B. GIOVANNI GIOVENALE ANCINA (1545-1604)

L'oratoriano Giovanni Giovenale Ancina era nato a Fossano il 19 ottobre 1545. Nell'anno 1574 andò a Roma dove resta affascinato da S. Bellarmino, ma soprattutto da San Filippo Neri, il quale lo accoglie nella sua congregazione. Diventato sacerdote, inizia a Roma il suo ministero e poi accompagna San Filippo a Napoli, dove le sue prediche sono talmente partecipate che le chiese non sono sufficienti a contenere tutti coloro che lo vogliono ascoltare. Papa Clemente VIII, lo propone per la sede episcopale di Mondovì, ma egli sceglie quella di Saluzzo perché più povera e difficile. Sa che qui la fede è minacciata non solo dall’eresia, ma soprattutto dalla scarsa preparazione del clero. Muore il 30 agosto 1604, a 17 mesi dal suo ingresso in diocesi, e la sua fine è avvolta dal mistero: fu avvelenato da chi non condivideva la sua azione riformatrice e il suo zelo apostolico?  Fu beatificato il 9 febbraio 1890 da papa Leone XIII.

Questo discepolo di S. Filippo Neri nacque a Possano (Cuneo) il 19-10-1545, da benestanti e pii genitori. I primi studi Giovenale li fece in casa, poi fu mandato a continuarli a Montpellier. Ne fu richiamato presto da un editto del duca di Savoia, Emmanuele Filiberto. Non volendo costui che i suoi sudditi si formassero nel sapere a contatto dei calvinisti francesi, provvide di buoni professori lo studio di Mondovì in cui il nostro beato frequentò filosofia, matematica e musica. Dopo la morte del padre andò a specializzarsi in medicina presso la celebre università di Padova, ma conseguì la laurea in detta materia e in filosofia a Torino, nel 1567.
A contatto di studenti corrotti e indisciplinati, Giovenale seppe conservarsi casto perché si accostava sovente ai sacramenti e nutriva una tenera devozione verso Maria SS. A Torino frequentò con grande edificazione di tutti la Congregazione della SS. Annunziata alla quale si era aggregato. Dalla mamma ereditò un grande amore per i poveri. Costei rispose un giorno a uno dei suoi familiari che la rimproverava di aver dato troppo ad una persona poco simpatica: "Legatemi le mani se non volete che io dia". Chiamava il figlio "il mio Giacobbe", tanto le ubbidiva in tutto anche dopo che era stato proclamato dottore.
Giovenale insegnò medicina nello studio della capitale sabauda e la esercitò specialmente a favore dei poveri. Gli si presentarono diverse occasioni di sposarsi, ma non ne volle sapere avendo proposto di conservare intatto il giglio della verginità. Un giorno, udendo cantare in una chiesa di Savigliano il Dies irae, comprese la vanità del mondo e cercò di conoscere quale fosse la volontà di Dio nei suoi riguardi pregando di più, meditando i novissimi specialmente di notte e leggendo la Sacra Scrittura. Nel 1574 si recò a Roma come medico dell'ambasciata sabauda presso il papa Gregorio XIII, dove ebbe modo di frequentare le lezioni di teologia che S. Roberto Bellarmino (+1621) teneva nel Collegio Romano, e gli esercizi dell'Oratorio che S. Filippo Neri (+1595) aveva organizzato presso la chiesa di San Giovanni dei Fiorentini con l'aiuto del ven. Cesare Baronio (+1607).
Per un anno Giovenale andò a confessarsi da S. Filippo che risiedeva presso la chiesa di S. Girolamo della Carità e ad ascoltarne quasi tutte le mattine la Messa. Un giorno manifestò alla sua guida il proposito che tanto lui quanto suo fratello Giovanni Matteo avevano maturato di farsi religiosi per vivere in più intima unione con Dio. Filippo li esortò ad entrare nella Congregazione dell'Oratorio da poco tempo eretta presso la chiesa di Santa Maria in Vallicella (1568). Due anni dopo Giovenale fu ordinato sacerdote. Benché avesse ormai trentacinque anni, non tardò ad assimilare lo spirito dell'Istituto e a compierne l'apostolato tipico in perfetta sottomissione al volere dei superiori.
Il beato trascorreva la giornata nella preghiera e nello studio, nell'attendere ai penitenti, nel visitare i malati e i carcerati, nel dirigere gli eretici convertiti alla fede. Non gli restavano molte ore a disposizione se confidò al fratello che "trovava appena il tempo il sabato per farsi la chierica". Nonostante tanto lavoro non appariva mai turbato o malinconico. Si considerava il più piccolo della Congregazione e soddisfaceva il desiderio che aveva di umiliarsi occupandosi, per quanto gli era concesso, negli uffici più bassi, quali scopare la chiesa, pulire i candelieri, preparare gli altari e aiutare il cuoco in cucina. Di se stesso diceva che era un peccatore, un ipocrita, un cucuzzone ed un pecorone. Un giorno fu visto piangere perché, considerando la propria viltà, si proclamava indegno del pane che mangiava.
Il beato aborriva tutto quello che poteva recare qualche soddisfazione ai sensi. Fu sempre mortificato nel cibo, nel vestito, nel sonno. Si disciplinava tre volte la settimana, sovente andava cinto di un ruvido cilicio e dormiva per lo più vestito sopra un pagliericcio, tre o quattro ore per notte. Per il sollievo dei poveri dava tutto il denaro di cui poteva disporre e talvolta anche la biancheria personale, tanto che i superiori dell'Oratorio furono costretti a indurre il Padre Ministro di lui a non lasciargli in camera che lo stretto necessario.
Quando S. Francesco di Sales (+1622) si recò a Roma per trattare, a nome del suo vescovo Claudio Granier, alcuni affari della diocesi, strinse amicizia con il P. Giovenale e la coltivò poi fino a che visse perché lo riteneva un santo e un dotto. Anche S. Camillo de' Lellis (+1614), fondatore dei Ministri degli Infermi, ricorreva sovente ai suoi consigli.
Nel 1586 S. Filippo mandò il P. Giovenale a Napoli nella casa di nuova fondazione. Per dieci anni costui si sovraspese nel ministero della predicazione e delle confessioni con grande successo. Teneva in media quattro sermoni la settimana nell'Oratorio, in duomo e nei monasteri, guadagnandosi la stima di tutti per le spiccate doti intellettuali e morali.
Si preparava a questa fatica con molta orazione e con l'assiduo studio della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa. Parlava come uno che ha autorità e di rado finiva una predica senza ricordare i novissimi. Sovente le sue lacrime si mescolavano con quelle degli uditori. Si può dire che non passava giorno senza che qualche peccatore gli andasse a chiedere di riconciliarlo con Dio.
Il giorno in cui fu posta la prima pietra della chiesa dell'Oratorio, il beato predicò all'aperto. Essendo cominciato a piovere, tutti avrebbero voluto allontanarsi, ma egli li rimproverò dicendo: "Fermatevi, non pioverà perché qui si ragiona della Beatissima Vergine". Fu profeta perché soltanto alla fine del suo dire la pioggia scese a catinelle. In onore della Madonna egli fece alcuni pellegrinaggi. Un giorno salì al santuario di Montevergine (Avellino ) e trascorse tutta la notte in preghiera davanti alla venerata immagine di "Mamma schiavona". Con l'intercessione di Maria SS. egli ottenne la salute a diversi malati. Altri ne sanò col tocco delle mani.
A Napoli il P. Giovenale attese pure al ministero delle confessioni con tanto zelo che S. Filippo si ritenne obbligato di scrivergli per moderarlo nelle fatiche. Piangeva amaramente come propri i peccati degli altri. Talvolta conosceva i peccati d'impurità dei penitenti dal fetore che emanavano. Un giorno un peccatore gli disse che non si confessava da dodici anni. Il beato ne rimase costernato e sospirò: "Dodici anni, eh? Dodici peli bianchi mi hanno a far mettere". A suo fratello diceva: "Vadano pure denari e roba e onor di mondo e reputazione e sanità e carne e quanto vi è, purché non offendiamo il Signore".
Si preoccupava che i suoi penitenti crescessero nella virtù con la frequenza dei sacramenti e la fuga delle cattive compagnie. Talora per correggerli della loro vanità li afferrava per i capelli e li costringeva a baciare la terra o glieli tagliava in pubblico con le forbici. Ne conduceva altri a visitare i malati negli ospedali e, in tempo di carnevale, a cantare laudi a San Giacomo degli Incurabili, in riparazione degli scandali degli uomini. Quando qualche suo penitente cadeva malato o veniva a trovarsi in necessità, lo andava a trovare per consolarlo e soccorrerlo nei suoi bisogni. Rispose a chi si meravigliava delle attenzioni che usava verso una vecchia povera e storpia: "Stimo di più costei che tutte le principesse di Napoli".
Nei poveri egli vedeva l'immagine di Gesù Cristo. Aveva molta fiducia nelle loro preghiere. Un giorno si raccomandò alle orazioni di una penitente, ma costei gli rispose, tutta confusa: "Eh, padre, raccomandatevi alle preghiere di Madre Orsola Benincasa" (+1618). Voleva dire che, essendo colei la fondatrice delle Suore Teatine dell'Immacolata Concezione di Maria Vergine, gli avrebbe più facilmente ottenuto le grazie di cui aveva bisogno. P. Giovenale le replicò: "Va', e prega tu per me, che sei tribolata e povera; Suor Orsola invece va a tavola a suon di campanello".
Dio ricompensò con prodigi la fiducia del suo servo buono e fedele. Volendo mandare un po' di roba ad una povera donna distante assai dall'Oratorio, disse ad un contadino che conduceva un somarello: "Buon uomo, di grazia, portatemi queste robe in casa di una certa donna che sta inferma". Gli indicò pure la via, ma non raccapezzandosi il povero uomo alle indicazioni, il P. Giovenale gli disse: "Orsù, andate che la bestiola v'insegnerà la strada". Il giumento camminò un bei pezzo per le vie di Napoli, poi tutto ad un tratto si fermò, ne più si mosse per quante busse gli desse il padrone. Si ricordò allora costui di quanto gli aveva detto il beato; picchiò alla porta davanti alla quale l'asinelio si erL; fermato e costatò essere appunto quella della persona ricercata.
Mentre il P. Giovenale si sovraspendeva per la salvezza delle anime in Napoli, fu assalito dal pensiero di entrare in qualche famiglia religiosa (1595) per attendere nella quiete alla propria santificazione. Ne fu dissuaso dal P. Baronie e dal cardinale Tarugi. Convinto che si trattava di un inganno del demonio, il beato riprese il ministero delle confessioni, benché gli costasse tanto per le tentazioni che provava. Quando disponeva di un po' di tempo libero componeva poesie e le musicava per gli esercizi dell'Oratorio. Di sua iniziativa istituì l'Oratorio dei principi che gli permise di penetrare nell'ambiente aristocratico partenopeo, e di organizzare nelle dimore private accademie poetico-musicali con nutrite discussioni formative fìlosofico-teologiche. Suo intento era quello di portare un soffio di vita cristiana nell'umanesimo paganeggiante del tempo per mezzo dell'arte. A questo scopo compose la sua più nota opera, Il Tempio armonico della Beatissima Vergine, una raccolta di laudi spirituali a più voci.
Nel 1596, essendo stato fatto cardinale Cesare Baronie, i Padri dell'Oratorio, per rifarsi della perdita subita, richiamarono a Roma il P. Giovenale. Il papa Clemente Vili pensò invece di nominarlo vescovo di Saluzzo perché con la sua dottrina e la sua santità di vita eliminasse le infiltrazioni degli eretici. Il beato, che si riteneva incapace e indegno di tanto ufficio, per cinque mesi visse lontano da Roma nella speranza di essere dimenticato. La ven. Orsola Benincasa gli fece scrivere: "Non mancherò di pregare nostro Signore perché lo faccia santo, e poi l'esalti a tutte le prelature, conforme merita".
Quando il P. Giovenale seppe che il papa non recedeva dal suo proposito ritornò a Roma disposto ad ubbidire. Fu ordinato vescovo in Santa Maria della Vallicella dal cardinale Camillo Borghese, futuro Paolo V, nel 1602, ma non poté entrare in diocesi che quattro mesi più tardi. Si stabilì nel frattempo presso i Frati Minori Conventuali di Possano e si adoperò, per estinguere gli odi radicati negli animi dei suoi concittadini, facendo sermoni secondo lo stile dell'Oratorio Filippino e intrattenendo il popolo, durante il carnevale, con musiche, dialoghi e laudi spirituali.
Mons. Giovenale entrò in Saluzzo il 5-3-1603. In episcopio non cambiò tenore di vita. Più frequenti furono le sue preghiere e maggiori le sue penitenze per domare, diceva, "questo somaro infingardo del nostro corpo". Per non maneggiare denaro incaricò un canonico di procurargli il necessario. Era solito andare a piedi. Godeva sommamente nel contemplare il cielo stellato o il sorgere dell'aurora. Di tutto si faceva scala per elevarsi a Dio: dei prati, degli alberi, dei fiori, degli armenti. Poiché nella scuderia non teneva cavalli, un signore gli regalò un muletto di cui si servì per raggiungere i luoghi più impervi. Degli introiti della mensa vescovile diceva: "Questi beni non sono di Giovenale, ma del vescovo di Saluzzo. Si devono pertanto ai figliuoli del vescovo, che sono i poveri, e non ai parenti di Giovenale".
Grande fu la sua cura nello scegliere i confessori ed i parroci, specialmente nei paesi sospetti di eresia. Per attendere al governo della diocesi non usciva mai di casa se non per adempiere doveri di giustizia o di carità verso i poveri e i malati. Volle perciò che la porta dell'episcopio fosse aperta a tutti in qualsiasi ora del giorno e della notte. Straordinaria fu la sua predilezione per i poveri che soleva chiamare "i miei cari figliuoli".
Ogni giorno ne invitava almeno due alla sua mensa, quattro nelle domeniche e nelle feste, una trentina d'inverno e in quaresima e, nelle maggiori solennità, tutti quelli della città. Faceva portare in mezzo a loro una grande caldaia di minestra o di carne e con le proprie mani distribuiva a ciascuno la sua parte.
Per meglio conoscere le sue pecorelle visitò la diocesi conducendo con sé i sacerdoti strettamente necessari per non essere di peso ai parroci. A Carmagnola s'incontrò con S. Francesco di Sales in pellegrinaggio al sepolcro di S. Carlo Borromeo. Mons. Giovenale lo invitò a predicare durante il suo pontificale. Il santo lo compiacque con la sua solita perizia e unzione. Facendo allora allusione al cognome Sales il vescovo di Saluzzo lo complimentò dicendogli: "Tu vere sal es", che significa: "Tu sei veramente sale". Con non minore arguzia S. Francesco, facendo allusione a Saluzzo, gli rispose: "Imo tu sal et lux; ego vero neque sal neque lux", che significa: "Anzi, tu sei sale e luce; io invece né una cosa né l'altra". A Dogliani il beato volle che per più giorni fosse esposto il SS. Sacramento e che gli abitanti dei paesi vicini, a turno, vi si recassero in processione ad adorarlo e ad ascoltare la sua parola. Si calcola che circa 40.000 persone abbiano preso parte a quelle funzioni eucaristiche. Numerosi eretici si convertirono. Dio ricompensò con miracoli lo zelo del buon pastore. Nel monastero di Santa Chiara in Saluzzo era seccato un mandorlo e le religiose volevano farlo abbattere. Il beato vi si oppose; abbracciò l'albero sollevando gli occhi al ciclo ed esso rinverdì e diede copiosi frutti a suo tempo.
Mons. Giovenale per la propagazione del Vangelo tra gl'infedeli avrebbe dato la vita. Invece era stabilito che la dovesse perdere per colpa di un frate che voleva fosse allontanato dal convento per gli scandali che dava ad un monastero di religiose. Un giorno, mentre pranzava nel convento dei Frati Minori Conventuali, il ribaldo gli somministrò del vino avvelenato. Il beato, preso dai vomiti, fu trasportato in episcopio. Per non suscitare scandalo non volle che il malfattore fosse denunciato a tutela dell'onore della sua famiglia e dell'Ordine al quale apparteneva. Per i continui vomiti Mons. Giovenale non poté ricevere il viatico. Avrebbe voluto morire disteso per terra, ma non gli fu concesso. Allora supplicò i familiari che gli levassero le lenzuola per restare sul nudo pagliericcio. Appena fu accontentato, mormorò: "Figliuoli, almeno sulla paglia, se non in croce".
Mons. Giovenale Ancina morì il 30-8-1604 dopo avere esclamato: "Dolce Gesù con Maria, date pace all'anima mia!". I poveri, per soccorrere i quali si era indebitato, più degli altri ne piansero la scomparsa. Leone XIII lo beatificò il 9-2-1890. Le sue reliquie sono venerate nella cattedrale di Saluzzo.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 8, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 361-367 .
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