esempio. I copti non hanno carità, e per questo sono privi di scienza e di unione. Se voi amaste come vuole il Vangelo sareste cattolico".
Quando l'ambasciata abissina sbarcò a Massaua (3-4-1842), nel Tigre regnava l'anarchia e diversi spioni erano stati incaricati dall'abuna Salama di sorvegliare il Ghébré. Non voleva infatti che la lettera dottrinale del Patriarca Pietro giungesse a Gondar, sua sede. Il De Jacobis lo consigliò di ritirarsi sotto falso nome nel convento di Eghela-Cura, sperduto tra i monti, ma dovette fuggire anche di là perché i monaci avevano deciso di ucciderlo per la difesa che faceva della fede cattolica.
Si diresse per sentieri solitari verso Gondar, ma lungo il cammino una spia lo avvicinò e cercò di sopprimerlo dandogli da mangiare un pezzo di focaccia avvelenata.
A Gondar il Ghébré fu ricevuto in trionfo dagli amici dell'università ai quali diede subito conto dei suoi viaggi e del contenuto della lettera del patriarca Pietro. L'abuna Salama e la sua sètta mandarono alcuni poliziotti ad arrestarlo, ma egli fece in tempo a mettersi in salvo nella dimora dell'ecceghié o capo supremo del clero regolare etiopico, che godeva del diritto di asilo. L'abuna Salama convocò l'assemblea sinodale nel suo palazzo. Il Ghébré gli consegnò allora la lettera dottrinale del patriarca Pietro, ma egli, anziché darne lettura, se la mise in tasca e sciolse l'assemblea. Il Ghébré protestò contro quel sopruso con energia, ma l'Abuna ordinò che fosse schiaffeggiato e allontanato come "un maledetto scomunicato".
Il clamoroso fallimento del piano progettato per l'unione di tutte le sette abissine spinse il Ghébré a fare ritorno ad Adua dal De Jacobis. Dopo essere rimasto più di un anno alla sua scuola gli chiese di accettare la propria abiura dell'eresia e la professione di fede cattolica. Il santo attestò del beato: "Una volta che ebbe abbracciata la verità non la lasciò più. Nessuna obbiezione di eretici aveva più forza sul suo spirito; al contrario, aveva risposte sempre pronte e convincenti per illuminare quelli che lo visitavano e gli proponevano dei dubbi".
Da quel momento il Ghébré, monaco dotto e virtuoso, maestro riverito e temuto in ogni scuola, fu per Giustino De Jacobis un valido aiuto per la conquista dell'Etiopia alla Chiesa Cattolica. Difatti ogni giorno egli riceveva quanti volevano parlargli per approfondire le verità della fede. Scrisse il De Jacobis : "La sua stanza era diventata una scuola di teologia, di controversia, di letteratura e di preghiere". Per gli alunni del collegio compose una grammatica e un dizionario in lingua ghez, indispensabile nel sacro ministero, e quando il De Jacobis fondò a Guala (1845) il seminario dell'Immacolata, egli non disdegnò di farvi scuola.
Poiché il movimento di conversione al cattolicesimo andava estendendosi, la Congregazione di Propaganda Fide elesse nel 1846 Guglielmo Massaia, cappuccino (+1889), Vicario Apostolico dei Galla. L'abuna Salama quando seppe che era sbarcato a Massaua, si presentò al re Ubié e gli chiese che fosse espulso dal regno perché temeva che ordinasse dei sacerdoti. Eccitava pure gli altri capi a saccheggiare le case dei cattolici e a ucciderli, promettendo loro come ricompensa sette corone nel cielo. Il collegio di Guala fu chiuso e il De Jacobis, con i preti, i monaci e gli allievi, trovò rifugio tra i monti in Alitiena.
Nel nuovo seminario Ghébré Michael non si trovò a suo agio per le discordie interne sorte. Chiese quindi licenza al De Jacobis di trasferirsi a Gondar per fare vita comune con i missionari di là, ma durante il viaggio da alcuni traditori fu consegnato con i suoi tre compagni nelle mani dell'abuna Salama e imprigionato. Il P, Giustino appena ne ricevette la triste notizia accorse a consolarli e a provvederli di cibo e vestiti. Dopo settanta giorni il re Ubié ne ordinò la scarcerazione e allora, anziché prendere la via di Gondar, il Ghébré fece ritorno ad Alitiena con gli altri fuggitivi. Il De Jacobis ne fu tanto contento che andò loro incontro in processione con il clero e il popolo, si gettò ai loro piedi, baciò le loro ferite e li abbracciò come il più tenero dei padri.
Il seminario di Alitiena si organizzò soprattutto dopo che il De Jacobis fu eletto primo Vicario Apostolico dell'Etiopia e fu da Mons. Massaia consacrato vescovo a Massaua (8-8-1847). Il Ghébré corrispose pienamente alle cure del suo maestro e padre il quale scrisse di lui: "Da allora in poi consacrò la vita alla preghiera, all'insegnamento cattolico e a una dotta controversia ricca di frutto". Il 1-1-1851 lo ordinò sacerdote quantunque fosse privo di un occhio e lo associò alle sue fatiche apostoliche e ai suoi viaggi. In seguito, per non destare sospetti nei copti circa la propria consacrazione episcopale, lo mandò ad Halai, nei pressi di Massaua, mala solitudine e l'inerzia gli riaccesero nell'animo il desiderio di recarsi a Gondar per guadagnare alla fede cattolica l'imperatore Johannes (1840-1855), suo antico discepolo, la corte, il clero e le scuole universitario. Potè andarvi in compagnia del P. Lorenzo Biancheri, futuro successore del De Jacobis, giunto da Roma ad Halai con lettere di Pio IX per Ras Aly.
A Gondar il Ghébré non tardò a farsi numerosi amici. Scrisse Mons. De Jacobis alla Congregazione di Propaganda Fide: "Grazie al suo irrefutabile insegnamento si vide manifestarsi un grande slancio verso il cattolicesimo in tutte le classi, anche tra gli scismatici più fanatici". A Gondar in quel tempo giunse anche l'abuna Salama dal Tigre, dove era stato confinato, e con l'appoggio di Ras Kassa, diventato l'imperatore Teodoro II dopo la vittoria su Ras Aly, scatenò una furiosa persecuzione contro i missionari e i cattolici. Per ridurre gli abissini all'unità della fede costui formulò una propria dottrina ispirata al più rigido monofisismo, e l'impose con la forza. Soltanto i cattolici, sotto la guida di Mons. De Jacobis, l'avevano rifiutata. Fu allora dato l'ordine che fossero arrestati e imprigionati in una stamberga dell'abuna Salama. Mons. De Jacobis avrebbe voluto restare con loro, ma fu costretto a lasciare il territorio soltanto perché nessun cristiano osservava come lui la legge di Dio.
In prigione Ghébré Michael fu percosso fino al sangue con gli altri quattro compagni. Gli fu imposto di aderire alla formula di fede dell'abuna, ma egli rispose: "Fate pure contro di me quello che volete, non potrete strapparmi il più bei tesoro della mia vita". Anche i dottori abissini andarono a questionare con lui per indurlo a rinnegare la fede cattolica, ma egli ripose loro: "Le vostre proposte non fanno breccia nell'animo mio. La mia bocca può dire soltanto quello che io sento nel cuore, e nel cuore io mi sento profondamente cattolico". Il 15-7-1854 i prigionieri furono convocati davanti a una grande assemblea e sollecitati a recitare la nuova professione di fede, ma essi proclamarono di ritenere soltanto la fede della Chiesa cattolica, apostolica e romana. Furono allora condannati alla pena del ghend o del tronco, che imprigionava così strettamente le loro gambe da costringerli a starsene o seduti o distesi sul dorso.
Mons. De Jacobis, mediante una persona fidata, riuscì a mettersi in relazione con loro. Nelle missive Ghébré Michael gli diceva: "Prega, Padre, prega affinchè nella lotta vinca la fede. Per adesso sta tranquillo; di preghiera solo abbiamo bisogno. Quando la sventura coglie, è afflizione; ma quando il patire è piacere, dov'è l'afflizione? Dio ci custodisca. Amen". "Dal nostro tenebroso carcere sfolgora la luce della fede. Seduti giorno e notte sulla pietra del carcere, siamo predicatori senza parlare. E' muta la nostra bocca, ma le nostre gambe gridano: "Credete alla Chiesa Cattolica!".
Il 26 agosto, sei settimane dopo la cattura, i prigionieri furono invitati a rinunciare al papismo per la quarta volta, ma essi risposero che non avrebbero rinnegato la fede cattolica neppure a costo della decapitazione. Per impedire che intrattenessero relazioni con gli esterni furono isolati, per un anno, sottoposti a continui insulti. I carcerieri per fare loro dispetto si abbandonavano talora sotto i loro sguardi a scene del più spudorato libertinaggio, incuranti delle loro proteste. L'abuna Salama, essendo costretto a seguire Teodoro II nelle sue campagne militari, fece trasferire i prigionieri nel suo feudo di Genda, sul lago Tana. Il 20 dicembre li chiamò a uno a uno davanti al suo tribunale, li esortò all'apostasia, ma poiché gli opposero tutti un netto rifiuto li fece spogliare e frustare fino al sangue. Di ritorno a Gondar con i prigionieri in occasione della festa del Natale, per indurii più facilmente all'apostasia pensò di fare sopprimere il Ghébré ormai ridotto a uno scheletro ambulante. Lo fece comparire alla presenza dell'imperatore a Teka-Mieda dopo il Natale, gli fece promettere ricchezze e onori se fosse ritornato alla fede dei padri, ma egli rispose che non sapeva che farne. "So di essere giunto al possesso della sola vera fede che conduce a salvezza, e non mi separerò più da essa fino alla morte". Di tanta fermezza fu ricompensato con il passaggio dalle carceri dell'abuna a quelle dell'imperatore. L'ufficiale di corte Werchié che lo prese in consegna ebbe tuttavia compassione di lui e permise che i cattolici lo andassero ogni tanto a trovare e gli portassero soccorsi.
Dopo la vittoria sopra Ubié, ultimo re ribelle, Teodoro II l'11-2-1855 volle che l'abuna Salama lo incoronasse imperatore. Volendo fondare l'unità dell'impero su quella religiosa indisse per il 4-3-1855 una grande assemblea a Gelba-Tarara. Ghébré Michael vi fu costretto a comparire rivestito dei soli calzoni e con in capo il berretto monastico. Gli fu rinfacciata dall'imperatore l'ostinazione nel professare la fede proscritta, ma egli più intrepido del solito gli rispose: "Sire, invano potete sperare che io professi quella credenza che ammette in Gesù Salvatore soltanto la natura divina. La mia fede m'insegna che Cristo non solo è vero Dio, ma anche vero uomo come noi". In punizione di tanta franchezza fu schiaffeggiato, spogliato anche dei pantaloni, della croce e delle medaglie che portava al collo e flagellato per due ore prima da due e poi da dodici uomini con una coda di giraffa dai crini lunghi e taglienti più del filo di ferro. Il martire, disteso bocconi per terra, pensava alla passione del Signore e ogni tanto mormorava: "Io credo la fede della santa Chiesa Cattolica, Apostolica e Romana. O mio Dio, aiutami con la tua grazia e ricevimi nella tua grande misericordia!". Sanguinante e con le carni e le mutande a brandelli fu ricondotto in carcere. Contrariamente alle aspettative di tutti, invece di morire in breve tempo guarì e l'occhio sano che era stato più duramente colpito brillò di una luce più viva e intensa.
Il 15 marzo il Ghébré fu incatenato a un uomo che doveva fargli da custode e costretto a mettersi in marcia con l'armata imperiale diretta al meridione per soggiogare Sahia Sellassié, re dello Scioa. Al termine della campagna Teodoro volle tenere nella pianura di Babà, alla presenza di Plawden, inviato straordinario della regina Vittoria d'Inghilterra, una grandiosa assemblea. L'abuna Salama, protettore ufficiale dei protestanti in Abissinia, aveva persuaso l'imperatore a sollecitare pubblicamente il consenso dell'ambasciatore inglese sulla condanna di Ghébré Michael. Lo fece comparire per l'ultima volta davanti a sé e poi disse rivolto all'assemblea: "Tutto finora ha ubbidito ai miei comandi. Ho assoggettato popoli interi alla mia legge e alla mia credenza. Solo questo monaco si è rifiutato di ubbidire alla suprema autorità che Dio mi ha dato". Il prigioniero proclamò con fierezza: "Io non conosco altri giudici della mia fede all'infuori di Gesù Cristo e il suo rappresentante visibile in terra, il sommo pontefice di Roma. È cosa contraria a ogni giustizia che un uomo imponga o la pena di morte o l'obbligo di abbracciare una sua credenza. In quanto alla tua persona io ti dichiaro il flagello dell'Abissinia, e il pappas (l'abuna) il suo spirito malefico". Gli fu chiesto se almeno nell'inviato dell'Inghilterra voleva riconoscere un arbitro imparziale, ma il martire gli rispose: "Oh, lui!… Quale autorità ha un protestante di giudicare un cattolico romano? Lui che insulta quella Vergine che io venero quale madre? Lui che viola con disprezzo i precetti del digiuno e dell'astinenza? Tra i due giudici io preferisco te". L'imperatore, roso dalla rabbia, comandò che fosse condotto in un angolo del campo e fucilato, ma poiché il signor Plawden aveva interposta la sua mediazione, condannò il Ghébré alla prigione a vita.
Teodoro II ancora una volta fu costretto a mettersi in marcia con i suoi soldati per soggiogare i Galla che si erano ribellati al suo dominio. Il Ghébré dovette seguirlo incatenato. Essendo scoppiato nell'esercito il colera anch'egli ne rimase contagiato. Poiché soffriva di mal di stomaco e di dissenteria il Werchié avrebbe voluto liberarlo almeno dalle catene. Non essendogli però permesso questo, lo legò sopra un cavallo perché non cadesse e lo affidò alla custodia di un servo. Viaggiò così per tre giorni.
Il 28 agosto, mentre i soldati stavano accampati a Cerecia Ghebaba, il prigioniero, sfinito, chiese di scendere da cavallo. Il servo lo distese per terra con il capo appoggiato a una pietra e in quella posizione morì preannunciando sventura per Teodoro e il suo regno. Mons. Giustino De Jacobis ne fece ricercare le spoglie mortali, ma inutilmente. Del sepolcro di lui si sono perdute le tracce.
I persecutori del Ghébré terminarono miseramente i loro giorni. Teodoro II si tolse la vita nella fortezza di Magdala nel 1868 per non cadere nelle mani degli inglesi che avevano preso le armi contro di lui per vendicare la prigionia di alcuni loro cittadini. L'anno precedente nella stessa fortezza era morto, forse avvelenato, l'abuna Salama II. Vi era stato relegato dall'imperatore perché aveva attentato all'onore di sua moglie.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 8, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 346-353
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