Perché si studia la storia della filosofia

di Antonio Livi. INTRODUZIONE. Senso comune e filosofia. Le scienze “particolari” e la filosofia come “scienza dell’intero”. La filosofia come sapere “disinteressato”. Filosofia e religione. Carattere “problematico” della filosofia. Filosofia e prassi. I problemi della filosofia

Perché si studia la storia della filosofia


di Antonio Livi,

tratto da:

“Dal senso comune alla dialettica. Una storia della filosofia”, vol. 1,


Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2004-2005


INTRODUZIONE



1. Senso comune e filosofia.



L’uomo si apre a tutta la realtà attraverso l’esperienza, ossia innanzitutto attraverso la conoscenza ordinaria, il cui nucleo è i “senso comune “, ossia l’evidenza della realtà così come si manifesta a tutti gli uomini di tutte le età e di tutti i tempi (la realtà del mondo, la realtà della propria soggettività, la realtà degli altri soggetti con in quali esistono rapporti di tipo morale, e la realtà di una prima Causa di tutto.

La filosofia non crea il proprio oggetto ma lo riceve come “dato” che reclama un’ulteriore indagine, una spiegazione, una fondazione. La filosofia è ermeneutica, nel senso che si pone come tentativo di interpretare (ossia, capire meglio) ciò che nell’esperienza suscita meraviglia, perplessità, curiosità, necessità di scoprire che cosa ci sia “dietro”. Anche se questa definizione della filosofia non è accettata da tutti i filosofi (i filosofi di orientamento razonalistico amano dire che la filosofia comincia da se stessa), in realtà tutti i pensatori hanno fatto filosofia e continuano a farla come un pocesso razionale di “problematizzazione” dell’esperienza. Ogni indagine filosofica, infatti, ha questa caratteristica di base: che essa non comincia dal nulla, ma comincia da qualcosa che c’è già: e questo qualcosa che già c’è è appunto l’esperienza comune di tutti gli uomini, con il “valore aggiunto” rappresentato dalla riflessione che su di essa è stata elaborata dai precendenti filosofi, e il problema proprio della filosofia è come riuscire a capire meglio questo qualcosa. In questo senso, il punto di partenza della filosofia non è una teoria da verificare (“abbiamo questa teoria, vediamo se nella pratica funziona”, oppure “vediamo se ha successo nell’opinione pubblica”): il punto di partenza della filosofia è il nudo dato dell’esperienza, con tutta la sua oscurità, con tutta la sua problematicità: perché la realtà è evidente nel suo esserci e gli eventi sono evidenti nelloro accadere, ma non sempre è chiaro il significato di ciò che accade, e l’uomo non può sottrarsi alla domanda se ciò che  accade è già accaduto, se accade da sempre o accade solo ora. La filosofia è il tentativo che l’uomo mette in atto per trovare un senso a tutto ciò che gli accade: il suo esserci, il suo vivere in questo mondo, il suo rapportarsi agli altri, il suo gioire, soffrire e sperare. Ma questo tentativo è reso possibile dal fatto che l’uomo già sa che tutto ha un senso, ossia che l’assurdo non esiste e che pertanto si può tentare di rendersi ragione dell’esperienza. L’uomo fa filosofia perché ha interesse a scoprire la ragionevolezza che egli sa essere insita nell’esperienza; l’esistenza storica della filosofia mostra così la struttura ultima dell’esperienza umana (“umana”, nel senso che questa intelligenza avviene nell’uomo, anche se non riguarda solo l’uomo ma riguarda tutta la realtà). Noi stessi, oggi, se capiamo l’importanza di fare filosofia, capiamo di non poter prescindere dall’esperienza:  sia quella propria di ciascuno di noi, sia quella che si riconosce essere comune a tutti. Così ariviamo a individuare i problemi che sono non solo nostri (di ciascuno di noi) ma sono di tutti, e possono dunque avere interesse universale. Le risposte che si potranno dare a questi problemi avranno così valore universale, e lora poco importa che le abbia fornite un pagano o un cristiano, un antico o un moderno.

A questo punto si capisce perché la filosofia sia stata sempre studiata alla luce di quella sapienza che è stata accumulata nei secoli dalla riflessione delle generazioni passate. In altri termini, perché la filosofia sia stata sempre studiata con riferimento alla storia della filosofia. Occorre però sbarazzarsi subito dall’idea della storia della filosofia come di un’inarrestabile progresso: nella filosofia greca c’è prima Talete, poi ci sono Anassimene e Anassimandro, poi c’è Platone, e infine Aristotele, e ognuno ha “portato avanti” (nel senso che ha perfezionato) il discorso di chi veniva prima, correggendo tutto quello che i filosofi precedenti avevano detto. Così, poi, la filosofia moderna corregge e “porta avanti” il discorso avviato dai Greci. E la filosofia contempranea fa lo stesso nei confronti della filosofia moderna. Questa è l’immagine che si ricava da molti manuali che circolano nelle nostre scuole e che dipendono dalla concezione crociana della filosofia (infatti,  per Benedetto Croce la filosofia si identifica con la sua storia, e la storia è inarrestabile cammino progressivo dello spirito verso il suo compimento). In molti manuali di filosofia per i licei (soprattutto quelli di ispirazione idealistica e marxista) la storia della filosofia è presentata come la storia di un progresso, che ha pure i suoi momenti di oscurità (per esempio, il Medioevo), ma comunque di progresso.

La realtà (appurata dagli studi storici più seri e accreditati) è invece diversa, e induce a pensare che la storia della filosofia si presenta come una multiforme ricerca, dove non si può dire che vi sia stato un inarrestabile progresso né voci isolate e in radicale disaccordo, ma tante voci diverse accomunate da una medesima passione per la verità. Si trattta di riconoscere un’unica meta che ha mosso tante persone diverse ed è stata perseguita con tante diverse metodologie: una ricerca che, se considerata criticamente,  si dimostra a volte genuina e aperta (quando cioè è animata da un desiderio di scoprire come stanno le cose), a volte invece idolatrica (quando cioè si ferma ad adorare ciò che crede di aver scoperto); e la storia della filosofia ha il compito di discernere, osia di distinguere e di selezionare,  valorizzando la vera filosofia e scartando  – in presenza di validi motivi, s’intende – la falsa filosofia (che può esser detta “ideologia”, nel significato deteriore del termine).



2. Le scienze “particolari” e la filosofia come “scienza dell’intero”.


La filosofia è dunque riflessione appassionata sull’esperienza: non su qualche aspetto particolare dell’esperienza, come fanno le varie scienze dette appunto “particolari”, ma sulla totalità dell’esperienza. Platone, parlando del filosofo nel Teeteto, mette in chiaro la diversità di interessi tra chi si preoccupa esclusivamente delle faccende pratiche del momento e chi ha a cuore soprattutto la sapienza della vita: «Il filosofo non sta a curiosare su chi gli è vicino, e non gli interesa sapere che cosa stia facendo, anzi neppure gli interesa sapere se è uomo o animale; invece cerca e s’affanna a indagare se egli stesso è davvero un uomo e per quali caratteristiche si distingue dagli altri esseri… Ecco le ragioni per cui, nei rapporti sia privati che pubblici che un tale uomo avrà con chiunque, quando sarà trascinato a discutere in tribunale o altrove di cose che ha innanzi, sotto gli occhi, farà ridere non solo le donnette tracie, ma tutto il volgo: e per l’inesperienza precipiterà in un fosso e il suo fare impacciato lo farà sembrare un buono a nulla. Se verrà a scambio di ingiurie con gli altri, lui non ne avrà nessuna appropriata da lanciare contro alcuno, poiché ignora i difetti degli altri, per il fatto che non se ne interessa, quindi per l’imbarazzo sembrerà ridicolo. E quando negli elogi e nelle esaltazioni altrui lo vedranno ridere, non per affettazione ma di cuore, lo giudicheranno stravagante. […] E se gli si parla di chi possiede immense ricchezze, a lui, abituato ad abbracciare tutto l’universo, sembrerà inezia. Se altri lodano la nobiltà, e un tale è nobile perché discende da sette avi potenti, gli parrà elogio di menti ottuse e di vista corta, incapaci, per ignoranza, di abbracciare saldamente l’insieme». E nella Repubblica: «Chi tra questi rari individui gusta o ha gustato la dolcezza e la felicità che si provano nella filosofia, vedendo la follia del resto degli uomini e il disordine introdotto nello Stato da quelli che brigano per governarlo, non vedendo attorno a sé alcuno che voglia assecondarlo per far trionfare la giustizia, considerandosi come in mezzo a un branco di bestie feroci, delle quali non vuole dividere l’ingiustizia e al cui furore cercherebbe invano di opporsi, sicuro di rendersi inutile a sé e agli altri e di perire prima di aver reso il minimo servigio alla Patria, pieno di questi pensieri, si tiene tranquillo, occupato soltanto delle cose sue; e come un viaggiatore assalito da una violenta tempesta si stima felice di trovare un muro per mettersi al riparo dalla pioggia e dai venti, così, vedendo che l’ingiustizia regna dappertutto impunemente, egli considera come il colmo della fortuna il poter conservare nella sua solitudine il cuore puro dalla iniquità, il passare i suoi giorni nell’innocenza e l’uscire da questa vita con una coscienza tranquilla e piena delle più belle speranze». Ciò dipende appunto dalla “lungimiranza”, dallo sguardo della filosofia che non si limita al particolare.

Allora, è possibile la filosofia come “scienza”? Occorre innanzitutto rifarsi alla nozione classica di scienza , e poi va detto che la filosofia come scienza è possibile perché il suo oggetto specifico, irriducibile all’oggetto delle scienze particolari (della natura o dello “spirito” o dell’uomo o della società), esiste: è la totalità dell’esperienza, ossia l’esperienza umana come totalità previa a ogni riduzione e considerazione settoriale, così come è universalmente vissuta da ogni uomo, indipendentemente dalle sue scelte culturali e dai suoi interessi specifici; è, insomma il senso comune , nella sua caratterizzazione di sistema organico e genetico di certezze che riguardano tutto l’uomo e che ogni uomo possiede. Nessuna scienza particolare tematizza le certezze del senso comune nel loro insieme; e nessuna ha diritto – dal punto di visto logico – a interdire la tematizzazione dei contenuti e delle forme del senso comune. Anzi, è proprio lo spirito scientifico – che è “meraviglia” e problema davanti alla realtà data, davanti al fenomeno – a esigere che la problematizzazione arrivi alla totalità della realtà stessa. Come dice Pietro Prini, «la filosofia in sé e per sé è la scienza che cerca sé stessa, ossia […] la trascendenza del suo guardare il mondo. Perciò essa nasce dalla meraviglia. È un miracolo che il mondo sia conoscibile: il mondo, l’altro dal soggetto […]. Così è proprio della filosofia, intesa come la scienza che cerca la forma stessa del sapere come tale, l’aprirsi non soltanto a questa o quella regione del reale, ma alla totalità della presenza del mondo. La presenza totale del mondo è la manifestazione di tutte le sue possibilità. […] L’apertura filosofica alla totalità della presenza del mondo si pone per ciò stesso come interrogazione radicale: una domanda che verte sulle “ultime cose”» 2. Si capisce da questo modo di esprimersi che l’oggetto della metafisica è dato dal senso comune, proprio nei suoi connotati essenziali: il mondo, l’io nel mondo, l’esperienza della finitudine e il cammino verso la salvezza, Dio come prima causa e ultimo fine… In altri termini, la totalità dell’esperienza, unificata dal senso, dal dinamismo, dal finalismo intrinseco per cui tutto proviene dall’Essere e ad esso tende. Infatti, «la totalità non è il semplice insieme delle singole cose, e l’intero non è la mera somma delle parti. Nel problema dell’intero non è in questione la quantità della realtà che si vuole dominare, ma è piuttosto in questione la qualità di questo approccio alla realtà» 3. In questo senso, la problematizzazione dell’intero coincide con la ricerca della causa prima, del “perché” ultimo delle cose tutte: infatti, soltanto la scoperta della causa  prima (il “perché” ultimo delle cose), nella misura in cui spiega tutte le cose, costituisce l’orizzonte della comprensione delle cose stesse ed è l’ermeneutica dell’esperienza fondamentale ed essenziale, quell’esperienza che costituisce – al livello dei giudizi primari e universali – il senso comune 4.

Il carattere “empirico”  della filosofia è dunque evidente, come è evidente anche la sua diversità strutturale da ogni altro modo di problematizzare l’esperienza: il punto di vista, l’atteggiamento della filosofia rispetto alle cose è antitetico rispetto a quello delle altre scienze, giacché ciascuna di queste, per definizione, riconosce come proprio àmbito d’indagine solo una parte, una modalità dell’essere. È lo scopo della filosofia, pertanto, ciò che oppone questa scienza (la sovrappone gerarchicamente) alle scienze particolari, nel senso che il tutto si oppone o si sovrappone gerarchicamente alla parte. È questo lo statuto epistemologico del sapere che viene detto – con la terminologia che a tale scopo è stata usata per secoli in Occidente – “metafisico”. Nell’antichità, Aristotele ha espresso questo concetto in maniera paradigmatica: «C’è una scienza che considera l’essere in quanto essere [= intero] e le proprietà che gli competono in quanto tale. Essa non si identifica con nessuna delle scienze particolari: infatti, nessuna delle altre scienze considera l’essere in quanto essere universale, ma, dopo aver eliminato una parte di esso, ciascuna studia le caratteristiche di questa parte» (Metafisica, IV, 1). San Tommaso riprende alla lettera questa nozione: «Scientia autem communis considerat universale ens secundum quod ens. Ergo non est eadem alicui scientiarum particularium» (In Metaphysicorum libros, IV: ed. Cathala, nn. 529-532).

La filosofia è dunque la scienza del “mondo”, ossia la scienza del reale in tutta la sua universalità. Dalla prima certezza del sensus communis scaturisce la necessità di una scientia communis, non potendo le scientiae particulares rispondere alle esigenze di razionalità, alla problematicità che la nozione di universo comporta. Tutte le nozioni del senso comune, organicamente strutturate, derivano geneticamente dalla nozione di “mondo” come totalità ordinata di cose, cioè enti finiti e contingenti: alla coscienza di sé, alla certezza della propria natura personale e libera e alla conoscenza di Dio come prima causa e ultimo fine si giunge a partire dalle cose del mondo viste nella loro universalità, nel loro insieme di senso. Se il mondo fosse conoscibile attraverso l’accumulo delle conoscenze particolari o di settore, la metafisica non sarebbe necessaria: non ci sarebbe un oggetto specifico a esigerla dal punto di vista epistemico (le scienze, infatti, sono specificate dall’oggetto); e invece il mondo non è conoscibile se non attraverso l’universale, che è il senso di tutte le cose particolari: il senso della loro diversità e anche della loro connessione e universalità (derivazione dall’Uno e finalizzazione all’Uno), come ben vide Aristotele (cfr Metafisica, I, 2).

Osserviamo però che la nozione di “universo” o totalità delle “cose” del­l’esperienza è certissima, anzi massimamente certa in quanto prima e universale evidenza della realtà (costituita da una molteplicità di enti o essenti, i quali appaiono diversificati e finiti, ma anche collegati da rapporti reali), ma allo stesso tempo è massimamente problematica. La filosofia si qualifica allora come scienza – o meglio, tentativo di scienza – dell’universo nella sua accezione più piena: non solo il mondo fisico, studiato dalla cosmologia , ma ogni realtà (materiale o immateriale, personale o sociale, attuale o possibile) compresa nell’esperienza.

Come Nieztsche ha messo in rilievo, la metafisica come scienza dell’intero non può nascere senza una volontà, una scelta: è la scelta di assumere come oggetto della scienza il primo degli elementi del senso comune, che è la nozione di “mondo”; per questo diceva Platone che non tutti sono capaci di filosofia, perché non tutti vogliono prestare attenzione al tutto, ma preferiscono concentrare il desiderio di sapere sulle parti; egli parlava di “synopsis”, ritenendo che possa fare filosofia solo chi voglia avere la capacità di questo “sguardo che coglie l’intero”, e lo ha anche detto in modo paradigmatico: «Chi è capace di vedere l’intero è filosofo, chi no, no» (cfr Repubblica, VII, 537 c).

Occorre però ricordare che non esiste soltanto un approccio all’intero di tipo ontologico, poiché la filosofia è anche e soprattutto un discorso antropologico. Quando Socrate dice di voler far «scendere dal cielo sulla terra» la filosofia, non intende affatto spostarsi dal “tutto” alla “parte” (nel senso che abbiamo detto): intende semplicemente dimensionare scientificamente il problema dell’intero. I Fisici tentarono di spiegare astrattamente l’intero cosmologico cercando di individuare i princìpi cosmoontologici di tutte le cose; Socrate invece, più concretamente, esamina tutte le cose relative al­l’uomo e alla sua vita, ma unitariamente, deducendole da un principio, ossia studiandole e interpretandole nell’ottica dell’intero (nel senso) e così arrivare all’essenza dell’uomo (che è per Socrate l’anima), e in funzione di questa reinterpretare tutta la realtà che circonda l’uomo. Perciò «la ricerca socratica non ha nulla a che vedere con le altre scienze, nemmeno con quelle del suo tempo concernenti l’uomo (medicina, ginnastica): queste scienze si occupano solamente di parti, ossia di aspetti dell’uomo, non del­l’intero, del senso ultimo della sua esistenza» 5. Attualmente, col proliferare delle cosiddette “scienze umane” sorte alla fine dello scorso secolo e soprattutto del nostro (la sociologia, la psicologia, l’economia), gli esempi si potrebbero moltiplicare. Ciò che a queste scienze sfugge strutturalmente è proprio quell’intero (dell’uomo) che a Socrate interessava e che ancora oggi resta l’oggetto peculiare, il vero oggetto specifico della filosofia; e l’oggetto, a sua volta, specifica il metodo: «È evidente che i metodi della filosofia non possono coincidere con quelli della scienza positiva, perché i metodi di tale scienza sono ritagliati sulle parti e presuppongono strutturalmente restrizioni di ambiti e semplificazioni radicali. E quando oggi si pretende, con pretestuose affermazioni, di applicare i metodi “rigorosi” della scienza positiva alla filosofia, si cade in un errore da cui non v’è scampo, come si diceva, perché questi metodi possono valere solo per le parti e non per l’intero (e viceversa). È allora anche chiaro l’irrimediabile equivoco dello scientismo: come altro strutturalmente è l’oggetto della filosofia (l’intero) altro deve essere anche il metodo» 6.


3. La filosofia come sapere “disinteressato”.


L’esperienza delle scienze particolari è una particolare esperienza; l’esperienza della filosofia è l’esperienza come tale, quella comune a ogni uomo in quanto uomo e che permette di misurarsi con l’intero. Questo, e solo questo, come i classici insegnano, è lo specifico oggetto della filosofia; se si problematizza la totalità dell’esperienza, comune a tutti gli uomini, cercando il senso dell’intero, allora ha un senso la filosofia, ossia quella scienza che affronta il problema dell’intero senza limiti e senza scopi “particolari”. Questo infatti è un altro carattere definitorio della filosofia che ad alcuni (sensibili alle critiche marxiane e neo marxiane) sembra in crisi; ma, se non viene recuperato, ancora una volta ne va della sopravvivenza della filosofia medesima. I filosofi classici, fin dalle origini, hanno pensato che il fine (télos) della filosofia consista nel conoscere le ultime ragioni della realtà umana come valore in sé, non per scopi ulteriori, estrinseci al sapere e alla sapienza, come quelli che (dopo Descartes) consistono nel “dominio della natura” 7.

La filosofia è propter se (per se stessa) solo in un primo momento: quello della conoscenza in quanto tale; ma nel momento finale – nelle conclusioni che essa raggiunge in vista della sapienza umana che essa intende promuovere – la filosofia deve orientarsi all’uomo e alla pienezza della sua vita1. L’insieme delle umane vicende porta g ni uomo a porsi il problema della felicità,  che è ciò che in definitiva noi tutti perseguiamo; e la ricerca della felicità obbliga a individuare la sua relazione con il sapere propriamente filosofico. Il senso ultimo della vita, il fine dell’uomo in rapporto al fine del mondo, ha più valore del dominio della natura e di qualunque utilità a esso connessa. In questo senso ha ragione Prini nel dire «non c’è atteggiamento filosofico autentico che non si ponga, infine, davanti all’alternativa tra la speranza e la disperazione. Ma da dove potrà venire la risposta? Su quale fondamento potrà essere operata la più impegnativa delle nostre scelte? Se il sapere assoluto è la manifestazione totale del mondo, esso non potrà realizzarsi se non alla “fine dei tempi”, quando sarà inutile, ormai, e cederà il posto o alle ombre del nulla o all’amore di Dio. La domanda escatologica – fuori della quale, evidentemente, non può porsi nessun modo profondo di orientare la nostra avventura nel mondo – non ha senso se la risposta che essa attende non è, in qualche maniera, anticipatrice e profetica. La filosofia, proprio per il suo statuto epistemologico, si apre dunque a una verità che la oltrepassa: alla profezia, che è quanto dire alla rivelazione di Dio nel mondo, all’esperienza del Sacro» 8. Qui sta la necessità, oltre che la possibilità, di una scienza dell’intero, che è scientia salutis, sapere di salvez­za : non perché la filosofia possa mai essere un sapere che salva, ma perché è sapere che cerca la salvezza. Se la salvezza è dono dall’alto, è rivelazione  soprannaturale, la filosofia è consapevolezza di un bisogno, del bisogno della salvezza: perché colui che si riconosce come “homo viator9 sa che nulla al mondo può legittimamente considerarsi come la mèta, l’appagamento, la beatitudine, il fine ultimo. La filosofia conduce alla consapevolezza di dover cercare Dio, così ben espressa da sant’Agostino: «[Tu, Domine,] fecisti nos ad te: et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te [Tu, Signore, ci hai creati perché ci unissimo a te; e il nostro cuore non ha pace finché non riposa in te]» (Confessiones, I, 1).



4. Filosofia e religione.


Già a livello di senso comune l’uomo sa che l’io nel mondo è indirizzato a Dio attraverso l’ordine morale e la tensione al fine ultimo: ma la filosofia non può non aggiungere a questa consapevolezza universale e intuitiva la considerazione scientifica e metodica: non è possibile che l’uomo lasci al livello di senso comune proprio ciò che più gli interessa, ossia il senso globale della propria esistenza, mentre esamina scientificamente tanti aspetti secondari e parziali dell’esperienza. Solo la religione – storicamente molto più universale della filosofia – può indirizzare il senso comune alla vita morale e al culto di Dio facendo a meno, in una certa misura, della dimensione scientifica: che pure conserva tutta la sua validità, tutta la sua necessità (per la comunità umana, non per il singolo); tant’è che la metafisica è nata in Grecia in un clima religioso – quello di tutta l’antichità senza eccezioni – e si è sviluppata grazie all’impegno teoretico di uomini religiosi (da Pitagora a Socrate, da Platone ad Aristotele e fino a Plotino), senza sostituirsi alla religione ma convivendo con essa su un piano diverso 10. L’esistenza del senso comune come sistema organico di certezze sul mondo sul­l’io e su Dio – come abbiamo mostrato nei capitoli precedenti – fonda la possibilità che religione e filosofia nascano e crescano anche insieme, senza che ne derivi necessariamente una confusione logica o l’assorbimento del­l’una da parte dell’altra: «Almeno in linea di diritto, quando nell’uomo vi sia, oltre la religione, anche la scienza filosofica, la loro coesistenza non può essere meramente esteriore e giustapposta, ma interiore e concentrica in reciproca circuminsessione. Ambedue riguardanti la totalità, ambedue interessanti e coinvolgenti tutto l’uomo, filosofia e religione non possono non essere concentriche» 11, avendo come centro il senso comune.

Certamente, lo abbiamo già detto, la religione può nascere e crescere – sulla base del senso comune – senza la filosofia; la fenomenologia storico-religiosa ci presenta molti esempi di religioni che dànno origine, non a una filosofia in senso stretto (metafisica), ma a una “teosofia”, a una sapienza cosmica e morale ricca di intuizioni ma priva di scientificità: si pensi alla tradizione ebraica, all’induismo, al buddismo… Allo stesso tempo, però, «la religione non può prescindere dalla filosofia qualora voglia che la propria riflessione su sé stessa attinga a piena scientificità sistematica, a solida fondazione teoretica» 12.

La nozione di “senso comune” fornisce, tra l’altro, un importante elemento di chiarificazione per quanto concerne i rapporti tra filosofia e religione. Essi non vanno intesi, hegelianamente, come un “superamento” della religione da parte della filosofia; né vanno intesi come se la filosofia fosse il “preambolo” della religione. L’errore di Hegel è ben individuato da Maritain, quando scrive: «La soggettività è ciò che segna il confine tra mondo della filosofia e mondo della religione, come Kierkegaard aveva così ben intuìto ed espresso nella sua polemica contro Hegel. Il limite insormontabile contro cui la filosofia si scontra è il fatto che essa conosce senz’altro i soggetti, ma li conosce come oggetti: la filosofia è totalmente chiusa nel rapporto intelligenza/oggetto, mentre la religione ha come àmbito il rapporto tra soggetto e soggetto. Pertanto, ogni religione filosofica, oppure una filosofia che – come fece Hegel – pretenda di assumere in sé la religione e portarla a compimento, sono in definitiva una mistificazione» 13. Il rapporto tra soggetto (umano) e Soggetto (divino), e poi una ricca serie di rapporti inter-soggettivi facenti capo a Dio (fraternità, nella comune figliolanza divina): ecco la sostanza della religione. A essa fa da premessa non la filosofia, bensì il senso comune, lì dove la coscienza umana coglie quelle certezze, alle quali nessuna scienza (né la filosofia, né, eventualmente – trattandosi della religione rivelata – la teologia) possono aggiungere la benché minima perfezione conoscitiva, malgrado ogni apparenza in contrario. Quelle che Kant chiamava le “idee” dell’intelletto (Verstand) – ossia le nozioni di mondo, di “io” e di Dio – sono percezioni immediate (nel senso che abbiamo precisato sopra) della conoscenza universale degli uomini, e come tali sono e restano sempre la base della vita religiosa.

Quando essa è di tipo cristiano – basata sulla fede nella rivelazione divina –, è possibile un recupero della filosofia, come ancilla theologiae, cioè al servizio di una scienza della fede.



5. Carattere “problematico” della filosofia.


Come ha giustamente osservato Jean Guitton, la filosofia si caratterizza per la sua persuasione che l’essere è razionale (esclusione dell’assurdo), e che, al tempo stesso, la condizione umana non consente la piena comprensione di alcun aspetto del reale (senso del mistero); riallacciandosi a un’espressione di tanti anni prima di Garrigou-Lagrange, Guitton individua nel “sens du mystère” (che è ottimismo ontologico ed epistemologico, ma anche coscienza del limite) l’essenza spirituale dell’impegno filosofico 14. Non è facile esprimere in un solo concetto tutti gli elementi che formano la coscienza del limite in filosofia; qui, comunque, basterà precisare positività e limiti dell’approccio scientifico alla totalità del reale, vedendo sia l’una che gli altri come aspetti di un’unica logica.

1) Un aspetto facile da individuare è l’inesauribilità del logos, cioè della verità  presente in ogni momento e in ogni dimensione dell’essere del­l’esperienza. Così si esprime a questo proposito Maritain: «Se la filosofia permette all’intelligenza umana di cogliere con assoluta certezza le più sublimi e le più profonde realtà dell’ordine naturale, tuttavia essa non può pretendere di arrivare fino al fondo di tali realtà, di offrirle all’intelligenza in tutta la loro intelligibilità. Da questo punto di vista, la scienza non annulla il mistero insito nelle cose – quelle, cioè, che esse ancora conservano di sconosciuto e inesplorato – ma piuttosto lo constata, lo precisa; anche in ciò che conosce, la filosofia non conosce mai tutto» 15.

2) Un secondo aspetto da mettere in evidenza – e che è stato ben insegnato da san Tommaso – è che la filosofia, come ogni scienza, si limita per necessità agli aspetti universali, astratti, della realtà, poiché sul singolo fenomeno non si può costruire una teoria (“de individuo non est scientia”). Per quanto si siano ripetuti nei secoli (e soprattutto dopo Kierkegaard) i tentativi di una filosofia del concreto, dell’esistenza, della storia, dell’esperienza soggettiva, dell’io… la filosofia deve constatare che essa – come tale – è inesorabilmente confinata nell’astratto: l’astratto è la sua sapienza (certamente indispensabile, come abbiamo visto) e il suo limite. Come Maria Adelaide Raschini ha ben notato 16, una ricorrente confusione terminologica e concettuale, di matrice hegeliana, ha connotato modernamente l’astrazione di negatività e la concretezza di positività, senza la necessaria umiltà filosofica di constatare che – necessariamente – una teoria (come la filosofia è) non può essere che teorica, e la concretezza appartiene ad altri àmbiti della vita, e anche ad altri àmbiti del conoscere.

Né vale – lo hanno notato tanti critici 17 – il sotterfugio meramente verbale dei filosofi di stampo pragmatistico o dei marxisti, con la loro pretesa “filosofia della prassi” o “coscienza rivoluzionaria”; anche in essi, peraltro, vive l’illusione hegeliana di superare, con il pensiero, la differenza ontologica tra concreto esistenziale e percezione intellettuale delle essenze.

Ora, se il concreto esistenziale e storico non è propriamente oggetto di una teoria scientifica, è invece oggetto di conoscenza umana valida e significativa: è oggetto, innanzi tutto, del senso comune; è oggetto, inoltre, di tutte le conoscenze esistenziali espresse logicamente dai giudizi di esistenza, la cui logica semantica è stata studiata da molti autori contemporanei, e in filosofia è stata valorizzata (proprio come coscienza del limite) da Etienne Gilson 18.

3) «Primum vivere, deinde philosophari [= Prima bisogna vivere; poi si può eventualmente fare filosofia]»: il detto – usato a sproposito tanto spesso per giustificare un’ideologia pragmatistica – ha la sua verità se inteso nel senso che la filosofia ha dei presupposti; la riflessione filosofica presuppone la vita, e con essa l’esperienza in tutta la sua ampiezza (sensibile, intellettuale, interiore, esterna, soggettiva, comune, storica, culturale, naturale, mistica…). Il senso comune è il mondo dell’esperienza universale e necessaria, sotteso a ogni tentativo di interpretazione e di costruzione ipotetica: è il vivere comune a tutti gli uomini – all’uomo in quanto tale – su cui esercita la sua azione propria il philosophari, proprio di alcuni uomini, di alcuni tempi, di alcuni gradi di sviluppo culturale. Il senso comune è il terreno di ciò che è – di per sé – incontrovertibile; la filosofia è il campo di ciò che è invece discutibile, messo in questione, contestato, riproposto in altri termini e con altri esiti speculativi e pratici.

Di fronte alla filosofia come panorama di infinite e discordi opinioni, c’è stato chi ha preteso, come Descartes, di fondare una filosofia incontrovertibile, dotata del massimo grado possibile di certezza (lo studieremo nel secondo volume); nella stessa linea razionalistica, c’è stato chi ha preteso non solo la massima certezza ma anche l’assenza di presupposti: e questi è Hegel (vedi terzo volume). Descartes e Hegel rappresentano in filosofia ciò che di più lontano ci possa essere da una dottrina del senso comune: perché tale dottrina è un’epistemologia che riduce la filosofia a una ricerca mai definitiva e mai priva di presupposti, perché definitivo – in quanto principio incontrovertibile – è il carattere proprio delle certezze del senso comune; come è loro carattere proprio di essere il presupposto della filosofia e di qualunque scienza, e anche della fede in una rivelazione divina.

Come vedremo nel terzo volume di questo corso di storia della filosofia, vi è stata una forte corrente del pensiero europeo del Novecento che caratterizza la filosofia, contro le pretese di assolutezza proprie dell’idealismo hegeliano e neo-hegeliano, sulla base della “problematicità”; esistenzialismo, filosofia come ermeneutica, filosofia come ricerca, problematicismo… esprimono con motivi e con esiti diversi questa caratterizzazione 19. Tale concezione della filosofia portò il filosofo tedesco Heidegger a rifiutare con decisione la possibilità di prendere in considerazione la nozione, già oggetto di dibattito negli anni Trenta, di una “filosofia cristiana”; per lui tale nozione era contraddittoria, era come parlare di un “legno di ferro”, in quanto il cristianesimo – sosteneva – è dogma, cioè certezza, mentre la filosofia è ricerca, dubbio, ipotesi, problema 20. Heidegger, argomentando così, restava in pieno nella tradizione protestantica di buona parte della filosofia tedesca: sia perché vedeva nella fede cristiana (come aveva visto Kant) soprattutto il carattere di un “ritener per vero” ciò che la filosofia non ritiene per vero o non può affermare, come se la fede fosse una forma di dogmatismo  contrapposto all’agnosticismo  della filosofia; sia anche perché così viene a mancare alla filosofia ogni orizzonte di certezza, sia pur minimo, e ogni ancoraggio possibile a una certezza pre-filosofica o extra-filosofica. Così, allora, si viene anche a perdere quel carattere squisitamente soprannaturale che la fede cristiana ha nella teologia e nella filosofia dei pensatori cattolici, che non identificano mai la “fede” con la “certezza” (perché ci può essere certezza anche al livello della conoscenza naturale), bensì con la “rivelazione dei misteri”, cioè con la comunicazione di verità divine, trascendenti rispetto all’orizzonte della conoscenza umana, sia di senso comune che scientifica, sia attuale che potenziale.

Ora, ci si può domandare se è possibile concepire la filosofia come problematicità assoluta, mantenendo quel carattere di “scienza” che prima le abbiamo attribuito. Ebbene, se prendiamo il termine “problematicità”  nella sua accezione filosofica precisa, è possibile concepire la filosofia come scienza e allo stesso tempo come inesauribile problematicità. Infatti, bisogna intendere per “problema” la riflessione razionale sul dato, la domanda sul senso della realtà, presupponendo naturalmente che il dato sia dato e la realtà appaia come realtà, cioè presupponendo le certezze proprie sul senso comune. Con tale presupposizione, il carattere radicalmente (ma non programmaticamente, a modo degli scettici) problematico della filosofia non equivale a una professione di agnosticismo: come ha giustamente mostrato in Italia Marino Gentile, la problematicità della filosofia non è affatto “problematicismo”, come lo fu per Ugo Spirito 21.

Il problematicismo consiste nell’identificare la problematicità propria della filosofia – che potremmo riportare al termine classico di aporia – con il dubbio, con il «doute universel» di Descartes, con la «epoché» di Husserl; questa identificazione – vero spartiacque tra realismo e idealismo – arriva alle ultime conseguenze critiche con Kant, il quale finisce per ridurre lo spazio del reale a qualcosa di inconoscibile in sé: così, da Kant in poi, o si percorre la strada a ritroso per recuperare tutto il reale del senso comune, oppure si elimina quello che ne resta, con l’opzione dell’idealismo assoluto, come fa Hegel.

Se la problematicità della filosofia viene però intesa come abbiamo detto, non risulta allora che l’atteggiamento problematico del filosofo è un atteggiamento “ludico”, come alcuni dicono, in quanto si finge di dubitare, di ricercare, di mettere tutto in discussione? È il problema – tipicamente moderno, dopo Kierkegaard, Nietzsche e Heidegger – della “sincerità” del filosofo che ammette qualche premessa della filosofia e non assolutizza il momento critico 22. In realtà, la problematicità della filosofia è autentica e sincera proprio perché è totale, e quindi investe anche il domandare stesso e il soggetto che si pone il problema: il che esclude l’errore logico di pretendere un cominciamento assoluto, che sarebbe come ritenersi “il pensiero di Dio”, non il domandare dell’uomo che si trova a esistere nel mondo.

Ripetiamo: è proprio la totalità dell’intento problematico della filosofia ciò che consente di avere consapevolezza (filosofica) di quale esperienza si dà – è già data – all’uomo che si accinge a fare filosofia: «La filosofia, proprio in quanto ricerca del fondamento in senso radicale, non rinuncia a cercare il fondamento della stessa empiria e del logo, instaurando a loro riguardo un’analisi critica che, ovviamente, non potendo effettuarsi essa stessa che utilizzando gli stessi strumenti che essa indaga, dovrà necessariamente assumere la forma di un chiarimento, di una presa di consapevolezza di queste medesime condizioni» 23.

In termini rigorosamente logici, possiamo dire con Sergio Galvan, «una autogaranzia incondizionata del nostro conoscere in generale è esclusa. La stessa possibilità di regresso nella tematizzazione del fondamento è prova che il fondamento epistemico assoluto non si dà. Si dà di fatto un livello di fondazione, ma tale livello, per essere tale, deve essere condizionato. I presupposti da cui esso dipende sono in effetti il segno che può essere superato in vista di un orizzonte fondazionale più arretrato, ma anche quest’ultimo è nuovamente condizionato. La non definitività del fondamento epistemico, l’impossibilità cioè di giungere ad una autogaranzia delle nostre procedure di fondazione, è in conclusione il segno della finitezza della nostra conoscenza. La negazione della possibilità di un fondamento epistemico ultimo non implica però una analoga negazione della possibilità di un fondamento ultimo sul piano aletico» 24. Le “procedure di fondazione” dell’intero, cioè la metafisica, implicano sempre dei presupposti, cioè il senso comune, e quindi è esclusa una metafisica autogarantita, che sia una conoscenza assoluta e incondizionata; allo stesso tempo, è proprio la metafisica ad indicare razionalmente il fondamento reale della conoscenza (sul piano “aletico”, ossia della verità o alétheia), ossia l’essere delle cose, partecipato dal­l’Essere sussistente, che è Dio.

La filosofia è quindi scienza proprio in virtù della coscienza del limite. Proprio per questo non si può accettare il persistente ideale cartesiano e hegeliano di un cominciamento assoluto della filosofia, di una filosofia che cominci con sé stessa, considerando poi sua essenza la critica (o dubbio metodico universale, o epoché). Uno studioso di Lovanio scriveva nel 1911: «La spogliazione del pensiero fino ad arrivare alla nuda potenza che non sa alcunché di alcuna cosa, è impossibile: non si può realizzare nemmeno per un istante. […] Ogni tentativo di dubbio universale è un atto nato morto, abortito in embrione: è un nulla di realtà e di possibilità. La domanda pregiudiziale è dunque una domanda oziosa, che si risolve nel momento stesso in cui la si pone» 25. «Infatti – aveva già detto prima l’autore –, ogni formulazione del progetto critico assoluto implica dei presupposti, e questi a loro volta altri presupposti, e così all’infinito; per esempio, chi mette in dubbio con la riflessione filosofica le certezze previe alla filosofia, si deve riferire necessariamente a un ideale assoluto e incontestabile di certezza, a una certa nozione di certezza già acquisita e tenuta per sicura, a un principio rigoroso che presiederà a tutta la successiva ricerca del punto di partenza…» 26.

I pensatori più avvertiti non trovano contraddittorio che la filosofia abbia (e riconosca di avere) dei presupposti, essendo questi presupposti l’esperienza stessa già formalizzata dai giudizi veritativi del senso comune. Così, ad esempio, si esprime Nunzio Incardona: «Se il discorso filosofico ha autonomia di fondazione, è quell’unica autonomia che è e nasce dall’accettare di nascere dall’esperienza delle cose, e il discorso è critico perché è consapevole dei rapporti fra la fondazione della filosofia e tutto ciò che può avere rapporto alla filosofia» 27. Avendo usato il termine “critica” per indicare anzitutto la “consapevolezza” (prima ancora che la problematizzazione), Incardona può aggiungere più avanti, sempre in rapporto all’esperienza fondante: «Si parte dalle cose e si può fare un discorso autonomamente razionale; solo il partire dalle cose può costituire in discorso razionale la filosofia, senza che questa voglia dire ridursi alle cose» 28.

La pretesa, dunque, che la filosofia sia autonoma nella sua fondazione è legittima: purché ciò non comporti di disconoscere i necessari presupposti del filosofare; essi, infatti, non impediscono alla filosofia di autofondarsi come filosofia, perché la consapevolezza di tali presupposti è atto filosofico. Ciò che i presupposti – riconosciuti e giustificati razionalmente come tali – impediscono veramente, è che la filosofia pretenda di creare il proprio oggetto, hegelianamente, postulando sé stessa come “coscienza assoluta dell’Assoluto”; ma la storia della filosofia, e la critica filosofica della storia della filosofia, mostrano a sufficienza la contraddittorietà di quella pretesa, come risulterà anche dal nostro corso di studi (vedi soprattutto i volumi II e III).



6. Filosofia e prassi.


Più sopra abbiamo già detto, citando Aristotele, che il valore della filosofia è “teoretico”, non “pratico”. Nel VI sec. d.Cr., un grande filosofo dell’antichità romano-cristiana, Severino Boezio, nel De consolatione philosophiae descriveva la filosofia come una figura femminile rivestita di una tunica decorata da due lettere dell’alfabeto greco: in alto, la lettera “th” (theta), iniziale di “theoresis” (scienza pura), e in basso la lettera “p” (pi), iniziale di “praxis”. Il filosofo intendeva così ribadire la convinzione più profonda di tutta la cultura classica, e cioè che ogni tipo di azione (morale, politica, tecnica e artistica) dipende dai valori e dai fini che provengono dallo studio della verità in sé.

Anche oggi, almeno nella terminologia delle scienze particolari, si riconosce unanimamente la dipendenza della prassi dalla teoria: così, ad esempio, le discipline mediche sono viste come applicazioni tecnico-terapeutiche di altre discipline del tutto teoriche, come la fisica, la chimica, la biologia, l’anatomia, la fisiologia ecc. Anche nel campo dell’ingegneria si ammette pacificamente che le discipline tecniche dipendono dalle scienze “pure”, come la matematica, la fisica (nucleare, termodinamica, meccanica, elettronica) ecc.

La scienza generale dell’essere, di conseguenza, non può essere considerata “astratta” e “inutile”: è proprio quella base di conoscenza scientifica “pura” che dirige ogni possibile scelta “applicativa” o “pratica”. E si badi: la filosofia non si limita a orientare le scelte – indicando quelle che sono razionali, cioè adeguate al fine che l’uomo riconosce di avere nella sua vita – ma molte volte addirittura determina l’azione, la provoca e la sollecita, creando dei problemi che, senza di essa, l’intelligenza pratica non si troverebbe mai ad affrontare. Esempio tipico è il dominio delle passioni, richiesto da una concezione del bene e della felicità  come quella degli Stoici, che vedono nell’impegno per ottenere dei beni transitori o nel timore di mali futuri l’origine dell’infelicità; esempio opposto è lo sforzo di analizzare le motivazioni profonde del proprio agire, come è richiesto dalla filosofia di Freud.

Sta di fatto, comunque, che fin dall’antichità gli scienziati “puri” (astronomi, naturalisti, matematici, filosofi) venivano talvolta considerati dalla gente “pratica” (oggi diremmo piuttosto dalla gente malata di attivismo o di pragmatismo) degli inutili fannulloni, dei sognatori: è celebre il “riso della donna di Tracia” (la popolana che ride vedendo il grande Talete che, mentre cammina e contempla il cielo, cade in una fossa); anche Aristofane, nella sua commedia Le nuvole, sbeffeggia Socrate e lo raffigura sospeso per aria, in una cesta appesa al soffitto; i Romani, poi, più pragmatici dei Greci, ripetevano volentieri i versi del loro poesta Ennio (239 –169 av.Cr.), il quale diceva dei filosofi  che «quod est ante pedes nemo spectat, caeli scrutantur plagas [ = nessuno di loro si accorge di quello che hanno sotto i piedi, tutti intenti come sono a contemplare i cieli]». Ciò nonostante, sia in Grecia che a Roma i filosofi vennero onorati e ascoltati, come si vede dalle vicende di Platone (consigliere del tiranno di Siracusa, Dioniso), di Aristotele (che fu precettore del grande condottiero Alessandro il Macedone), di Epitteto e di tanti altri; un uomo politico romano come Ciceroen fu un importante  filosofo, e anche alcuni imperatori romani, come Marco Aurelio, stimarono tanto la filosofia da praticarla essi stessi personalmente.

Detto questo, resta da chiarire che il rapporto corretto tra teoria e prassi, nel caso della filosofia, non può essere una subordinazione strumentale della teoria alla prassi, come può legittimamente succedere nell’àmbito delle scienze particolari. Se, ad esempio, una società è consapevole del “gap tecnologico” che allontana la cultura e l’economia nazionale da quella di altri Paesi più avanzati, può legittimamente impegnarsi a far progredire la ricerca “pura” e le scienze teoriche ai fini di uno sviluppo delle conoscenze applicabili alla tecnica; in questo caso, la prassi assurge alla dignità di fine, e la teoria è un mezzo.

Ma se si tratta della filosofia – che è la sapienza suprema della vita, almeno nell’ordine naturale, prescindendo cioè da una rivelazione soprannaturale – non c’è prassi che possa ragionevolmente utilizzarla come strumento, come mezzo; la filosofia è fine a sé stessa perché non c’è un sapere razionale superiore che possa determinare dei fini e dei valori, per i quali è opportuno usare alcuni mezzi o strumenti. La filosofia, in altri termini, non può essere “strumentalizzata”, perché in tal caso non avrebbe più alcun senso e alcun valore: infatti, chi può determinare, al di fuori della filosofia, quale siano i fini da ricercare e i mezzi idonei per raggiungerli? Qualunque scelta di fini extra-filosofica è per definizione arbitraria, irrazionale, ingiustificata e ingiustificabile (perché la filosofia sta tutta lì, nel giustificare appunto i fini dell’azione umana, alla luce della verità razionale sul­l’uomo e sul mondo e su Dio).

Certo, molti hanno voluto strumentalizzare la filosofia, subordinare la teoria alla prassi anche in campo filosofico: ma ciò che ne è nato non è più filosofia in senso rigoroso, bensì “ideologia”, cioè un pensiero asservito a finalità pratiche predeterminate e volute per motivi extra-razionali: il marxismo, nell’epoca moderna è un esempio clamoroso di pseudo-filosofia, cioè di quella ideologia che nasce dalla finalità politica (ottenere il potere con la rivoluzione, come altre ideologie mirano a conservare il potere già conquistato), invece di essere, come è compito della filosofia, ispiratrice del­l’etica politica e forgiatrice della coscienza morale della società.

Giustamente un filosofo italiano, appena conclusa l’esperienza totalitaria del fascismo, scriveva queste celebri parole «Quando la filosofia si fa istituzionale e quindi si mette al servizio del vivere, lungi dall’attuare il suo compito di correttrice della pratica molto spesso eleva gli errori della pratica a teoria: assolutizza non solo la pratica denaturandola con l’elevarla a teoria, ma spesso anche gli errori della pratica… Quindi è imprescindibile la necessità che i filosofi non siano istituzionali» 29.


7. I problemi della filosofia.


Di che cosa si occupa in concreto la filosofia? Ci sono dei “temi” che possono dirsi specifici, caratteristici di questa “scienza della totalità” o “dell’intero”? La storia della filosofia, come vedremo, mostra l’esistenza di temi specifici della filosofia, cioè di certe specifiche domande che caratterizzano la ricerca filosofica di tutti i tempi, malgrado la grande diversità di situazioni sociali e la diversissima personalità dei vari filosofi. Le domande, insomma, sono sempre le stesse, dall’inizio della storia della filosofia al giorno d’oggi: sono le risposte che, di volta in volta, possono diversificare le correnti filosofiche e i singoli sistemi di pensiero attribuibili a un autore in particolare. Ma, essendo la filosofia – come abbiamo notato prima – essenzialmente “problematica”, portata cioè a non accontentarsi mai di una risposta, per quanto parzialmente e provvisoriamente soddisfacente, ne deriva che i problemi – che sono sempre gli stessi – rendono simili (omogenei, si direbbe) tutti i sistemi filosofici, malgrado l’inesauribile varietà delle soluzioni proposte da ciascuno; le quali soluzioni, peraltro, coincidono sempre in qualche elemento fondamentale di sapienza universalmente accettabile: almeno in quello che affermano, se non in quello che negano.

Quali sono dunque i problemi della filosofia? Coincidono sostanzialmente con le nozioni primarie del senso comune, che possono ridursi a tre: il mondo o universo , l’interiorità soggettiva o anima  e la causa prima universale o Dio; i problemi propri ed esclusivi della filosofia, infatti, si riducono essenzialmente al problema cosmologico (quali sono gli elementi costitutivi della totalità dell’esperienza? qual è il “principio” di tutto?), a quello antropologico (chi è l’uomo? che rapporto ha l’anima con il corpo? davvero siamo liberi e responsabili delle nostre azioni? qual è il fine della vita?) e quello teologico (chi sia Dio, quale rapporto abbia con il mondo e con l’anima, come lo si possa conoscere e come si possa arrivare a Lui). Le certezze del senso comune non vengono negate, come certezze, dalla filosofia, ma vengono problematizzate: proprio perché la ragione non si accontenta di “sapere” semplicemente, senza “capire”, ma esige appunto una “ragione” che appaghi l’intelligenza e consenta la comunicazione, il dialogo con gli altri uomini, anch’essi desiderosi di razionalità e di lucida comprensione.


Note:


1. Si vedano AA.VV., Il nichilismo, da Heidegger al pensiero debole, a cura di Antonio Livi (“Cultura & Libri”, n. 48-49), Ediun, Roma 1989; AA.VV., Metafisica, oggi, Morcelliana, Brescia 1983; AA.VV., La metafisica e il problema del suo superamento, Gregoriana, Padova 1985; AA.VV., Dopo Heidegger: una metafisica post-critica (“Cultura & Libri”, n. 14), Ediun, Roma 1987; AA.VV., Lo statuto epistemologico della filosofia, Morcelliana, Brescia 1989; Enrico Berti, Introduzione alla metafisica, Utet, Torino 1994.

2. Pietro Prini, La crisi didentità della filosofia, in AA.VV., Lo statuto epistemologico della filosofia, cit., pp. 8-9.

3. Giovanni Reale, La filosofia come scienza dell’intero, in “Studi cattolici”, 1981, p. 236.

4. Sul carattere onnicomprensivo (non riduttivo) dell’esperienza, si veda Pietro Faggiot­to, Saggio sulla struttura della metafisica, II ed., Cedam, Padova 1969; Idem, Per una metafisica dell’esperienza integrale (Ricerche e discussioni), Maggioli, Rimini 1982.

5. Giovanni Reale, art. cit., p. 237.

6. Ibidem. È interessante a questo proposito consultare il saggio di Marcello Zanatta, Genesi e struttura dell’idea occidentale di intero nel pensiero classico, Japadre, L’Aquila 1989.

7. Lo scopo del filosofare, infatti, non è scientifico-tecnico, non mira a un utile pratico, ossia al produrre qualche cosa, al theorein, ossia il contemplare. La metafisica, fin dalle origini, è consapevole di questa sua caratteristica, come risulta da un passo di Aristotele, che così suona: «Che, poi, essa non tenda a realizzare qualcosa, risulta chiaramente anche dalle affermazioni di coloro che per primi hanno coltivato filosofia. Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, proseguendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio o di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo; il mito, infatti, è costituito da un’insieme di cose che destano meraviglia. Cosicché, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dell’ignoranza, è evidente che ricercarono il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica. E il modo stesso in cui si sono svolti i fatti lo dimostra: quando già c’era pressoché tutto ciò che necessitava alla vita e anche all’agiatezza e al benessere, allora si cominciò a cercare questa forma di conoscenza. È evidente, dunque, che noi non la cerchiamo per nessun vantaggio che sia estraneo ad essa; e, anzi, è evidente che, diciamo uomo libero colui che è fine a sé stesso e non asservito ad altri, così questa sola, tra tutte le altre scienze, diciamo libera: essa sola, infatti, è fine a se stessa» (Metafisica, I, 2).

8. Pietro Prini, art. cit., p. 9.

9. Cfr Gabriel Marcel, Homo viator, Parigi 1945; si veda in proposito Pietro Prini, Gabriel Marcel o la metodologia dell’inverificabile, Studium, Roma 1961.

10. Si veda Étienne Gilson, Dio e la filosofia, trad. it., Massimo, Milano 1984.

11. Alberto Di Giovanni, Filosofia come scienza e come sapienza, in Filosofia e religione, Morcelliana, Brescia 1971, pp. 260-261.

12. Alberto Di Giovanni, ibidem.

13. Jacques Maritain, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, trad. it., Ed. Massimo, Milano 1985, pp. 58-59.

14. Cfr Jean Guitton, L’absurd et le mystère, Cerf, Parigi 1985; cfr, per i precedenti: Réginald Garrigou-Lagrange, Le sens du mystère et le clair-obscur intellectuel (Nature et surnaturel), Beauchesne, Parigi 1934; Josef Pieper, La filosofia e il senso del mistero, trad. it., in “Studi Cattolici”, 1980, pp. 299-301; cfr anche, tra gli autori itgaliani, Guido Sommavilla, Il pensiero non è un labirinto (Dialettica e mistero), Jaca Book, Milano 1980.

15. Jacques Maritain, Introduzione alla filosofia, trad. it., Ed. Massimo, Milano 1988.

16. Maria Adelaide Raschini, Concretezza e astrazione, Studio editoriale di cultura, Genova 1980.

17. Si vedano, tra gli altri: Ubaldo Pellegrino, Sapienza, scienza e tecnocrazia, in AA.VV., I compiti della ragione nella società tecnologica (“Per la filosofia”, n. 16), Massimo, Milano 1989, pp. 40-61.

18. Si vedano: Antonio Livi, Étienne Gilson: filosofia cristiana e idea del limite critico, Ed. Univ. di Navarra, Pamplona 1970; Roberto Diodato, Tra “esse” e deissi (Nota per una conferma linguistica dellontologia gilsoniana), in “Rivista di filosofia neo-scolastica”, 1986, pp. 3-33. Tra gli autori studiati da Diodato vanno menzionati Russell, Peirce, Frege, Ayer, Eco, Benveniste, Jakobson e Derrida; ci sono inoltre interessanti riferimenti a Husserl e a Heidegger. Alcuni filosofi contemporanei, come Emmanuel Lévinas, hanno elaborato una teoria antropologico-etica che presuppone proprio l’impossibilità di fare scienza circa il concreto esistenziale (io, gli altri, Dio), pur potendo e dovendo agire con la consapevolezza che tale concreto esistenziale fa appello alla responsabilità personale: «Siamo chiamati – dice Lévinas – ad amare l’altro senza comprenderlo, prima di comprenderlo, senza alcuna necessità di comprenderlo» (cfr Laura Ghidini, Dialogo con Emmanuel Lévinas, Morcelliana, Brescia 1988, p.20).

19. Si veda Enrico Berti, Le vie della ragione, Il Mulino, Bologna 1986.

 20. Cfr Martin Heidegger, Einführung in die Metaphysik, Max Niemeyer, Tubinga 1953, p. 6.

21. Cfr Marino Gentile, Come si pone il problema metafisico, Liviana, Padova 1955.

22. Si veda in proposito: Antonio Livi, Sincerità filosofica del cristiano, in “Studi cattolici”, 1969, pp. 595-602.

23. Evandro Agazzi, Lo statuto epistemologico della filosofia, in AA.VV., Lo statuto…, cit., p. 19.

24. Sergio Galvan, Forme di giustificazione e di spiegazione, in AA.VV., I compiti della ragione…, cit., p. 13.

25. Dominique de Rousseaux, Le néo-dogmatisme, in “Revue néo-scolastique de Louvain”, 1911, p.557.

26. Dominique de Rousseaux, art. cit., p. 555.

27. Nunzio Incardona, Lassunzione come critica della filosofia (Introduzione alla metafisica del principio), Andò, Palermo 1964, p. 117.

28. Nunzio Incardona, op. cit., p. 118

29. Pantaleo Carabellese, L’attività spirituale umana (Prime linee di una logica dell’essere), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1991, p. 113.



1 A questo proposito mi scriveva qualche anno fa Carlos CARDONA: “Mi fa un grande piacere che queste ‘estremità’ metafisiche arrivino alla gente comune. In questi anni mi sto esercitando abbastanza a svolgere questo compito che chiamerei di distillazione e scomplicazione formale, piuttosto che di divulgazione. La metafisica è cosa di tutti. In parte, ne va della vita eterna”.