Sacramenti e Codice di Diritto Canonico (4)

LA SS. EUCARISTIA (cc. 897-958) Il ministro. I riti e i vasi sacri della celebrazione. Il tempo e il luogo della celebrazione eucaristica. La concelebrazione. La binazione. Le messe per gruppi particolari. L’obbligo della partecipazione alla messa. Il ministro della comunione eucaristica. La comunione eucaristica. La comunione dei fanciulli. L’obbligo di comunicarsi. La comunione frequente. La comunione sotto le due specie. La conservazione e venerazione della  ss. eucaristia. L’offerta per la celebrazione della messa.  

  LA SS. EUCARISTIA
(cc. 897-958)

Il sacrificio eucaristico, memoriale della morte e della risurrezione del Signore, nel quale si perpetua nei secoli il sacrificio della Croce, è culmine e fonte di tutto il culto e della vita cristiana, mediante il quale è significata e prodotta l’unità del popolo di Dio e si compie l’edificazione del Corpo di Cristo. Gli altri sacramenti infatti e tutte le opere di apostolato sono strettamente uniti alla santissima eucaristia e ad essa sono ordinati (c. 897).
La celebrazione eucaristica è azione dì Cristo stesso e della Chiesa, e deve essere ordinata in modo che tutti coloro che vi partecipano traggano da essa abbondanza di frutti, per il conseguimento dei quali Cristo ha istituito il sacrificio eucaristico (c. 899, par 3).
La celebrazione della messa produce sempre, ex opere operato, frutti di salvezza, di conversione e di santificazione; ma essi sono tanto più abbondanti quanto meglio la Messa è preparata, celebrata e partecipata con fede viva, cuore puro e generoso impegno di testimoniare nella vita il mistero pasquale di Cristo morto e risorto.
È molto significativo, a questo proposito, il precetto per il sacerdote di prepararsi diligentemente con la preghiera alla celebrazione del sacrificio eucaristico e, dopo averlo terminato, di rendere grazie a Dio (c. 909): due doverosi atti di pietà che, se compiuti alla presenza dei fedeli, sono di sicura edificazione e di stimolante esempio.
Per promuovere l’attiva e fruttuosa partecipazione dei fedeli alla messa, si deve curare l’adeguata preparazione dei lettori, dei ministranti, degli animatori, dei cantori, del canto dell’assemblea, ecc.

Il ministro
Ministro, in grado di celebrare nella persona di Cristo il sacramento dell’eucaristia, è il solo sacerdote validamente ordinato, che lecitamente lo celebra se non ne è impedito per legge canonica e osserva le disposizioni liturgiche (c. 900; cfr. Dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede, 6 agosto 1983).
Per quanto riguarda la fedele osservanza delle disposizioni liturgiche, nella lettera che Papa Giovanni Paolo II ha indirizzato ai sacerdoti per il giovedì santo del 1980, si legge: “II sacerdote come ministro, come celebrante, come colui che presiede all’assemblea eucaristica dei fedeli, deve avere un particolare senso del bene comune della Chiesa, che egli rappresenta mediante il suo ministero, ma al quale deve essere anche subordinato, secondo una retta disciplina della fede. Egli non può considerarsi come proprietario, che liberamente dispone del testo liturgico e del sacro rito come di un suo bene peculiare. Questa subordinazione del ministro, del celebrante, al minìsterium, che gli è stato affidato dalla Chiesa per il bene di tutto il popolo di Dio, deve trovare la sua espressione nell’osservanza delle esigenze liturgiche relative alla celebrazione del santo sacrificio.
La trasgressione delle prescrizioni liturgiche denota mancanza di spirito di fede” (24 febbraio 1980; cfr. c. 846, par. 1; SC 22).

I riti e i vasi sacri della celebrazione
Il sacrificio eucaristico deve essere offerto con pane e vino, cui va aggiunta un po’ d’acqua.
Il pane deve essere solo di frumento e confezionato di recente, in modo che non ci sia alcun pericolo di alterazione.
Il vino deve essere naturale, del frutto della vite e non alterato (c. 924).
Nella celebrazione eucaristica, secondo l’antica tradizione della Chiesa latina, il sacerdote deve usare pane azzimo, ovunque egli celebri.
Non è assolutamente lecito, anche nel caso dì urgente estrema necessità, consacrare una materia senza l’altra o anche l’una e l’altra, fuori della celebrazione eucaristica (cc 926, 927; cfr. MR 281-286).
La celebrazione eucaristica deve essere compiuta in lingua latina o in altra lingua, purché i testi liturgici siano stati legittimamente approvati.
I sacerdoti e i diaconi, nel celebrare e nell’amministrare l’eucaristia, debbono indossare le vesti sacre prescritte dalle rubriche (cc. 928, 929; cfr. MR 297-310).
Il sacerdote infermo o avanzato in età, se non può rimanere in piedi, può celebrare il sacrificio eucaristico stando seduto, osservando sempre le leggi liturgiche; non però con il popolo, se non con la licenza dell’Ordinario del luogo (c. 930, par. 1).
Il sacerdote cieco o affetto da qualche infermità celebra lecitamente il sacrificio eucaristico usando un testo qualsiasi, tra quelli approvati, della messa, con l’assistenza, se il caso lo esige, di un altro sacerdote o di un diacono o anche di un laico debitamente istruito, che lo aiuti (c. 930, par. 2).
Nella celebrazione eucaristica debbono essere fedelmente osservate tutte le prescrizioni rituali sui luoghi, i tempi, i testi, le vesti, i gesti, ecc.
Anche circa la materia e la forma dei vasi sacri, vi sono norme ben precise (cfr. MR 287-296).
I vasi sacri debbono essere di materia non solo solida, ma anche nobile. Il calice, la patena, la pisside debbono essere dorati all’interno, se il metallo è ossidabile; e confezionati nel modo più conveniente.
Per quanto riguarda la forma, non è certamente idoneo all’uso liturgico il calice senza una base che non ne assicuri l’equilibrio statico o che non può essere agevolmente tenuto in mano dal celebrante; altrettanto si dica della pisside.
Occorre, inoltre, che i vasi sacri sì distinguano, anche per la forma, dai vasi di uso profano.
Il calice perciò non deve avere la forma di un “bicchiere” profano, ne la pisside la forma di un “paniere” poiché il calice è destinato a contenere il Sangue, la pisside il Corpo del Signore.
I vasi sacri, cioè, debbono essere “segni” che richiamano e facilitano l’atto di fede nel mistero che con essi si celebra e che presentano.

Il tempo e il luogo della celebrazione eucaristica
La celebrazione e la distribuzione dell’eucaristia possono essere compiute in qualsiasi giorno e ora, eccettuati quelli che sono esclusi dalle norme liturgiche (c. 931) o dal diritto particolare.
La celebrazione eucaristica deve essere compiuta nel luogo sacro, a meno che in un caso particolare la necessità non richieda altro; nel qual caso, la celebrazione deve essere compiuta in un luogo decoroso (c. 932, par. 1) e osservando fedelmente tutte le norme liturgiche (c. 838).
La celebrazione della messa fuori del luogo sacro è dunque consentita soltanto in casi particolari e per motivi di vera necessità; ed è perciò esclusa per motivi devozionali o di comodità.
Il sacrificio eucaristico deve essere celebrato sopra un altare dedicato o benedetto; fuori del luogo sacro può essere usato un tavolo adatto, purché sempre ricoperto di una tovaglia e del corporale (c. 932, par. 2).
Per una giusta causa e con licenza espressa dell’Ordinario del luogo, è consentito al sacerdote celebrare l’eucaristia nel tempio di qualche Chiesa o comunità ecclesiale non aventi piena comunione con la Chiesa cattolica, allontanato il pericolo di scandalo (c. 933). È un’ipotesi che difficilmente si verifica in Italia; ma che può trovare applicazione soprattutto quando i sacerdoti italiani si recano in regioni estere, nelle quali non sia possibile disporre di chiese cattoliche (cfr. Ur 15).

La concelebrazione
La concelebrazione dell’eucaristia, reintrodotta nella Chiesa latina dal Concilio Vaticano II, manifesta assai bene l’unità del sacrificio e del sacerdozio, consolida i vincoli fraterni dei presbiteri e, se è presieduta dal Vescovo, circondato dal suo presbiterio e dai ministri con l’attiva partecipazione di tutto il popolo di Dio, è la più alta manifestazione della Chiesa gerarchicamente costituita (SC 41; Congregazione dei Riti, Eucharisticum mysterium [25 maggio 1967], 42).
I sacerdoti possono concelebrare l’eucaristia, a meno che l’utilità dei fedeli non richieda o non consigli la celebrazione individuale. Per i singoli sacerdoti rimane tuttavia intatta la libertà di celebrare l’eucaristia in modo individuale, non però nello stesso tempo nel quale, nella medesima chiesa o oratorio, si tiene la concelebrazione (c. 902).
Mentre nella precedente disciplina liturgica la concelebrazione della messa era consentita in pochi casi e spettava all’Ordinario permetterla in particolari circostanze (cfr. MR 153-155), ora i sacerdoti stessi ne valutano l’opportunità, tenendo presenti le legittime esigenze dei fedeli. Le messe concelebrate riducono infatti il numero delle messe celebrate individualmente per le rispettive comunità, le quali non debbono essere private della messa, se non per cause ragionevoli e giuste.
Spetta però al Vescovo diocesano, a norma del diritto, regolare la disciplina della concelebrazione nella sua diocesi, anche nelle chiese e negli oratori esenti (MR 155).
La comodità personale del sacerdote o il motivo di rendere più solenni le celebrazioni dei matrimoni, delle prime comunioni, dei funerali, ecc., non consentono quindi al sacerdote in cura d’anime di privare della messa la propria comunità.
Nella concelebrazione della messa si osservino diligentemente le relative norme liturgiche (MR 153-208), a cominciare da quanto è prescritto al numero 156: “Nessuno, mai, venga ammesso a concelebrare a messa già iniziata”.

La binazione

1. Al sacerdote è consentito celebrare l’eucaristia una sola volta al giorno, eccetto i casi in cui, a norma di diritto, può celebrare o concelebrare più volte nello stesso giorno (c. 905, par. 1).
Ogni sacerdote può ripetere la celebrazione o la concelebrazione della messa:
— nel giovedì santo, chi ha celebrato o concelebrato la messa crismale, può celebrare o concelebrare la messa nella Cena del Signore;
— a Pasqua, chi ha celebrato o concelebrato la prima messa nella notte, può concelebrare la seconda messa di Pasqua;
— chi, in occasione del sinodo, della visita pastorale o di incontri sacerdotali concelebra col Vescovo o con un suo delegato, può di nuovo celebrare, a giudizio del Vescovo, per l’utilità dei fedeli.
La stessa possibilità è data, con gli opportuni adattamenti, anche per le riunioni di religiosi con il proprio Ordinario o con un suo delegato;
— nel Natale del Signore, tutti i sacerdoti possono celebrare o concelebrare le tre messe, purché lo facciano nelle ore corrispondenti (MR 158);
— nel giorno della commemorazione di tutti i fedeli defunti (2 novembre), ogni sacerdote può celebrare o concelebrare tre messe. Una sola messa però può essere applicata “ad libitum”; delle altre due, una deve essere applicata per tutti i fedeli defunti e l’altra secondo le intenzioni del Sommo Pontefice (Cost. Ap. Del 10 agosto 1915). Si eviti tuttavia di celebrare le tre messe immediatamente una dopo l’altra.

2. Nel caso vi sia scarsità di sacerdoti, l’Ordinario del luogo può concedere che i sacerdoti, per giusta causa, celebrino due volte al giorno e anche, se lo richiede la necessità pastorale, tre volte nelle domeniche e nelle feste di precetto (c. 905, par. 2).
Il criterio per stabilire quale sia in concreto la messa binata o trinata non è dato dalla successione cronologica della celebrazione, ma dal fatto che essa venga celebrata, non importa dove e in quale ora, oltre quell’unica messa giornaliera che, di diritto, è consentita a ciascun sacerdote.
Poiché l’Ordinario del luogo può permettere la binazione nei giorni feriali e la trinazione nei giorni di precetto soltanto nel caso che lo richieda la necessità pastorale della comunità, la predetta facoltà non può essere concessa per motivi di devozione personale o per soddisfare la richiesta di poche persone, come avverrebbe, per esempio, nel caso delle messe per gli anniversari dei defunti.
Il numero eccessivo di messe nella medesima chiesa non favorisce l’adeguata preparazione e celebrazione dell’eucaristia e la valorizzazione di altre celebrazioni eucaristiche, penitenziali, della parola di Dio e delle pie pratiche che efficacemente promuovono la formazione e la crescita spirituale dei singoli e della comunità.
Sappiano i fedeli, e ricordiamo noi sacerdoti, che se nelle chiese si va soltanto per la celebrazione dell’eucaristia, e poco o mai per altre celebrazioni e pie pratiche, non solo decade la vita spirituale, ma ne ha grave danno lo stesso culto eucaristico.
Nel chiedere all’Ordinario il permesso della binazione e della trinazione della messa, si valuti ponderatamente la motivazione pastorale della richiesta, secondo i seguenti criteri:
— Nei giorni dì precetto, il pastore d’anime deve offrire alla comunità la possibilità di partecipare alla messa, senza però indulgere alla pigrizia dei fedeli e al frazionamento della comunità o impoverire la celebrazione e la partecipazione comunitaria.
Per evitare l’ingiustificata e pastoralmente dannosa moltiplicazione del numero delle messe nei giorni di precetto, siano stabiliti orari adeguati, che tengano conto delle messe che si celebrano nelle chiese vicine alla propria, e si abbia cura di distanziare le ore delle celebrazioni, Se le messe si succedono con l’intervallo di una sola ora o poco più, è praticamente impossibile che siano convenientemente celebrate e partecipate, che il parroco possa rendersi disponibile al ministero della riconciliazione, alle opportune intese con gli animatori della celebrazione, e che i fedeli possano conferire con lui.
— Nei giorni feriali, alla binazione della messa, specialmente se vespertina, si preferiscano altre celebrazioni e pie pratiche; così facendo, il popolo fedele dispone di un multiforme nutrimento spirituale e meglio comprende che se l’eucaristia è fonte e centro della Chiesa e della vita cristiana (PO 6), è altrettanto vero che la sacra Liturgia non esaurisce tutta l’azione della Chiesa e tutta la spiritualità cristiana (SC 9).

Le messe per gruppi particolari
Nella sinossi eucaristica il popolo di Dio è chiamato a radunarsi in unità sotto la presidenza del Vescovo o, in dipendenza dalla sua autorità, del presbitero, che agiscono nella persona di Cristo (c. 899, par. 2),
Tutti devono dare la più grande importanza alla vita liturgica della diocesi che si svolge intorno al Vescovo, principalmente nella chiesa cattedrale (SC 41).
Poiché nella sua Chiesa il Vescovo non può presiedere personalmente sempre e ovunque l’intero suo gregge, deve costituire dei gruppi di fedeli, tra cui hanno un posto preminente le parrocchie costituite localmente e poste sotto la guida di un pastore che fa le veci del Vescovo (SC 42).
L’eucaristia è sacramento di pietà, vincolo di carità, convito pasquale (SC 47) che implica e richiede la celebrazione comunitaria del popolo di Dio, e perciò debbono essere evitate la divisione e la dispersione della comunità (Euch. myst., 17).
Non è tuttavia escluso che, in particolari circostanze e per validi motivi, la ss. eucaristia venga celebrata per gruppi di fedeli; ma anche in questi casi la celebrazione deve essere considerata non come azione esclusiva di un gruppo, ma deve favorire al massimo la partecipazione dei fedeli (Congregazione per il Culto Divino, Istruzione sulle Messe per gruppi particolari, 15 maggio 1969).
Spetta al Vescovo diocesano autorizzare la celebrazione della messa per gruppi particolari; prima però di chiederla, si rifletta se, tutto considerato, non sia pastoralmente preferibile la lettura, l’ascolto, la meditazione comunitaria della parola di Dio o un’altra celebrazione o pia pratica.
Ottenuta l’autorizzazione del Vescovo, nella celebrazione eucaristica si osservino fedelmente tutte le norme liturgiche e, in particolare:

a) il luogo proprio per la celebrazione della messa è il luogo sacro (c. 932), e soltanto il caso particolare e la necessità giustificano la celebrazione fuori del luogo sacro. È, dunque, vietato celebrare la messa fuori del luogo sacro quando questo è facilmente accessibile;

b) la celebrazione della messa non deve in nulla differenziarsi dal rito del Messale Romano. Dare alla celebrazione eucaristica uno stile personale e arbitrario “ può talvolta sembrare di maggior effetto, tuttavia oggettivamente è sempre tradimento di quell’unione che, soprattutto nel sacramento dell’unità, deve trovare la propria espressione” (Giovanni Paolo II, La Cena del Signore, 24 febbraio 1980).
A nessuno è consentito introdurre varianti al rito della messa; neppure per renderlo più intelligibile e partecipato. A questo proposito è da ricordare quanto ha dichiarato la Congregazione per il Culto divino: “ La Santa Sede, in campo liturgico, non ha mai fatto concessioni particolari alle comunità neocatecumenali, e pertanto devono attenersi a tutte le norme stabilite nei libri liturgici della Chiesa, senza arbitrari cambiamenti” (1 aprile 1982”;

c) l’osservanza della disciplina liturgica è sempre doverosa e fa evitare il rischio, non solo ipotetico, di creare divisioni e di ingenerare nei fedeli l’errata opinione che le altre messe siano di… seconda categoria. La celebrazione della messa per gruppi particolari deve, anzi, indurre i partecipanti a preferire la messa celebrata con l’intera comunità;

d) non è pastoralmente positivo celebrare la messa per gruppi particolari nei giorni festivi, perché l’assemblea liturgica parrocchiale non deve essere privata del ministero dei sacerdoti, ne della partecipazione dei fedeli: ne soffrirebbero la vita, la coesione e la comunione della comunità.

L’obbligo della partecipazione alla messa

a) La domenica e le altre feste di precetto, i fedeli sono tenuti all’obbligo di partecipare alla messa; si astengano inoltre da quei lavori e da quegli affari che impediscono di rendere culto a Dio e turbano la letizia propria del giorno del Signore o il dovuto riposo della mente e del corpo (c. 1247).
L’obbligo di partecipare alla messa, le domeniche e le altre feste di precetto, è grave; non adempierlo senza ragionevole e giusta causa, è colpa grave.
È richiesta sia la partecipazione all’intera messa, sia la presenza nel luogo dove la messa è celebrata, cosicché, per esempio, non adempie il precetto chi la vede per televisione.
La seconda parte del precetto è formulata in modo che l’astensione dal lavoro sia interpretata e osservata in funzione del culto da rendere a Dio, della sana letizia che deve caratterizzare il giorno del Signore e della risurrezione dì Cristo, e dell’opportuno riposo per meglio dedicarsi al ricupero delle energie della mente e del corpo e così rendersi più idonei e disponibili alla responsabile presa di coscienza della propria vocazione cristiana e all’amore e al servizio di Dio, della Chiesa e dei fratelli.
La mentalità di non pochi fedeli, circa la santificazione della domenica e delle altre feste di precetto, è spesso inesatta e incompleta, poiché la si fa consistere unicamente nell’andare a messa e nell’astenersi dai lavori pesanti.
La partecipazione alla messa è un momento forte della santificazione della festa ed è grazia e mezzo per diventare più idonei a santificare il giorno del Signore; l’astensione da un certo tipo di lavori e di affari non significa, per sé, santificare la festa, ma è condizione per poterla santificare, e cioè per rendere culto a Dio e salutare servizio alla propria vita, soprattutto spirituale, e al prossimo.
L’errata mentalità di tanti fedeli circa il significato, il valore e la portata della santificazione della domenica e delle altre feste di precetto trae in gran parte origine da una carente catechesi e dal fatto che i sacerdoti, nell’atto di celebrare il sacramento della penitenza, si premurano quasi esclusivamente di domandare se il penitente è andato a messa la domenica e se si è astenuto dai lavori pesanti, senza chiedere se e come l’abbia santificata, dedicandosi all’apostolato, a buone letture, alla visita agli ammalati, ecc.

b) Soddisfa il precetto di partecipare alla messa chi vi assiste dovunque venga celebrata nel rito cattolico, o nello stesso giorno di festa ” o nel vespro del giorno precedente (c. 1248, par 1).
L’adempimento dell’obbligo della partecipazione alla messa, anche, per chi lo preferisce, nel vespro che precede la domenica o la festa di precetto, non va inteso come una facilitazione offerta ai fedeli, bensì come logica conseguenza del fatto che la liturgia della domenica o della festa incomincia col vespro precedente.
Questa nuova norma deve essere interpretata e presentata nel suo vero significato, affinché nei fedeli non si consolidi e si aggravi l’errore di far consistere la santificazione della domenica nella sola partecipazione alla messa.
Non si tratta cioè di messa pre-festiva, ma di vera e propria messa domenicale o festiva a tutti gli effetti e impegni non soltanto liturgici ma anche pastorali e spirituali e che deve essere celebrata e partecipata in modo che il senso della domenica non venga travisato o oscurato.

c) Se per la mancanza del ministro sacro o per altra grave causa diventa impossibile la partecipazione alla celebrazione eucaristica, si raccomanda vivamente che i fedeli prendano parte alla liturgia della Parola, se ve n’è qualcuna nella chiesa parrocchiale o in altro luogo sacro, celebrata secondo le disposizioni del Vescovo diocesano, oppure attendano per un congrue tempo alla preghiera personalmente o in famiglia o, secondo l’opportunità, in gruppi di famiglie (c. 1248, par 2).
Le parrocchie e le comunità cristiane, prive del sacerdote, diventano sempre più numerose nella Chiesa d’oggi, causa la crisi di vocazioni sacerdotali.
Sono situazioni che preoccupano e debbono impegnare non solo i pastori d’anime, ma l’intera comunità cristiana, affinché la fede non venga meno nei credenti e l’annuncio della salvezza raggiunga tutti.
Per questo il Legislatore indica e vivamente raccomanda come supplire la mancanza di sacerdoti:

1. Nel caso che il Vescovo diocesano, a motivo della scarsità di sacerdoti, abbia giudicato di dover affidare a un diacono o a una persona non insignita del carattere sacerdotale o ad una comunità di persone una partecipazione nell’esercizio della cura pastorale di una parrocchia, costituisca un sacerdote il quale, con la potestà e la facoltà del parroco, sia il moderatore della cura pastorale (c. 517, par 2).
In questo contesto deve essere interpretata la figura della religiosa, erroneamente chiamata “suora-parroco”, alla quale il Vescovo affida il ministero della catechesi, della distribuzione dell’eucaristia, ecc., sempre però sotto la guida e la responsabilità di un sacerdote non residente nella località affidatale.

2. Anche nel caso che il Vescovo non abbia conferito lo speciale mandato di cui al c. 517, par 2, o che non siano accessibili chiese o altri luoghi sacri dove si tengono celebrazioni liturgiche o altre pie pratiche, ai fedeli è vivamente raccomandato di dedicare, nei giorni di precetto, un congrue tempo alla preghiera personale e familiare.
L’esortazione canonica vale anche per i fedeli i quali, per grave causa, come per esempio l’infermità, non possono partecipare alla messa, ma che sono in grado di dedicare energie e tempo alla preghiera e a buone letture, soprattutto della parola di Dio.

Il ministro della comunione eucaristica
      Ministro ordinario della sacra comunione è il Vescovo, il presbitero e il diacono. Ministro straordinario è l’accolito e anche un altro fedele incaricato dalla competente autorità (c. 910).
A nessuno, perciò, che non ne abbia legittima facoltà, è consentito amministrare la santa comunione (Congregazione dei sacramenti, I str. Immensae caritatis, 29 gennaio 1973).
Ove le necessità della Chiesa lo suggeriscano, in mancanza di ministri, anche i laici, pur senza essere accoliti, possono essere autorizzati dal Vescovo, a norma di diritto, a distribuire la sacra comunione (c. 230, par 3).
Soltanto situazioni di vena necessità (cfr Immensae caritatis) legittimano la concessione, a religiose o a laici, di distribuire la comunione in qualità di ministri straordinari.
I casi nei quali il sacerdote che celebra la messa si trovi in difficoltà a distribuire la comunione causa il gran numero dei comunicandi, sono rari e, comunque, si verificano più che altro nelle chiese che dispongono di più sacerdoti, ai quali va ricordato quanto è detto nell’Istruzione Eucharisticum mysterium del 25 maggio 1967:
“Si inculchi nei fedeli l’abitudine di accostarsi al sacramento della penitenza non durante la celebrazione della messa… cosicché essi non siano impediti da un’attiva partecipazione alla messa” (35; cfr. Rito della Penitenza, 13). Sino a quando non si otterrà che i fedeli si accostino al sacramento della riconciliazione fuori della celebrazione della messa, al momento della comunione i sacerdoti addetti alla chiesa lascino il confessionale e si rechino all’altare per distribuire l’eucaristia.

La comunione eucaristica
Ogni battezzato, il quale non ne abbia la proibizione dal diritto, può e deve essere ammesso alla sacra comunione (e 912); ma deve avere le disposizioni richieste dalla santità del sacramento e dalla disciplina della Chiesa:

a) Colui che è consapevole di essere in peccato grave, non può celebrare la messa né comunicare al Corpo del Signore senza premettere la confessione sacramentale, a meno che non vi sia una ragione grave e manchi l’opportunità di confessarsi; nel quale caso è tenuto a porre un atto di contrizione perfetta, che include il proposito di confessarsi quanto prima (c. 916),
La gravità della causa che autorizza la comunione eucaristica, debitamente contriti e col proposito di confessarsi quanto prima, deve essere valutata alla luce della gravità del precetto della previa confessione sacramentale. Non sono certamente da ritenere casi che rientrano nel disposto canonico, il voler comunicarsi nella messa esequiale o in altre solenni liturgie, durante le quali non vi è l’opportunità di confessarsi.

b) Non possono essere ammessi alla sacra comunione gli scomunicati e gli interdetti, dopo l’irrogazione o la dichiarazione della pena, e gli altri che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto (c. 915).
Tra i casi più ricorrenti, ricordiamo quello delle unioni matrimoniali illegittime, che non consentono di accedere alla comunione eucaristica.
L’eucaristia infatti significa e richiede la pienezza dell’unione con Cristo e con il suo Corpo che è la Chiesa: un’unione che i concubini, i divorziati risposati, ecc., hanno infranto e non intendono ricomporre poiché si ostinano a vivere nel peccato. Senza riconciliarsi con Dio e con la Chiesa, non è lecito mangiare e bere il Corpo e il Sangue di Cristo; farlo, significa segnare la propria condanna (1 Cor 11,27-29).

c) Chi intende ricevere l’eucaristia si deve astenere, per lo spazio di almeno un’ora prima della comunione, da qualunque cibo o bevanda, fatta eccezione soltanto per l’acqua e le medicine.
Il sacerdote, che nello stesso giorno celebra due o tre volte l’eucaristia, può prendere qualcosa prima della seconda o terza celebrazione, anche se non sarà trascorso lo spazio di un’ora.
Gli anziani, coloro che sono affetti da qualche infermità e le persone addette alla loro cura, possono ricevere l’eucaristia anche se hanno preso qualcosa entro l’ora antecedente (c. 919).

d) Non è consentito ai fedeli di prendere direttamente, dì propria mano, dalla pisside o dalla patena la sacra particela e dall’altare il calice del Sangue di Cristo.
Il gesto infatti compiuto da Gesù nell’istituzione dell’eucaristia si esprime in maniera molto più consona e degna, allorché il pane e il vino consacrati sono dati, distribuiti ai fedeli (Congregazione per il culto divino, in Notitiae, 1974, p. 308; cfr. Mt 26,26-27; Mc 14,22-23; Lc 22,19-20).
La Chiesa ha preferito moltiplicare i ministri straordinari della sacra comunione, piuttosto che tollerare lo svisamento del gesto biblico.

e) I comunicandi ricevono dal ministro l’eucaristia tenendo il piattello sotto il mento (MR 117), onde evitare che vadano dispersi i frammenti dell’ostia consacrata.

Nella Chiesa in Italia, ai fedeli non è consentito ricevere sulla mano la sacra particela per la comunione eucaristica.
Il rito di deporre la particela consacrata sulla lingua dei comunicandi poggia su di una tradizione plurisecolare, esprime e significa il riverente rispetto verso l’eucaristia, ed evita il pericolo di profanare le specie eucaristiche (Congregazione per i sacramenti, 29 maggio 1969).

f) Dopo la sacra comunione, non solamente le ostie che restano e le particelle di ostia che si sono staccate e che conservano l’aspetto del pane devono essere conservate o consumate rispettosamente, a motivo del rispetto dovuto alla presenza eucaristica del Cristo, ma anche per gli altri frammenti d’ostia si devono osservare le prescrizioni riguardanti la purificazione della patena e del piattello per la comunione (cfr.  MR 120, 138, 237-239; Congregazione per la Dottrina della Fede, 2 maggio 1972).

La comunione dei fanciulli
Perché i fanciulli possano ricevere l’eucaristia, si richiede che posseggano una sufficiente conoscenza e un’accurata preparazione, così da percepire, secondo la loro capacità, il mistero di Cristo ed essere in grado di assumere con fede e devozione il Corpo del Signore.
Ai fanciulli però che si trovino in pericolo di morte, l’eucaristia può essere amministrata se possono distinguere il Corpo di Cristo dal cibo comune e ricevere con riverenza la comunione (c. 913).
S. Pio X, con il decreto Quam singulari dell’8 agosto 1910, stabilì che i fanciulli ricevessero, sin dall’età della discrezione, ossia circa il settimo anno di età, i sacramenti della penitenza e dell’eucaristia.
Rimandare a più tardi la prima comunione è quanto mai biasimevole, e ripetutamente condannato dalla Sede Apostolica (cfr. Addendum al Direttorio catechistico della Congregazione per il Clero, 11 aprile 1971; Dichiarazione delle Congregazioni dei Sacramenti e per il Clero, 24 maggio 1973 e 31 marzo 1977).
Se nel lontano 1910 i fanciulli, all’età di sette anni, erano giudicati idonei alla confessione sacramentale e alla prima comunione, non si può certamente oggi richiedere un’età superiore, attesa la più precoce capacità discrezionale dei fanciulli del nostro tempo.
È dovere anzitutto dei genitori e di coloro che ne fanno le veci, come pure del parroco, provvedere affinché i fanciulli che hanno raggiunto l’uso di ragione siano debitamente preparati e quanto prima, premessa la confessione sacramentale, alimentati di questo cibo divino (c. 914).
Con una certa frequenza accade che i genitori rimandino la data della prima comunione dei figli che hanno raggiunto l’età idonea per accedere alla Mensa eucaristica, per attendere che il fratellino o la sorellina pervengano anch’essi all’età della discrezione, e così possano fare insieme la prima comunione. È un inconveniente che i parroci debbono premurarsi di far evitare. I genitori adducono pretesti di carattere economico, in una visuale errata della “festa di prima comunione” e che perciò non giustificano l’inadempienza dei genitori, ledendo il diritto del bambino e privandolo della tempestiva celebrazione di un sacramento che, ben preparato, esercita un grande e benefico influsso nella vita cristiana dei bambini.
La preparazione e la celebrazione della messa di prima comunione sono eventi di grande importanza ecclesiale non solo nella vita e nell’educazione alla fede e alla carità dei fanciulli ma anche per le loro famiglie e per l’intera comunità.
Il compito dei genitori, di preparare i loro figli alla messa di prima comunione, non può essere delegato ad altri (parroco, catechisti, religiose, ecc.) se si vuole che il fanciullo abbia una guida veramente idonea.
Il fanciullo deve essere aiutato a sempre meglio conoscere e vivere, soprattutto nel contesto della famiglia, l’amore paterno di Dio che dona al mondo Gesù il Salvatore, l’amico e il fratello presente nell’eucaristia, che chiamando a fare comunione con lui vuole che facciamo comunione con tutti, a cominciare dalle persone più vicine: i genitori, i familiari, i compagni di scuola, di gioco, ecc. La preparazione, della durata di circa un anno, incomincia con un incontro del parroco con i genitori dei comunicandi, per indicare ad essi gli impegni del cammino verso la messa di prima comunione. Nei successivi e periodici incontri con i genitori, il parroco e i catechisti verificano le tappe della preparazione, tra le quali, molto importante è quella della prima confessione, che dovrebbe aver luogo circa tre mesi prima della comunione ed essere ripetuta nelle settimane seguenti.
Particolare attenzione si deve porre alle confessioni dei fanciulli che si preparano alla messa di prima comunione.
È opportuno cominciare con delle celebrazioni penitenziali che presentino, con viva immediatezza, sia la bontà misericordiosa di Dio Padre, l’amore di Gesù crocifisso, l’intimità dello Spirito Santo, sia l’indelicatezza delle mancanze e dei piccoli peccati quotidiani, che sono il rifiuto di un “si” generoso alla voce del Signore che ci ama più di ogni altro.
Ben preparata e molto curata, anche per il riflesso psicologico che può avere su tutta la vita religiosa del fanciullo, la prima confessione o riconciliazione sacramentale deve essere per il fanciullo una celebrazione di amore e di gioia.
Il parroco, coadiuvato da idonei catechisti, abbia incontri, prima settimanali e poi quotidiani, con i comunicandi, e almeno mensili con i loro genitori.
In prossimità, o alla vigilia della messa di prima comunione, i comunicandi siano riuniti per un ritiro spirituale che riesca veramente proficuo e gradito. Con opportuna tempestività, il parroco solleciterà i genitori dei comunicandi a superare l’interpretazione privatistica, purtroppo assai radicata, della prima comunione e li esorterà ad evitare quelle manifestazioni (abiti dei comunicandi, banchetti, regali, ecc.) che ostacolano il necessario raccoglimento e la fruttuosa celebrazione del sacramento.
La messa di prima comunione sia festa di fede e di fraterna comunione di tutta la comunità parrocchiale e perciò si eviti di celebrarla fuori della chiesa parrocchiale o in giorni di festività patronali, che non favoriscono il raccoglimento dei fanciulli e la centralità dell’evento della prima comunione.

L’obbligo di comunicarsi
Per i fedeli è obbligo grave di ricevere la sacra comunione nei seguenti casi:

1. Dopo che è stato iniziato all’eucaristia, ogni fedele è tenuto all’obbligo di ricevere almeno una volta all’anno la sacra comunione durante il tempo pasquale, a meno che per giusta causa il precetto non venga adempiuto in altro tempo entro l’anno (c. 920). È un precetto che risale al Concilio Lateranense IV del 1215 (DS 812).

2. I fedeli che si trovano in pericolo di morte, derivante da qualsiasi causa, debbono ricevere il conforto della comunione come viatico.
Anche se avessero ricevuto nello stesso giorno la sacra comunione, tuttavia si suggerisce vivamente che quanti si trovano in pericolo di morte si comunichino nuovamente.
Perdurando il pericolo di morte, si raccomanda che la sacra comunione venga amministrata più volte, in giorni distinti (c. 921).
La Chiesa annette grande importanza al viatico poiché esso è segno di speciale partecipazione al mistero pasquale della morte del Signore e del suo transito al Padre, che è pegno e germe della risurrezione gloriosa con Cristo.
Già dai primissimi tempi, la Chiesa usò dare l’eucaristia come “viatico” ai cristiani prossimi al martirio o comunque in punto dì morte.
Cibo per il viaggio, il pane eucaristico sostiene il malato nel passaggio da questa vita al Padre, lo munisce della garanzia della risurrezione, secondo le parole del Signore: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv. 6,54).
Ricevere il viatico è testimoniare in modo significativo quella fede nella vita eterna di cui il cristiano è erede dal giorno del suo battesimo (cfr. Cei, Signore da chi andremo?, 279 ss).
Il parroco, i vicari parrocchiali e i cappellani hanno il dovere e il diritto di portare l’eucaristia sotto forma di viatico agli infermi; ma deve farlo qualsiasi altro sacerdote o altro ministro della sacra comunione, in caso di necessità o con la licenza almeno presunta del parroco, del cappellano o del superiore della casa religiosa, i quali debbono poi essere informati (c. 911) affinché possano prestare le opportune cure pastorali.
Il viatico per gli infermi non sia differito troppo; coloro che hanno la cura d’anime vigilino diligentemente affinché gli infermi ne ricevano il conforto nel pieno possesso delle loro facoltà (c. 922).
Per quanto è possibile, il sacerdote che reca il viatico, faccia visita previa all’infermo e ai suoi familiari per disporli alla degna e fruttuosa celebrazione del sacramento.

La comunione frequente
Dopo aver detto dell’obbligo grave di ricevere in determinate circostanze la comunione eucaristica, rivolgiamo l’attenzione alla comunione frequente.
L’uso e la raccomandazione della comunione eucaristica frequente non sono una novità nella Chiesa.
S. Tommaso d’Aquino scrive: “L’eucaristia è cibo spirituale e perciò, come ogni giorno ci nutriamo del cibo corporale, così è lodevole cibarsi ogni giorno di questo sacramento” (Summa theologiae, III, q. 80, art. 10, ad 4).
Il Concilio di Trento auspicava: “ Nelle singole messe, i fedeli presenti… si comunichino sacramentalmente dell’eucaristia per fruire più abbondantemente dei frutti del santissimo sacrificio” (DS 1747).
S. Pio X: “È desiderio di Gesù Cristo e della Chiesa che tutti i fedeli quotidianamente accedano al sacro convito” (DS 3375; cfr. c. 898).
È vivamente raccomandato che i fedeli ricevano la comunione nella stessa celebrazione eucaristica perché si inseriscano in modo più perfetto nella messa; mentre i sacerdoti sono esortati ad amministrare la comunione con ostie consacrate nella medesima celebrazione perché siano e appaiano frutto della consacrazione eucaristica (Euch. myst., 55).
I sacerdoti però non si rifiutino di dare la comunione ai fedeli che la chiedono per giusta causa fuori della messa (c. 918).
È bene anzi che a quanti sono impediti di partecipare alla celebrazione eucaristica della comunità, si porti con premura, e se è possibile anche ogni giorno specialmente nel periodo pasquale, il cibo e il conforto dell’eucaristia, perché possano così sentirsi uniti alla comunità stessa e sostenuti dall’amore dei fratelli (Rito della comunione fuori della messa, 14).
Le norme per la distribuzione della santa comunione fuori della messa sono state promulgate nel relativo Rito (4 gennaio 1978) e debbono essere fedelmente osservate sia nella celebrazione comunitaria (Rito, 26-44), sia nel rito breve il quale però comporta sempre: i riti iniziali (45-48), la lettura della parola di Dio (49), i riti di comunione (50-55), il rito di conclusione (56-57).
Per quanto riguarda il ministro della comunione, se sacerdote, deve indossare camice e stola, o cotta e stola sulla veste talare (20).
Chi ha ricevuto l’eucaristia, può riceverla una seconda volta nello stesso giorno, ma soltanto entro la celebrazione della messa alla quale partecipa, a meno che non si tratti del viatico (c. 917).
La normativa canonica consente ai fedeli di potersi comunicare due volte ogni giorno, a condizione che la comunione eucaristica sia fatta partecipando alla messa e così la partecipazione sia piena.
Sarebbe tuttavia estraneo al vero senso liturgico e all’autentica pietà eucaristica, andare a messa soltanto per ricevere la comunione eucaristica.
Si deve perciò far capire ai fedeli che a un desiderio superficiale di reiterare la comunione si deve contrapporre una giusta valutazione dell’efficacia del sacramento: quell’efficacia che alimenta, rafforza ed esprime la fede, la speranza, la carità e le altre virtù, ed è tanto più grande quanto maggiore è la devozione con cui ci si accosta alla sacra mensa.
Bisogna cioè passare dalla celebrazione liturgica alle opere di carità, di dedizione e di apostolato, per conservare nella condotta della vita ciò che si è ricevuto con la fede e il sacramento (Congregazione per i sacramenti, Immensae caritatis, 29 gennaio 1973).
Al gusto devozionale di fare due volte la comunione eucaristica ogni giorno, sono da preferire l’esatto adempimento dei doveri del proprio stato e le opere di  apostolato e di carità, quali la visita e l’assistenza alle persone inferme, anziane, sole e bisognose, ecc.: “La devozione, quando contrasta con gli impegni di qualcuno, è senza dubbio falsa” (S. Francesco di Sales, Introduzione alla vita devota).
La comunione frequente giova assai al progresso spirituale; ma ai fedeli deve essere fatto presente l’intimo nesso tra i sacramenti dell’eucaristia e della penitenza: ed infatti: “Non è soltanto la penitenza che conduce all’eucaristia, ma è anche l’eucaristia che porta alla penitenza. Quando infatti ci rendiamo conto chi è Colui che riceviamo nella comunione eucaristica, nasce in noi quasi spontaneamente un senso di indegnità, insieme col dolore per i nostri peccati e con l’interiore bisogno di purificazione” (Giovanni Paolo II, Dominicae Coenae, 1980).
E pertanto “di fronte a un diffuso fenomeno del nostro tempo, secondo cui molti tra il nostro popolo che ricevono la comunione fanno scarso uso della confessione, dobbiamo sottolineare l’invito fondamentale di Gesù alla conversione” (Giovanni Paolo II, 5 ottobre
1979).

La comunione sotto le due specie
La comunione eucaristica deve essere data sotto la sola specie del pane o, a norma delle leggi liturgiche, sotto le due specie; però in caso di necessità (quando, per esempio, il comunicando può soltanto deglutire i liquidi), anche sotto la sola specie del vino (c. 925).
Fermi restando i princìpi dogmatici fissati dal Concilio di Trento, con cui si insegna che anche sotto una sola specie si riceve tutto e integro il Cristo e il vero sacramento (DS 1725-1729), il Concilio Vaticano II ha stabilito che, in alcuni casi da determinarsi dalla Sede Apostolica, i fedeli possano ricevere la comunione sotto le due specie del pane e del vino (SC 55).
Questa volontà del Concilio è stata attuata gradualmente, a mano a mano che progrediva la preparazione catechetica dei fedeli, perché più sicuramente, dal cambiamento della disciplina eucaristica, se ne ricavassero frutti più ubertosi di pietà e di vantaggio spirituale (Congregazione per il Culto divino, 29 giugno 1970).
La comunione sotto le due specie esprime con maggiore pienezza la volontà divina di ratificare la nuova ed eterna alleanza nel Sangue del Signore e rende più evidente il segno del banchetto eucaristico e il suo rapporto con il convito escatologico nel Regno del Padre (Mt 26,29).
La comunione sotto le due specie può distribuirsi, a giudizio dell’Ordinario del luogo, nei casi determinati dalla Sede Apostolica e a condizione che preceda un’accurata catechesi, che sia salvaguardata la santità del sacramento, siano osservate le norme liturgiche e siano evitati pericoli di irriverenza e le occasioni in cui si abbia un numero rilevante di comunicandi.
Non è per assecondare un vacuo devozionismo, ma per promuovere l’autentica spiritualità eucaristica dei fedeli, che l’Ordinario può concedere la comunione sotto le due specie.
Tra i casi determinati dalla Sede Apostolica, ricordiamo i seguenti: neofiti adulti, nella messa che segue il loro battesimo; cresimati adulti, nella messa della loro confermazione; sposi, nella messa del loro matrimonio; coloro che sono istituiti in qualche ministero, nella messa della loro istituzione; coloro che prendono parte agli esercizi spirituali, nella messa che viene celebrata per loro.
La Conferenza episcopale italiana ha aggiunto il caso dei partecipanti alla messa comunitaria, in occasione di un incontro di preghiera e di un convegno pastorale.
In tutti i predetti casi, previsti dal diritto comune o particolare, occorre sempre la previa approvazione del Vescovo diocesano.
Tra i modi ammessi dalla Istruzione del Messale per la comunione sotto le due specie, ha certamente la preminenza quello della comunione fatta bevendo allo stesso calice. Tuttavia esso deve scegliersi soltanto quando tutto può svolgersi in conveniente ordine e senza alcun pericolo di irriverenza verso il Sangue del Signore. È il sacerdote, il diacono o l’accolito che devono presentare il calice ai comunicandi; è quindi da disapprovare il metodo di passarsi l’un l’altro il calice o di accostarsi direttamente al calice.
Qualora non siano disponibili i ministri di cui sopra, se i comunicandi sono pochi e la sacra comunione si fa bevendo al calice, lo stesso sacerdote distribuisce la comunione prima con il pane consacrato e poi con l’altra specie. Altrimenti si preferisca il rito della comunione per intinzione. In tal modo si rende più facile e sicuro l’accesso alla comunione sotto le due specie ai fedeli di ogni età e condizione, e insieme è rispettata la verità della pienezza del segno (Congregazione per il Culto divino, 29 giugno 1970).
Si deve però sempre rispettare la libertà dei fedeli di comunicarsi con la sola specie del pane consacrato.
In ogni celebrazione eucaristica, il sacerdote deve usare sempre e solo il pane azzimo (c. 926), e confezionato nella forma tradizionale (MR 282),

La conservazione e venerazione della  ss. eucaristia
La ss. eucaristia deve essere conservata nella chiesa cattedrale, in ogni chiesa parrocchiale e nella chiesa o oratorio annesso alla casa religiosa di un istituto religioso o di una società di vita apostolica; può essere conservata nella cappella privata del Vescovo e, su licenza dell’Ordinario del luogo, nelle altre chiese, oratori o cappelle private (c. 934, par 1).
A nessuno è lecito conservare presso di sé l’eucaristia o portarla in viaggio, a meno che non vi sia una necessità pastorale urgente, e osservate le disposizioni del Vescovo diocesano (e 935). Non rientra nelle facoltà del Vescovo concedere di conservare o di portare con sé la ss. eucaristia per motivi devozionali.
Nei luoghi sacri dove viene conservata la ss. eucaristia, vi deve essere sempre chi ne abbia cura e, per quanto possibile, il sacerdote vi celebri la messa almeno due volte al mese (c. 934, par 3).
Per le chiese parrocchiali senza parroco residenziale e prive di adeguata custodia e vigilanza, non solo non urge l’obbligo di conservare la ss. eucaristia, ma è sconsigliabile che si conservi, onde prevenire eventuali profanazioni.
L’eucaristia venga custodita abitualmente in un solo tabernacolo della chiesa o dell’oratorio.
Il tabernacolo sia inamovibile, costruito con materiale solido non trasparente e chiuso in modo tale che sia evitato il più possibile ogni pericolo di profanazione. Deve inoltre essere collocato in una parte della chiesa o dell’oratorio che sia distinta, visibile, ornata decorosamente, adatta alla preghiera (c. 938).
Le ostie consacrate siano conservate nella pisside o in un vaso sacro in quantità sufficiente alle necessità dei fedeli e, consumate nel debito modo le precedenti, siano rinnovate con frequenza (e 939), e cioè non oltre le due o tre settimane, specialmente nei mesi più freddi e umidi dell’anno.
Affinché però, anche attraverso i segni, risulti più evidente che la comunione è partecipazione al sacrificio in atto, si avrà cura che i fedeli possano riceverla con ostie consacrate nella stessa messa (Euch. myst., 31).
Davanti al tabernacolo nel quale sì custodisce l’eucaristia, brilli continuamente una speciale lampada, mediante la quale venga indicata e sia onorata la presenza di Cristo (c. 940).
Nel Rito del culto eucaristico è prescritto che la lampada sia a olio o un cero, che la presenza della ss. eucaristia sia indicata dal conopeo o da altro mezzo idoneo, stabilito dall’autorità competente (11), e che la chiave del tabernacolo sia custodita con la massima cura dal sacerdote o dal diacono responsabile della chiesa o dal ministro straordinario della comunione (10). Anche negli intervalli tra le messe, la chiave del tabernacolo deve essere collocata in luogo sicuro.
È raccomandato che nelle chiese e oratori dove si conserva l’eucaristia, ogni anno si compia l’esposizione solenne del ss. sacramento, prolungata per un tempo conveniente, anche se non continuo, affinché la comunità locale mediti e adori con intensa devozione il mistero eucaristico. Tale esposizione si faccia però soltanto se si prevede un’adeguata affluenza di fedeli e osservando le norme liturgiche (c. 942).
Negli anni precedenti la riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II, era molto diffusa la pia pratica della “benedizione eucaristica”, anche se, con scarso senso liturgico, talvolta concludeva la celebrazione della messa.
Molto opportunamente alla “benedizione eucaristica” la nuova liturgia ha sostituito l’esposizione, prolungata o breve, dell’eucaristia.
Sia premura dei parroci e rettori di chiese celebrare frequentemente l’esposizione eucaristica, almeno nella forma breve, che però deve essere sempre ordinata in modo che in essa, prima della benedizione con il ss. sacramento, sia dedicato un tempo conveniente alla lettura della parola di Dio, a canti e preghiere e a un po’ di orazione silenziosa. È, dunque, sempre vietata l’esposizione fatta unicamente per impartire la benedizione (Euch. myst., 66; Rito del culto eucaristico, 97).
La pia pratica dell’esposizione eucaristica contribuisce in modo efficace a promuovere il culto eucaristico e a far conoscere e vivere l’eucaristia come culmine e fonte della vita cristiana; ma deve chiaramente apparire, ed essere sottolineato, il rapporto del culto eucaristico con la messa.
Ministro dell’esposizione del ss. sacramento e della benedizione eucaristica è il sacerdote o il diacono; in speciali circostanze sono ministri della sola esposizione e riposizione, ma non della benedizione, l’accolito, il ministro straordinario della sacra comunione o altra persona designata dall’Ordinario del luogo, osservando le disposizioni del Vescovo diocesano (c. 943).
Durante la celebrazione della messa non vi sia nella stessa navata della chiesa o dell’oratorio l’esposizione della ss. eucaristia (c. 941, par. 2).
Ove, a giudizio del Vescovo diocesano, è possibile, si svolga, quale pubblica testimonianza di venerazione verso l’eucaristia e specialmente nella solennità del Corpo e Sangue di Cristo, la processione condotta attraverso le pubbliche vie. Spetta al Vescovo diocesano stabilire delle direttive circa le processioni, con cui provvedere alla loro partecipazione e dignità (c. 944), vietando, per esempio, specialmente nelle piccole città, che ci siano nelle chiese e oratori della città altre sacre celebrazioni che non favorirebbero la partecipazione del clero e dei fedeli alla solenne processione eucaristica.

L’offerta per la celebrazione della messa
È lecito a ogni sacerdote che celebra la messa ricevere l’offerta data affinché applichi la messa secondo una determinata intenzione. E tuttavia vivamente raccomandato ai sacerdoti di celebrare la messa per le intenzioni dei fedeli, soprattutto più poveri, anche senza ricevere alcuna offerta (c. 945).
I fedeli che danno l’offerta perché la messa venga celebrata secondo la loro intenzione, contribuiscono al bene della Chiesa, e mediante tale offerta partecipano della sua sollecitudine per il sostentamento dei ministri e delle opere (c. 946; cfr. Paolo VI, Firma in traditione, 13 giugno 1974).
Devono essere applicate messe distinte, secondo le intenzioni di coloro per i quali singolarmente l’offerta, anche se esigua, è stata data e accettata (cc. 948).
Chi è onerato dall’obbligo di celebrare la messa e di applicarla secondo l’intenzione di coloro che hanno dato l’offerta, vi è ugualmente obbligato anche se, senza sua colpa, le offerte percepite sono andate perdute (c. 949).
Se viene offerta una somma di denaro per l’applicazione di messe senza indicare il numero delle messe da celebrare, questo venga computato in ragione dell’offerta stabilita nel luogo ove l’offerente dimora, a meno che non debba legittimamente presumersi che fu un’altra la sua intenzione (c. 950).
È grave colpa morale non soddisfare anche una sola delle celebrazioni per cui è stata data e accettata l’offerta, o non celebrare tante messe quante sono le intenzioni di messe accettate.
Il sacerdote che celebra più messe nello stesso giorno può applicare ciascuna di esse secondo l’intenzione per la quale è stata data l’offerta, a condizione però che, al di fuori del giorno di Natale, egli tenga per sé l’offerta di una sola messa e consegni le altre per le finalità stabilite dall’Ordinario. Il diritto particolare può consentire al sacerdote, che celebra più messe nello stesso giorno, una certa retribuzione a titolo estrinseco.
Chi concelebra nello stesso giorno una seconda messa, a nessun titolo può percepire l’offerta per questa (c. 951).
Dopo aver preso possesso della parrocchia, il parroco è tenuto all’obbligo di applicare la messa per il popolo affidategli, ogni domenica e nelle feste che nella sua diocesi sono di precetto; chi ne è legittimamente impedito l’applichi negli stessi giorni mediante un altro oppure, in giorni diversi, l’applichi personalmente.
Il parroco che ha la cura di più parrocchie, nei giorni predetti, è tenuto ad applicare una sola messa per tutto il popolo affidategli.
Il parroco che non abbia soddisfatto all’obbligo della messa per il popolo nei giorni prescritti, lo applichi quanto prima (c. 534).
È molto opportuno che, iniziando la celebrazione della messa per il popolo, il parroco ne faccia consapevoli i fedeli affinché vi partecipino più attivamente e siano sensibilizzati a fare proprie, con la preghiera e un rinnovato impegno di condivisione fraterna, le necessità spirituali e materiali dell’intera comunità parrocchiale.
Il sacerdote che è tenuto ad applicare nei giorni festivi di precetto la messa “pro populo” (Vescovo, parroci, amministratori parrocchiali) o “pro benefactoribus” (canonici), non può tenere per sé o disporre dell’offerta di altra messa celebrata nello stesso giorno, ma deve trasmetterla alla Curia diocesana.
Spetta al Concilio provinciale, all’assemblea dei Vescovi della provincia o al Vescovo diocesano definire quale sia l’offerta da dare per la celebrazione e l’applicazione della messa, e non è lecito a nessun sacerdote del clero sia secolare sia religioso chiedere un’offerta maggiore (c. 952).
Quanto è stato detto circa la destinazione delle offerte delle messe binate e trinate, vale anche per i religiosi parroci, viceparroci o rettori di chiese. Le loro binazioni e trinazioni, infatti, sono autorizzate dal Vescovo diocesano per ragioni di utilità pastorale, cui essi sono tenuti “ratione muneris vel officii suscepti”.
Anche i sacerdoti religiosi che non sono né parroci, né viceparroci, ne rettori di chiese, ricevono la facoltà di binare o trinare dal Vescovo diocesano, e perciò debbono attenersi alle norme comuni, a meno che non abbiano particolari indulti dalla Santa Sede.
Chi intendesse affidare ad altri la celebrazione di messe da applicare, le trasmetta quanto prima a sacerdoti a lui accetti, purché gli consti che sono al di sopra di ogni sospetto; deve trasmettere l’intera offerta ricevuta, a meno che non consti con certezza che la parte eccedente l’offerta dovuta nella diocesi fu data in considerazione della persona; è tenuto anche all’obbligo di provvedere alla celebrazione delle messe, fino a che non avrà ricevuto la prova sia dell’accettazione dell’obbligo sia dell’offerta pervenuta.
Il tempo entro il quale debbono essere celebrate le messe ha inizio dal giorno in cui il sacerdote che le celebrerà le riceve, se non consti altro.
Tutti i sacerdoti debbono accuratamente annotare le messe che hanno ricevuto da celebrare e quelle cui hanno soddisfatto.
Coloro che affidano messe da celebrare, annotino senza indugio nel registro sia delle messe che hanno ricevuto sia di quelle che hanno trasmesso ad altri, segnando anche le rispettive offerte (c. 955).
Il parroco, come pure il rettore di una chiesa o di un altro luogo pio ove si è soliti ricevere offerte di messe, abbiano un registro speciale, nel quale annotino accuratamente il numero delle messe da celebrare, l’intenzione, l’offerta data e l’avvenuta celebrazione. L’Ordinario del luogo deve prendere visione ogni anno di tali registri, personalmente o tramite altri (c. 958).
I registri delle messe (personale, della chiesa, delle binazioni e trinazioni, “pro-populo”, “pro benefactoribus” dei legati, ecc.) siano riservati alla sola annotazione delle messe, distinti l’uno dall’altro, e accuratamente visionati dai Vicari foranei nel corso della visita annuale alle singole parrocchie e chiese della diocesi (c. 555).