Libro III – Cap. 16 La rivoluzione moderata (I)

Prof. A. Torresani. 16. 1  Il programma politico di Luigi Filippo, re dei Francesi – 16. 2  L’indipendenza del Belgio – 16. 3  Il decennio delle riforme britanniche (1822-1832) – 16. 4  Il dibattito sul Risorgimento in Italia

 La rivoluzione di Luglio fu pilotata dalle forze moderate, ossia dalla borghesia insofferente di ogni tutela aristocratica e clericale sulla società francese.  Appare evidente che la borghe­sia non poteva accettare che la rivoluzione avesse risvolti sociali, tali da mettere in discussione il diritto di proprietà. Luigi Filippo d’Orléans sembrava l’uomo adatto a gui­dare una Francia desiderosa soprattutto d’arricchirsi, di sgombe­rare ogni traccia dell’antico regime, di godere liberamente ciò che era stato acquisito.
      Il Belgio francofono e cattolico, avendo ferro e carbone, era entrato in una fase di piena industrializzazione: mal soppor­tando la subordinazione agli interessi agricoli e commerciali dell’Olanda, colse subito il vento nuovo e proclamò la propria indipendenza. Il Belgio si pose al riparo del nuovo corso della politica estera francese, secondo il principio del non in­tervento, da parte di un’altra Potenza, entro i confini di uno Stato che avesse mo­dificato la propria struttura interna. L’indipendenza del Belgio significò che l’Austria, per­deva la funzione di gendarme d’Europa, anche se la successiva re­pressione dei moti italiani e  della rivolta di Varsavia, rivelava la permanenza del criterio di equilibrio di potenza utile a tutti gli Stati europei.
      I cambiamenti più importanti avvennero in Gran Bretagna  tra il 1822 e il 1832 – il decennio delle riforme -, che aveva visto il disarmo della polizia; la legalizzazione delle Trade Unions, i sindacati operai; l’abolizione del Test Act che discriminava i cattolici; e, infine, la ridefinizione dei collegi elettorali a favore delle nuove città industriali.  Tali riforme, avve­nute in un contesto di contese politiche basate su manifestazioni popolari e sul gioco della stampa libera, non possono esser clas­sificate come rivoluzione, ma sul continente acquistarono un va­lore esemplare e dettero una spinta non secondaria alle rivolu­zioni del 1848.
      Il risorgimento italiano fu preparato sul piano culturale da numerose pubblicazioni destinate ad avviare il dibattito sul fu­turo d’Italia, ma furono gli avvenimenti francesi a far precipitare la situazione. Il timore di una rivoluzione sociale che mettesse in discussione l’assetto della proprietà, spinse la borghesia a giocare d’anticipo, ossia a fare una rivolu­zione politica perché altri non facessero una rivoluzione socia­le: questa sembra sia stata l’intuizione principale  del Cavour e dei moderati.
 
 16. 1 Il programma politico di Luigi Filippo, re dei Francesi
       La vittoria conseguita dalla bor­ghesia moderata francese, rivela più l’ottusità di Carlo X e dei suoi consiglieri che la sagacia del nuovo sovrano. Il re, al suo  attivo aveva la fama di moderato e la pronta accettazione delle condizioni per ammetterlo al trono. Luigi Filippo sarebbe stato re dei Francesi in forza di un mandato della nazione e non per diritto divino. In secondo luogo accettava come simbolo della nazione il tricolore blu, bianco, rosso.
 La Guardia Nazionale Seguirono alcune importanti leggi che de­linearono l’orientamento del nuovo governo. Infatti, fu isti­tuita la Guardia Nazionale, composta da cittadini attivi, diretta da ufficiali designati mediante elezione, a disposizione delle autorità civili per difendere la mo­narchia, la carta costituzionale e l’ordine pubblico.
 La legge comunale In secondo luogo fu votata una legge che sta­biliva le modalità dell’amministrazione dei comuni. Il diritto elettorale era molto ristretto: erano elettori, infatti, solo i funzionari civili, i liberi professionisti e i maggiori proprie­tari terrieri.
 La grande borghesia al potere  La borghesia francese, che dete­neva il potere economico e dominava la cultura, ebbe anche il potere politico, ma lo esercitò di­mostrando la stessa ristrettezza di vedute del sovrano, che da una parte diceva ai Francesi di arricchirsi, ma dall’altra non accettava le regole del mercato libero. In Francia, infatti, non furono ab­battute la barriere che difendevano l’industria locale. 
 La monarchia di luglio ha basi ristrette Il regime di Luigi Fi­lippo poggiava dunque su basi di consenso troppo ristrette: non aveva dalla sua parte né le venerande tradizioni della monarchia, né il consenso popolare, né l’aura delle vittorie di Napoleone, bensì solo il consenso di circa 200.000 elettori su una popolazione di 35 milioni di persone. 
 Complotti legittimisti I legittimisti ben presto organizzarono complotti, eseguiti con disarmante ingenuità. La du­chessa di Berry doveva sbarcare su un punto della costa per far sollevare i sostenitori della monarchia legittima che poi si sa­rebbero diretti con una marcia travolgente alla volta di Parigi. Lo sbarco avvenne davvero nei pressi di Marsiglia nel 1832 e la duchessa di Berry riuscì ad arrivare fino in Vandea, ma la sollevazione fallì e la duchessa dovette rifugiarsi a Nantes finché la polizia riuscì ad arrestarla. 
 Complotti bonapartisti I bonapartisti potevano creare notevoli fastidi, ma nel 1832 era morto a Schönbrunn il figlio di Napoleo­ne, il re di Roma, e il nuovo capo della famiglia Bonaparte si era bruciato con due prematuri tentativi di sollevazione, a Stra­sburgo (1836) e a Boulogne (1840): a seguito del secondo tentati­vo Luigi Napoleone finì in carcere.
 Complotti repubblicani C’erano anche numerosi repubblicani in Francia che si sentivano defraudati della vittoria nel corso del­la rivoluzione del luglio 1830, riuniti in una società denominata Amici del popolo. Essi erano presenti soprattutto nella stampa di Parigi e nei circoli studenteschi. Il partito repubblicano radunava uomini di cultura come il poeta Alphonse de Lamartine che esaltava i giovani col suo romanticismo acceso; come lo storico della rivoluzione Jules Michelet che trasformava in epopea i fatti del 1789.
 Opposizione dei cattolici Anche i cattolici si trovavano all’op­posizione. Dopo la rivoluzione del 1830 il governo aveva adotta­to una linea anticlericale che, costando poco, sembrava attirare consensi al nuovo regime. Ben presto si fece luce il Lamennais che dirigeva un giornale “L’Avenir”, schierato su posizioni libe­rali, ostili allo statalismo di Luigi Filippo. Il Lamennais pro­veniva da posizioni di estrema destra che avevano trionfato nel decennio precedente, ma ora guidava un movimento che cercava di rendere compatibile il cattolicesimo col liberalismo. Nel 1832 il papa Gregorio XVI condannò il cattolicesimo liberale, in primo luogo a causa delle premesse materialistiche del liberalismo, e poi perché il liberalismo appariva erede della rivoluzione francese che aveva  sferrato il più deciso at­tacco contro l’esistenza della Chiesa. Verso il 1840 in Francia si formò un vero e pro­prio partito cattolico, guidato da Charles de Mon­talembert che tolse molti consensi al governo di Luigi Filippo.
 Il governo Laffitte Il primo governo fu formato da Jacques Laffitte, un banchiere assetato di popolarità, che permise o al­meno non seppe bloccare una serie di tumulti giunti al limite della guerra civile.  
 Il governo Périer Questo governo cadde nel marzo 1831, seguito dal governo dell’energico Casimir Périer. Questi sostenne un indirizzo politico fondato sull’ordine interno e sulla pace con onore nei rapporti con gli Stati esteri. Périer, tuttavia, morì nel maggio 1832 dopo poco più di un anno di governo. Il Périer era riuscito a collegare le forze filogovernative nel cosiddetto partito della resistenza che si proponeva di stroncare le opposizioni, favorendo il progresso economico della Francia. Con la morte di Périer, il partito della resistenza si divise in un centro-sinistra guidato da Adolph Thiers, che si ispirava a un modello parlamentare di tipo inglese; e in un centro-destra guidato da René Guizot, che appariva fedele alla monarchia eredi­tata dalla restaurazione.
 Crisi del 1840 Fino al 1840 si ebbero una decina di ministeri, tutti in contrasto più o meno fortunato col re. In quell’anno cadde il ministero presieduto dal Thiers a causa della crisi politica de­terminata dall’attacco dell’Egitto contro l’Impero turco per con­quistare la Siria, dietro promessa di aiuti francesi. La Gran Bretagna si mostrò irriducibile, e l’esercito egiziano dovette tornare indietro. 
 Il ministero Guizot Il Thiers fu sostituito dal più prudente Guizot fino al 1847. I motivi di questa lunga durata del ministero si devono alla forte personalità del Guizot, da tutti giudicato onesto; al suo rigido conservatorismo che andava a genio al re; al dissolversi dei partiti i cui lea­der erano tacitati ricorrendo alla corruzione.
 La campagna dei banchetti Furono anni di crescita della ricchezza.  In pratica nel paese non esisteva più un’opposizione in grado di proporre un progetto al­ternativo a quello del governo; nei dibattiti parlamentari, la splendida  oratoria del Guizot aveva la meglio sugli av­versari che perciò decisero di ricorrere a un mezzo che aveva da­to buoni risultati in Gran Bretagna, i banchetti. Una legge vietava le riunioni di carattere chiaramente politico, ma l’opposizione ritenne che nessun governo potesse vietare un ban­chetto. Se poi si facevano discorsi e si proponevano brindisi non graditi al go­verno, il fatto non doveva interessare la polizia. Nel 1847 fu lanciata una vera e propria campagna di banchetti nel corso dei quali l’oratore più acclamato fu il Lamartine che stava scri­vendo una “Storia dei Girondini” in chiave scopertamente politi­ca. I repubblicani all’inizio non erano in maggioranza nel comi­tato dei banchetti, ma col passare del tempo diven­nero il gruppo politico più influente. Al successo della campa­gna contribuì in modo determinante la crisi agricola che nel 1846 rovinò i raccolti autunnali: i prezzi rincararono; l’indu­stria dovette licenziare gli operai; alcune opere pubbliche come le costruzioni ferroviarie furono rimandate.
 Crisi politica L’opposizione al governo si manifestò anche nella Camera:  una parte dei conservatori votò contro il discorso della corona nel gennaio 1848. Il re rifiutò ogni tentativo del Guizot di modificare l’indirizzo poli­tico del governo che ormai appariva reazionario.  L’opposizione volle intimidire il re riaprendo la campagna dei banchetti. Il re rispose con un decreto che vietava anche i banchetti, ma que­sta volta Parigi replicò con le barricate che in tre giorni, ver­so la fine di febbraio, costrinsero il re alla fuga, mentre in Francia era proclamata la Seconda repubblica.
 
 16. 2  L’indipendenza del Belgio
      La storia del Belgio è complessa. Come si ricorderà, il congresso di Vienna, nel 1815, decise la riunione delle province dei Paesi Bassi sotto la monarchia calvinista e olandese degli Orange.
 Precaria unione tra Belgio e Olanda  L’unione politica con l’O­landa, per motivi sia economici sia etnici e religiosi, fu precaria finché nell’agosto 1830, subito dopo la rivo­luzione di luglio in Francia, vista l’esitazione della Santa Al­leanza all’intervento militare e la fer­ma opposizione della Gran Bretagna alla presenza di una grande potenza in Belgio, i patrioti giocarono la carta dell’indipendenza.
 Il Belgio durante l’occupazione francese Il regime francese era stato molto odiato perché aveva operato con la nota rapacità nei confronti delle opere d’arte e dei tesori presenti nel paese, ma aveva anche introdotto in Belgio sistemi amministrativi effi­cienti. Il regime feudale era stato abolito, i privilegi nobiliari erano stati soppressi e così le corporazioni di arti e mestieri. La politica religiosa del Direttorio offese la coscienza dei Belgi che erano cattolici, ma li of­fese ancora di più la coscrizione obbligatoria nell’esercito e la prospettiva di esser mandati a combattere lontano dalla patria.
 Napoleone e il Belgio Con Napoleone la questione belga andò meglio, soprattutto dopo la firma del Concorda­to col papa Pio VII che permise di riaprire le chiese cattoliche, ma a partire dal 1809 la politica religiosa dell’imperatore divenne sempre più aspra e i Belgi passarono all’opposizione. I soldati belgi disertavano in massa e i co­scritti si davano alla macchia, aumentando il disordine nel paese.
 Sviluppo industriale del Belgio  L’attività industriale era fa­vorita dall’abbondanza di manodopera e soprattutto dalla possibilità di esportare nell’impero francese i manufatti belgi al riparo dalla concorrenza britannica. Gand divenne un fiorente mercato dei tessuti di coto­ne; Liegi un importante polo di sviluppo dell’industria meccanica; Anversa, dopo la riapertura alla navigazione della Schelda, poté ingrandire il porto e sviluppare l’atti­vità cantieristica. La prosperità belga, tuttavia, non durò a lungo: nel 1810 ci fu una grave crisi economica dovuta a un ec­cesso di produzione rimasta invenduta; nel 1812 la distruzione della grande armata in Russia faceva prevedere il crollo dell’im­pero francese. Nel dicembre 1813 le truppe alleate occuparono il Belgio e vi rimasero fino al 1814. 
 L’unione tra Belgio e Olanda I Belgi, in maggioranza cattolici e conservatori, avrebbero gradito il ritorno del sovrano austriaco, ma all’imperatore Francesco I, quel territorio isolato, confinan­te con la Francia, non interessava. I liberali progressisti, invece, ritenevano più opportuna l’unione con l’Olanda che posse­deva le istituzioni più avanzate e le cui colonie sembravano in grado di assorbire la produzione belga. Questa soluzione, gradi­ta a Guglielmo V d’Orange e alla Gran Bretagna, alla fine fu ac­cettata dagli alleati. Quando Napoleone fuggì dall’isola d’Elba e riattizzò la guerra europea, Guglielmo d’Orange assunse il ti­tolo di re dei Paesi Bassi e partecipò alla battaglia di Waterloo al comando di un piccolo esercito.
 Difficoltà dell’unione Il compito di unire Belgio e Olanda si rivelò difficile. Tra Belgi e Olandesi il tempo aveva scavato abissi di incomprensione: gli Olandesi, mercanti ricchi e calvinisti, disprezzavano gli arretrati e cattolici bel­gi. Per di più, l’unificazione avveniva con  notevole danno del Belgio, perché l’Olanda aveva un enorme debito pubblico al cui paragone quello belga appariva insignificante, e perciò i Belgi dovevano pagare i debiti olandesi. I Belgi ottennero l’adozione di un Parlamento con due rami, di cui uno, il senato, era di no­mina regia; a loro volta, gli Olandesi, che erano due milioni contro tre milioni di Belgi, ottennero alla camera 55 deputati per ciascuno Stato, ossia il voto olandese valeva una volta e mezzo il voto belga. Fu stabilita la libertà religiosa, la scuola di Stato e la libertà di stampa, provvedimenti che ai cattolici non andavano bene, perché il re Guglielmo I, protestante, avrebbe avuto il diritto di nomina dei vescovi cattolici anche nel Belgio. Come si vede, i contrasti tra le due parti dei Paesi Bassi erano numerosi e di difficile soluzione. Infine esisteva il problema linguistico. Come è noto, in Belgio ci sono valloni di lingua francese e fiamminghi che parlano una lingua simile all’olandese. Guglielmo I sotto la spinta del ritorno romantico alle origini della propria cultura, concepì il progetto di imporre l’uso della lingua olandese alle due parti del suo regno, un fatto che scontentava sia i valloni sia i fiamminghi belgi perché entrambi i gruppi etnici avrebbero dovuto esprimersi in una lingua estranea.
 Contrasti di politica economica Infine esistevano i problemi legati allo sviluppo economico. Il Belgio industrializzato esigeva una politica economica di protezionismo dell’industria nazionale, mentre l’Olanda preferiva l’accettazione delle regole del mercato libero per collocare meglio i prodotti agricoli.
 La rivoluzione in Belgio Nel 1830 il nazionalismo belga dette una spinta decisiva alla proclamazione dell’indipendenza, riconoscendo il fatto che le due componenti dei Paesi Bassi si sentivano estranee l’una all’altra. In agosto scoppiò una rivolta a Bruxelles, seguita da disordini in tutto il paese. Il 26 settembre fu costituito un governo provvisorio che a ottobre preparò uno schema d’indipendenza. Guglielmo I sperava in un intervento della Santa Alleanza a suo favore, perché il regno dei Paesi Bassi era stato pensato come una barriera protettiva contro la Francia e ora la barriera si era indebolita con la formazione di due piccoli Stati. Prussia, Russia e Austria stavano concertando un’azione in comune, ma furono precedute dalla ferma presa di posizione di Francia e Gran Bretagna che proclamarono il principio del non intervento, proponendo una conferenza per decidere il futuro del Belgio. Lord Palmerston, ministro degli esteri britannico fu irremovibile: nel novembre 1831 fu siglato un trattato che riconosceva l’indipendenza del Belgio.
 
 16. 3 Il decennio delle riforme britanniche (1822-1832) 
      Questo paragrafo è incluso nel capitolo dedicato alla rivoluzione moderata, perché la Gran Bretagna, unico tra gli Stati europei, poté conseguire mediante i suoi istituti politici l’importante risultato di non passare attraverso la guerra civile per rimettere alla pari l’azione di governo con le nuove situazioni sociali ed economiche.
 Crisi dopo l’epoca napoleonica Per la durata delle guerre napoleoniche l’economia britannica aveva continuato a espandersi, nonostante il blocco continentale, perché la Gran Bretagna poteva esportare le sue merci verso l’America e verso l’India. Dopo il 1815 non avvenne subito la ripresa del commercio con l’Europa perché essa era impoverita e intenta a curare le sue ferite. Ci furono perciò in Gran Bretagna alcuni anni di recessione economica, disoccupazione e vasti movimenti di protesta: si trattava di grandi raduni con migliaia di manifestanti per ascoltare gli oratori ufficiali e poi sciogliersi pacificamente.
 Massacro di Peterloo A uno di questi raduni avvenuto in un sobborgo di Manchester, a Peterloo nell’agosto 1819, presero parte non meno di 60.000 persone per chiedere la riforma del Parlamento. Nessuno era armato e l’atteggiamento era pacifico, ma le autorità erano nervose e procedettero all’arresto degli oratori facendo intervenire anche gli ussari che attaccarono la folla inerme. Dopo dieci minuti la piazza era vuota, ma sul terreno rimasero almeno 600 tra morti e feriti, un fatto che fece inorridire la nazione. Fu questo episodio a promuovere la stagione delle riforme che ebbe come momenti salienti la riforma della polizia, la legalizzazione delle Trade Unions (sindacati), l’abolizione del Test Act e la riforma elettorale.
 Robert Peel Nel 1822 Robert Peel divenne ministro degli interni nel governo guidato da Lord Liverpool: per prima cosa fece approvare la riforma e la mitigazione del codice penale britannico, riducendo i casi in cui si poteva infliggere la pena di morte. Il Peel ottenne una più efficace prevenzione dei reati mediante la formazione di un nuovo corpo di polizia urbana disarmata. Il poliziotto di quartiere circolava per le strade ed era in grado di accorgersi se qualcosa non funzionava. A partire dal 1829 la sede della polizia urbana di Londra, Scotland Yard, divenne il più famoso centro di investigazione scientifica.
 La legislazione dei sindacati Per quanto riguarda i sindacati, la loro origine è antica. Fino al termine del XVIII secolo il sindacalismo si identificava con le corporazioni di arti e mestieri di origine medievale, che fissavano con minuzia il numero degli apprendisti, i salari, l’entità e la qualità della produzione e l’ammissione alla corporazione. Uno dei primi risultati del liberalismo economico fu l’abolizione delle corporazioni di arti e mestieri perché sembravano intralciare la libertà di produzione. Ma allo stesso tempo fu applicato anche agli operai il principio che il salario viene determinato dal gioco della domanda e dell’offerta e che perciò non si doveva imporre ai datori di lavoro alcun minimo salariale da corrispondere ai dipendenti. La produzione di massa, tuttavia, cadeva sempre più spesso in balia di crisi di sovraproduzione e il licenziamento ne era il corollario. Infine, anche in Gran Bretagna la rivoluzione francese creò il timore di possibili rivolte popolari e perciò nel 1799 il Parlamento votò i Combination Acts, che vietavano le associazioni private, dunque anche i sindacati di lavoratori. Nel 1825 il governo britannico decise di legalizzare le Trade Unions che ormai non si potevano più arginare, imponendo però alcune restrizioni alla loro azione.
 Sviluppo delle Trade Unions Dopo quell’anno i sindacati inglesi conobbero un grande sviluppo ed ebbero notevole peso nel promuovere la riforma elettorale del 1832. Nel corso di quegli anni le Trade Unions furono influenzate dalle idee di Robert Owen, che aveva progettato cooperative di lavoratori in grado di assumere la responsabilità della direzione di un’impresa per impedire lo sfruttamento degli operai da parte dei capitalisti. Egli aveva anche immaginato una confederazione generale dei lavoratori, ma nel 1834, dopo un anno di lotte amare con gli impiegati e col governo, la confederazione decadde e in seguito ci si limitò a promuovere sindacati autonomi per alcune categorie di lavoratori.
 La questione cattolica Quando nel 1801 fu creato il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda, dando all’isola verde parità di diritti con l’isola maggiore, si pose il problema dei cattolici in tutta la sua gravità. Infatti, in forza del Test Act chi non professava la religione anglicana non poteva assumere cariche pubbliche. Poiché in Irlanda la maggioranza della popolazione era cattolica, si poneva il problema dell’ammissione al Parlamento di deputati irlandesi. In entrambe le isole ci furono fiere discussioni finché nel 1829 il Test Act fu abrogato. L’eroe del movimento per l’emancipazione dei cattolici fu Daniel O’Connell, un deputato irlandese che organizzò raduni frequentati da folle enormi.
 La riforma dei collegi elettorali Nel 1832 avvenne la più importante delle riforme britanniche, la ridistribuzione dei collegi elettorali che avevano diritto di mandare deputati alla camera dei Comuni. Le vecchie circoscrizioni risalivano al tempo di Oliver Cromwell, ossia alla metà del XVII secolo, ma da allora erano avvenuti grandi trasferimenti di popolazione dalle campagne alle città, alcune delle quali come Manchester erano cresciute fino a 100.000 abitanti e non avevano rappresentanti in Parlamento, mentre alcuni borghi spopolati di campagna inviavano un rappresentante. La legge elettorale del 1832 ristabiliva le proporzioni tra campagna e città, dando agli interessi industriali maggiore peso politico.
 Abolizione della Corn Law Ultima delle grandi realizzazioni di quest’età fu l’abolizione della Corn Law, una legge che imponeva alle importazioni di grano in Gran Bretagna una tariffa protezionistica per permettere ai produttori di grano inglesi di ricavare profitti adeguati. L’anno precedente in tutta l’Europa erano andati perduti i raccolti autunnali, specie le patate. La carestia fu paurosa soprattutto in Irlanda, dove i morti per fame o coloro che dovettero emigrare in America furono almeno un milione e mezzo. In questa congiuntura si rese necessario l’invio in Irlanda di grandi quantità di grano e quindi l’abolizione di ogni dazio sul grano.
 Cobden e il trionfo del liberalismo Il promotore di questo provvedimento fu Richard Cobden che per oltre trent’anni guidò l’Anti Corn Law League, mediante raduni, articoli di giornale, discussioni in Parlamento per togliere ogni vincolo artificiale alla libertà di commercio, lasciando al mercato il compito di stabilire i prezzi di ogni derrata senza interventi protezionistici per determinati produttori.
 
 16. 4 Il dibattito sul Risorgimento in Italia
      La repressione dei moti del 1820-1821 dette i risultati sperati dal governo del Lombardo-Veneto, dove la polizia poteva contare su un’amministrazione dello Stato efficiente. Nel regno delle Due Sicilie e nello Stato della Chiesa, invece, i carbonari ripresero le cospirazioni. Nel regno di Sardegna, per tutta la durata della vita di Carlo Felice l’atmosfera politica fu improntata al rigido rifiuto di ogni idea liberale.
 La congiura di Misley e Menotti  Poiché Carlo Alberto si era compromesso nel corso dei moti piemontesi del 1821, i carbonari avevano meditato la sua sostituzione sul trono di Sardegna con Francesco IV di Modena, sperando di ricevere da quest’ultimo vantaggi politici. Il Misley era un giovane avvocato con conoscenze negli ambienti rivoluzionari degli emigrati a Parigi, ed ebbe contatti col duca di Modena e con ambienti carbonari e liberali. Il duca di Modena accettò questi incontri, non solo per fini spionistici, ma anche nella speranza di esser riconosciuto capo di una possibile rivoluzione liberale che ottenesse l’indipendenza dall’Austria. Nell’ottobre 1829 a Modena avvennero incontri più approfonditi tra il duca Francesco IV e il Misley che aveva esteso i suoi contatti a gruppi di liberali dello Stato della Chiesa. Nel settembre 1830 il Misley tornò a Modena proveniente da Parigi e il duca gli comunicò che il governo di Luigi Filippo aveva rivelato al Metternich il piano dei liberali italiani. Il compito di continuare la preparazione della congiura fu affidato a Ciro Menotti, un mercante che dirigeva una ditta di spedizioni. Per questa circostanza il Menotti aveva potuto sviluppare una rete di comitati insurrezionali a Bologna, a Firenze, a Roma e a Mantova. L’organizzazione del Menotti era fragile e il suo programma velleitario: una monarchia moderata che assicurasse indipendenza, unione e libertà. Il Menotti e Francesco IV cercavano di ingannarsi reciprocamente: il primo diceva che la sollevazione era imminente; il secondo rivelava alla polizia austriaca quel che sapeva, ma coprendo il Menotti, presentato come un agente provocatore al suo servizio.
 Sede vacante a Roma Nel frattempo era morto il papa Pio VIII dopo appena venti mesi di pontificato e quindi nello Stato della Chiesa esisteva la situazione di sede vacante giudicata favorevole dai cospiratori.
 Viene decisa la sollevazione I congiurati si convinsero che il governo francese avrebbe impedito un intervento militare austriaco e perciò, il 5 febbraio 1831, fu decisa la sollevazione generale dei comitati rivoluzionari. Il duca Francesco IV, tuttavia, non rimase inattivo: il 3 febbraio aveva fatto arrestare il Menotti e una quarantina di congiurati. In seguito, il duca, spaventato da notizie di presunti movimenti rivoluzionari in tutto il ducato, partì per Mantova, portando con sé il Menotti, nella speranza di convincere il comandante di quella piazzaforte, Frimont, a reprimere la rivolta, ma ricevette un rifiuto. Francesco IV dovette perciò recarsi a Vienna.
 Sollevazioni a Modena, Parma e Bologna  Intanto a Modena i patrioti insorsero e presero il potere in città. A Parma, l’arciduchessa Maria Luisa fu pregata di rimanere al suo posto concedendo la Costituzione: essa rifiutò partendo per Piacenza che era presidiata da un distaccamento austriaco. A Bologna, in assenza del cardinal legato Bernetti, a Roma per il conclave, fu costituito un governo provvisorio. Il moto di Bologna si estese fin nelle Marche e in Umbria. Il 25 febbraio, a Bologna fu convocata un’assemblea di notabili che dichiarò decaduto il governo papale.
 Schermaglie diplomatiche La Francia compì qualche passo a Vienna annunciando che l’intervento militare austriaco avrebbe potuto provocare la guerra, ma il Metternich fece balenare il pericolo di soluzione bonapartista in Francia: Luigi Filippo comprese che la minaccia aveva seri fondamenti. Il ministro degli esteri francese fece sapere che l’intervento militare nei ducati padani si poteva considerare una questione interna all’Austria, ma non così l’intervento nell’ex Stato della Chiesa che aveva ricevuto il nome di Province Unite. Rapidamente l’esercito austriaco occupò Ferrara e Comacchio, Modena e Parma, rimandando di due settimane l’intervento a Bologna.
 Rapida conclusione della sollevazione Il 20 marzo 1831 gli Austriaci si avvicinarono a Bologna, costringendo il governo provvisorio a trasferirsi ad Ancona. Il piccolo esercito delle Province Unite inflisse a Rimini qualche perdita all’esercito austriaco, ma il governo rifugiato ad Ancona capitolò davanti al cardinal Benvenuti. Seguirono espatri di chi si era compromesso, senza che la popolazione comprendesse il senso di ciò che era accaduto.
 Critica dei metodi carbonari Anche i moti del 1831 furono caratterizzati da scarsa resistenza militare dei governi di fronte alle forze insurrezionali e dalla facilità con cui gli Austriaci stroncarono la rivoluzione che non aveva radici popolari. Queste considerazioni indussero il giovane Mazzini a un radicale ripensamento dei metodi delle società segrete.
 Giuseppe Mazzini Nel 1831 Giuseppe Mazzini aveva 26 anni. Nel 1821, quando era poco più che adolescente, aveva assistito all’imbarco degli esuli dei moti piemontesi, ricevendone un’impressione duratura. Dopo la laurea in legge divenne carbonaro, ma ben presto si rese conto che alla carboneria mancava una guida politica, che c’era troppo mistero sui fini che si proponeva e che molti affiliati erano invecchiati, incapaci di elaborare idee nuove. Nel 1830 il Mazzini era stato arrestato. Dopo tre mesi fu prosciolto e nel marzo 1831 andò in esilio per evitare il confino.
 La cultura del Mazzini La cultura del Mazzini era caratterizzata da molte letture, soprattutto di autori francesi. Una delle prime visite fu compiuta a Ginevra per conoscere il Sismondi autore di una fortunata Storia delle repubbliche marinare italiane molto letta in quegli anni e ricca di giudizi generali, spesso moralistici, che il Mazzini professò per il resto della vita. In seguito il Mazzini si stabilì a Marsiglia dove fondò la Giovine Italia che doveva rappresentare il superamento della carboneria.
 Lettera aperta a Carlo Alberto Nell’aprile 1831 era morto Carlo Felice e sul trono di Sardegna salì Carlo Alberto. Il Mazzini approfittò della circostanza per rendere pubblico il suo programma con una Lettera aperta indirizzata al nuovo re. Il governo piemontese rispose con l’ordine di arrestare il Mazzini se avesse tentato di rientrare nel regno di Sardegna. Nell’estate 1831 il Mazzini scrisse l’Istruzione generale per gli affratellati della Giovine Italia, il suo documento programmatico.
 Critica dei metodi carbonari In primo luogo egli attribuisce il fallimento dei moti italiani “alla pessima direzione degli elementi rivoluzionari”. La carboneria ha sbagliato tutto perché ha peccato di moderatismo, di gradualismo, di provincialismo, di subordinazione agli stranieri. In secondo luogo, sono mancati autentici capi: la Giovine Italia dovrà esser scuola per i futuri capi della rivoluzione. Il Mazzini ripete l’idea romantica che l’Italia sia una nazione chiamata a una funzione universale, già svolta dall’impero romano e dai comuni medievali, in attesa di diventare l’Italia dei popoli liberi.
 L’idea di progresso Al centro della concezione storica del Mazzini c’è l’idea del progresso, di origine illuminista, ricevuta dagli storici francesi della rivoluzione: il progresso è il corso fondamentale della storia e deve assumere una dimensione mondiale, percorrendo tutte le tappe intermedie del miglioramento indefinito dell’umanità. La fede nel progresso, tuttavia, implica la fede nel dovere: la grande rivoluzione ha fallito il suo compito perché ha proclamato solo i diritti dell’uomo, dimenticando i doveri dell’uomo e del cittadino. A riparare quell’errore devono provvedere i giovani respingendo la soluzione liberale della rivoluzione, perché, dopo aver esaminato i paesi in cui ha trionfato il liberalismo, il Mazzini si accorse che stavano emergendo problemi sociali di estrema gravità.
 Il programma mazziniano Il Mazzini vuole che il problema italiano si inserisca nel problema universale che egli riassume nelle tre parole Libertà, Uguaglianza, Umanità, alle quali gli italiani devono aggiungere come parole d’ordine Indipendenza, Unità: quest’ultima rappresenta il compito più urgente da realizzare. Fino a quel momento si era ottenuta solo una certa unità culturale: ora occorre l’unità politica in senso forte, quindi non un’unità di tipo federale, come in Svizzera, che condanna quel paese all’impotenza. La forma di governo deve essere repubblicana, dice il Mazzini sotto evidenti influssi giacobini, affermando che la monarchia minaccia l’uguaglianza e la libertà.
 Educazione e insurrezione I due aspetti essenziali del metodo di lotta mazziniano sono l’educazione e l’insurrezione, ossia illuminare le menti e animare le volontà di tutti, non solo di un ristretto numero di congiurati. Per educazione il Mazzini intese un’ampia diffusione di opuscoli e articoli che dovevano arrivare a conoscenza di tutti gli italiani. L’insurrezione doveva avvenire per iniziativa italiana e non per impulso straniero; in terzo luogo, l’insurrezione doveva essere diretta da un’unica mente che assumesse un’autorità dittatoriale da cedere a un’assemblea costituente.
 Carenze del programma sociale Come si intuisce, il Mazzini non amava il concetto di lotta di classe che spesso affiorava nelle esposizioni storiche della rivoluzione francese: egli predicava una rivoluzione democratica e nazionale, sorvolando sulle implicazioni sociali della rivoluzione, senza avanzare ipoteche sul regime della proprietà privata dopo la rivoluzione, limitandosi a un vago progressismo economico.
 Lotta contro il papato Infine, sul piano religioso il Mazzini, che personalmente era agnostico, assegnava all’Italia il compito di rovesciare dal suo seggio il papa per attuare la finale emancipazione dell’umanità.
 La Giovine Italia Completata l’esposizione del suo programma, ripetuto e variato all’infinito nei successivi quarant’anni, il Mazzini si dette a organizzare la Federazione della Giovine Italia. Per l’insurrezione era stato scelto il regno di Sardegna, avendo come centri Genova e Alessandria, mentre in Savoia sarebbero entrati numerosi esuli per distrarre l’esercito piemontese.
 Fallimento dell’insurrezione della Savoia Il governo di Torino scoprì per tempo l’infiltrazione della stampa mazziniana: nel 1833 ci furono delazioni con processi e condanne a morte eseguite che scompaginarono la Giovine Italia. L’insurrezione in Savoia fu rimandata perché il Mazzini aveva affidato il denaro raccolto presso alcuni esuli lombardi al generale Gerolamo Ramorino che lo perse ai tavoli da gioco di Parigi. Circa 200 persone si radunarono nella zona di Ginevra verso la fine gennaio 1834, ma ormai quei movimenti erano tenuti sotto controllo dalla polizia piemontese e quindi mancò la sorpresa. Mentre falliva miseramente il moto della Savoia, a Genova Giuseppe Garibaldi, affiliato alla Giovine Italia fin dal 1833, tentò l’ammutinamento della flotta sarda, ma dovette fuggire dopo aver compreso che il complotto era stato scoperto. Nel processo che seguì, Garibaldi e Mazzini furono condannati a morte in contumacia. A conti fatti, i moti del Mazzini sembravano ancor meno sensati di quelli avvenuti negli anni precedenti.