SGUARDO RETROSPETTIVO AGLI ARTICOLI ECONOMICI

P. L. Taparelli d'Azeglio S.J. Giudichiamo necessario ridurre le trattazioni economiche sin qui svolte in un ragionato compendio per coloro principalmente che, entrati ora appunto nel numero dei nostri associati non hanno fra le mani i volumi passati, ai quali molte volte potranno riferirsi le venture nostre trattazioni.

SGUARDO RETROSPETTIVO AGLI ARTICOLI ECONOMICI
«La Civiltà Cattolica», 1858, a. 9, Serie IV, vol. II, pp. 395-405.

Quando al principio della terza Serie la Civiltà Cattolica accettò da parecchi dei suoi benevoli l'ufficio, a che l'invitavano, di esaminare al lume dei principii cattolici le teoriche degli economisti, non fummo certamente sì sordi, che c'immaginassimo compiere in pochi articoli il nostro viaggio. La materia è sì vasta, il campo d'un periodico è sì ristretto, il modo di trattare secondo occasione è sì scapigliato, che stimiamo gran mercé di Dio l'aver potuto giungere fin dove il lettore ci venne accompagnando. Quell'andar beccando qua e colà nell'atto stesso del nostro viaggio, come le colombe dell'Eneide (1), secondo che gli eventi ci porgevano materia appetitosa, non era certamente il modo di far molta strada: molto meno di lasciare limpida e lucida negli animi del lettore l'idea delle nostre dottrine. Pur nondimeno rivedendo i nostri conti prima di chiudere la Serie, e domandando a noi medesimi quali impressioni potevamo sperare che essa abbia lasciate per testamento negli animi dei leggitori; ci parve poter benedire Iddio che l'opera non fosse riuscita totalmente inutile, e i principii dovessero generalmente accettarsi dagli animi onesti: tanto più che niuno finora dei nostri benevoli ci ha contrapposto o difficoltà o dubbii, come in altre occasioni sono soliti, mercé l'amorevole loro confidenza. Parliamo degli amorevoli; ché il non avere opposizioni per parte degli avversi potrebbe indicare, piuttosto che approvazione, una specie di cospirazione di silenzio, intesa a diminuire l'importanza, così del Periodico cattolico in generale, come in particolare della nostra filosofia economica. Ed abbiamo qualche ragione di supporlo al leggere talora in qualche Periodico ed anche in qualche libro che tratta queste materie ex professo, citate le nostre dottrine, e perfino le nostre parole, senza pure accennare al nome di Civiltà Cattolica. Ma anche in questo caso crederemmo aver ragione di rallegrarci di opera non indarno spesa, vedendo che le nostre idee vanno trapelando anche fra coloro che professano dottrine contrarie e che non trovano probabilmente rispo­ste calzanti, poiché preferiscono la via del silenzio.
Ma sia qualsivoglia la cagione di questo, il silenzio dei nostri benevoli è certamente indizio di gradimento, al quale non sapremmo come meglio corrispondere nel ripigliare oggi queste materie, interrotte dalle agitazioni del mondo politico, che coll'invitarli a parte di quelle riflessioni, che abbiam dovuto fare quasi per bilancio finale del nostro triennio. Esso venne da noi iniziato (se lo ricorderanno i lettori) con due quistioni particolari; la prima in risposta al Cimento che mordea (come continuarono e continuano a mordere i suoi figli, nipoti e pronipoti) le finanze pontificie; l'altra sopra la legge in favore dell'usura, che piombò finalmente come vampiro sulle borse dei poveri Piemontesi, ma che era allora un semplice disegno proposto alle Camere. Ma passata quell'occasione, sentimmo ben presto il bisogno di assorgere verso i principii, se volevamo che riuscissero cari i nostri pensieri. Senza smettere dunque l'idea di ciuffare pei capelli le occasioni, quando si presentassero, credemmo necessario dar qualche ordine meno fortuito agli articoli economici, spiegando la natura e le condizioni di quella scienza, poco nota forse al più dei nostri lettori.

Incominciammo dunque dal determinare, come meglio si poteva, la vera idea di Economia sociale, osservando come cotesta scienza molto ancor lascia a desiderare in materia di teorie universali ed evidenti, malgrado la tanta copia di particolari osservazioni ond'ella è ricchissima; fatto generalmente riconosciuto anche da quei medesimi, che più vantano i moderni progressi dell'economia e della civiltà. E la cagione di tale oscurità ed incertezza sta in ciò, a parere nostro, che ella si dibatte tra lo spirito cattolico e l'eterodosso. Accettare interamente quest'ultimo è impossibile: error puro non si dà: lo stesso Proudhon, audacissimo fra gli audaci, ancor lascia sussistere qualche elemento di vero. Seguire all'opposto interamente il Cattolicismo non si vuole dagli eterodossi (che nelle scienze economiche mettono come utilisti e però hanno come scrittori un'importanza suprema): e i Cattolici o non presero finora, o non riuscirono a mettere in piena armonia col Cattolicismo tutte le nozioni e le teorie economiche. È dunque naturale che in ogni trattazione economica la lotta dei due principii introduca oscurità e contraddizioni. Or come volete che in coteste tenebre si contorni limpido il concetto, si concateni stringato il raziocinio?
Queste osservazioni ci condussero nel secondo e quarto volume di quella serie a chiarire il principio fondamentale delle due Economie, la cattolica e l'eterodossa. LA BEATITUDINE STA NELLA PIENEZZA DELL'ORDINE – LA BEATITUDINE STA NELLA PIENEZZA DEL PIACERE: ecco i due principii, da cui deducemmo ineluttabilmente l'idea di due economie. Ineluttabilmente diciamo, sì per rispetto alla natura dell'uomo, sì per rispetto alla idea di Scienza. In forza di sua natura l'uomo è ad un tempo e un individuo compiuto, perpetuamente incitato dal sentimento dei bisogni a cercarne la soddisfazione, e una parte dell'universo coordinata con le altre parti a formare un tutto. Egli è dunque condotto per necessità a regolare le proprie operazioni o relativamente alle soddisfazioni proprie, o relativamente all'ordine dell'Universo. Nel primo caso la legge nasce dal suo piacere, nel secondo dalla volontà del Creatore. Tanto è dunque impossibile sfuggire ad uno dei due membri dell'alternativa, quanto il non riconoscere in sé o un individuo indipendente, o una parte del mondo creato; fra parte e tutto non v'è termine medio (2).
Posto poi uno di cotesti principii, con la tendenza che naturalmente ne consiegue, a proporsi come ultimo fine o la soddisfazione propria, o l'osservanza dell'ordine voluto dal Creatore; anche la scienza economica prende ineluttabilmente uno dei due opposti andamenti; essendo impossibile che una scienza pratica non venga per ultimo a determinarsi in ragione del fine che ella si propone. Quindi vedemmo nascere i due diversi intenti negli studii economici del Cattolico e dell'eterodosso. Agli occhi del Cattolico la scienza economica studia l'ordine della ricchezza, l'economia sociale l'ordine della ricchezza pubblica: agli occhi dell'eterodosso l'economia studia il modo di far ricco l'individuo, l'economia sociale di far ricco lo Stato. Beneinteso, ripetiamolo, che in pratica niun eterodosso sarà mai sì cinicamente utilista, che non sia condotto tratto tratto, senza avvedersene, a preferire l'ordine al piacere, a diminuire la ricchezza pubblica per non eccedere in tirannia.
Ma questo appunto rende ragione di quelle differenze, anzi di quella perpetua lotta, in cui si dibattono le teorie economiche, e della quale dovrà render ragione la Civiltà Cattolica, esaminando le dottrine, per lo più eterodosse, degli economisti. Di questa lotta avemmo un bel saggio nella seduta dell'Accademia di scienze morali del Decembre del 1855, dalla quale prendemmo occasione di mettere in chiaro le idee cattoliche intorno alla proprietà, considerandone e le origini primitive e le derivazioni nella proprietà secondaria. Ma in questo assunto sentivamo mancarci ad ora ad ora sotto i piedi il terreno, dovendo o adoperare vocaboli che nelle due scuole opposte prendono significanza diversa, e che con tale diversità avrebbero potuto introdurre confusione in tutti i nostri ragionamenti; o fermarci ad ogni piè sospinto per definire e chiarire i vocaboli e giustificarne dimostrativamente le definizioni. Ad evitare ambi gl'inconvenienti non trovammo altro partito che d'intraprendere quell'analisi dei primi concetti economici, che venne iniziata nel volume nono della terza serie.

Da cotesta analisi e da tutto il complesso degli altri articoli, ecco i principali teoremi che ci sembra aver posti in sodo e che assumeremo quinci in poi come già dimostrati.

I. L'economia cattolica è la scienza, non già del modo di produrre molte ricchezze, ma delle leggi, secondo le quali l'uomo dee governarsi rispetto alle cose che giovano al sostentamento del corpo. L'economia sociale poi è la scienza delle leggi, secondo le quali un governante ordina rettamente i sudditi nell'uso dei loro averi, sì rispetto, ai concittadini, sì rispetto all'intiera società (3). Dalla quale definizione vedemmo sgorgare e i giusti limiti, in cui l'economia dee restringersi, e il carattere morale che la lega alle altre scienze morali, e l'indole mansueta e liberale della scienza che presso gli eterodossi diviene rigida e dispotica. La scienza dunque del produrre la ricchezza forma bensì una parte, o piuttosto un presupposto dell'economia sociale, come l'agricoltura, la metallurgia ecc.; ma non costituisce immediatamente cotesta scienza. Ed appunto per questo gli economisti che vollero confondere l'una coll'altra oscillarono perpetuamente, ora facendola regolare dalla morale, ora protestando di separarnela.

II. Se coll'economia sociale il governante è guidato nel governo dei sudditi rispetto agli averi, la scienza dovrà determinare che cosa sieno cotesti averi, nell'uso dei quali debb'essere guidata la società; in qual modo questi averi si producano, secondo quali leggi si distribuiscano. Gli averi, che sogliono anche dirsi le proprietà di ciascuno, li vedemmo derivarsi naturalmente dal destino dell'uomo verso il suo Creatore, ultimo fine di tutto il creato. Per giungere a cotesto ultimo fine, secondo la specifica sua natura, l'uomo è dotato di facoltà e di forze che sono proprietà della sua natura medesima; la quale le adopera, e ha diritto di adoperarle, per conseguire cotesto fine. Proprietà dunque dell'uomo sono, non solo le facoltà e le forze, ma anche le opere in cui vengono esercitate. E poiché a conseguire quel fine sono necessarii all'uomo anche i sussidii materiali; la materia, intorno alla quale l'opera umana legittimamente si esercita e s'incorpora, diviene essa pure proprietà di quella persona, dalle cui forze ha ricevuta la forma di esistenza novella. La qual nuova forma dipende, come ognun vede, non solo dalla del braccio, ma anche, anzi principalmente, dall'eccellenza delle facoltà mentali, l'opera delle quali entra essa pure e s'incarna nei materiali prodotti.
Facoltà lavoratrice, lavoro umano, materia lavorata, ecco le tre supreme classi di proprietà: la prima delle quali, radice delle altre, è inalienabile, 1° perché pura potenza, 2° perché parte della persona umana. Le altre due assicurate alla persona e dalla natura stessa che è radice o base del diritto, e dalla positiva dichiarazione, del Creatore che nel sacro Genesi ne autenticò amendue le forme, e nel settimo precetto ne proibì ogni violazione. Il sudore del tuo volto ti darà il pane; ecco assicurato all'uomo il diritto di faticare per sé, pel proprio sostentamento: impossessatevi della terra e fatela vostra; ecco assicurato all'uomo il diritto sopra quelle parti di materia che egli fa sue col lavoro.
Cotesti prodotti e le opere con le quali si ottengono, se possono per ogni titolo lecitamente alienarsi e permutarsi, entrano nel novero di ciò che sogliamo chiamare ricchezza sociale, ricchezza pubblica, ricchezza nazionale ecc.; non già che essa possa consumarsi a talento dal pubblico governante, dalla nazione, dalla società, come le pubbliche entrate (giacché consumare non è governare): ma dee per modo regolarsi che sieno salvi a ciascuno i proprii diritti in tutto l'operare degli associati, rispetto alla produzione e distribuzione di coteste proprietà.

III. Ora che vuol dire salvi a ciascuno i proprii diritti? Ciascuno, abbiam detto, ha diritto di proprietà sopra le opere delle proprie facoltà e sopra le materie, in cui queste opere s'incarnano. Assicurare a ciascuno il frutto di coteste opere, la proprietà della materia operata, ecco in poche parole la base della pubblica giustizia economica. Siccome peraltro la varia tempra del mondo e delle facoltà umane introduce naturalmente la divisione del lavoro; e da tal divisione risulta la necessità di barattare scambievolmente e le opere e i prodotti; l'assicurare a ciascuno i proprii diritti non dee recare ostacolo al baratto dei proprii lavori. Sì bene deve il governante assicurare a ciascuno la facoltà di ottenere nel baratto l'equivalente di ciò che egli cede. Ora in che consiste cotesta equivalenza? Questo quesito ci obbligò a ricercare la giusta idea del valore, il quale altro non è che la potenza, ond'è dotata ogni merce, di ottenere un contraccambio. E cotesta potenza donde nasce? Nasce, come ognun vede, dall'utilità della merce a soddisfare un bisogno del compratore, e dall'impotenza di questo a soddisfare quel bisogno; senza contraccambiare equamente la merce desiderata. Utilità e rarità di una merce sono dunque la prima base del valore. Ma come determinare i gradi di questo valore? La difficoltà di rinvenirne la materia, la difficoltà del lavorarla, e per conseguenza il tempo, le spese, le fatiche impiegatevi determinano la quantità del valore; come l'utilità non volgare, ossia non accessibile a talento, determina primitivamente il valore in generale.
E poiché gran differenza passa nei giudizii che si formano di tal materia or nello stato estrasociale, or nel sociale; chi vive in società allora avrà determinato equamente i valori, quando avrà preso per norma, non il giudizio di due privati contraenti, ma la condizione universale della società. E val quanto dire che l'equivalenza non è un concetto liberamente stabilito dai due contraenti, secondo le soggettive loro inclinazioni e giudizii; ma un concetto obbiettivo e reale indipendente dalle personali disposizioni di qualche privato.
Ed ecco perché l'equivalenza delle merci e delle opere, e per­ conseguenza la giustizia o iniquità dei contratti può andar soggetta al giudizio dell'autorità ordinatrice della comunanza; potendo ella benissimo ravvisare quando sieno osservate o violate gravemente le vere proporzioni di giusta equivalenza.

IV. A regolare poi i sudditi rispetto a coteste funzioni economiche, tre potenze motrici vennero somministrate dalla Provvidenza al governante: 1° l'Interesse, il quale ha sull'uomo spontanea gagliardissima forza, ma insieme assai pericolosa, per gli angusti limiti della personalità, a cui sola provvede l'interesse, il quale bada unicamente al sentimento del bisogno. L'economia degli eterodossi volle restringere tutte le sue ricerche a questo solo motore, derivando da lui solo tutti i fenomeni economici. Siccome peraltro il sentimento non è se non una parte, e parte infima di quelle forze motrici che mettono in attività le facoltà umane; l'economia eterodossa si trovò incapace di rendere piena ragione dei fenomeni economici, e molto più di segnare le giuste leggi, secondo le quali l'attività umana dovrebbe concorrervi. Essa ci diede l'economia dell'uomo animalesco: laonde ogni qual volta una società si ricorda la dignità umana ed opera in conformità di questa; l'economista trova sbagliati i suoi calcoli ed è costretto a confessare che il fenomeno oltrepassa la sua scienza.
Ma il vero è che appunto per correggere l'esclusiva tirannia dell'interesse; 2° ci si fornì dalla Provvidenza creatrice la Ragione; la quale considerando l'Uomo come parte del tutto, subordina l'interesse proprio al bene comune. Adoperando questa forza di ragione, e le idee di diritto e di dovere, ingenerate in lei dall'aspetto dell'ordine universale, il governante può ottenere dai sudditi un andamento pieno di equità e di giustizia nel maneggio dei loro averi; essendo certo di trovare nella loro coscienza un eco armonico ed uno sprone potente che inciti all'adempimento d'ogni giusto comando, anzi ne prevenga molte volte la voce. Ne prevenga la voce, diciamo; perocchè la ragione non è un motore economico ad uso soltanto dei Governanti, ma anche dei produttori, qualunque essi sieno. Anzi appunto per questo un governante può farne gran capitale, perché ogni uomo sente benissimo, anteriore ad ogni comando positivo, il dovere che gli corre di regolare secondo ragione tutte le sue operazioni economiche.
Siccome peraltro la ragione stessa, anche quando parla molto chiaro, non ha sempre né efficacia bastevole ad ottenere, né perfezione bastevole a sollevarsi verso un bene sempre maggiore; sopperisce 3° nella coscienza umana alla fiacchezza della natura l'onnipotenza della Religione; e grande stoltezza sarebbe, così dello scienziato, come del governante rinunziare alla considerazione e all'uso di cotesti sussidii, senza i quali la ragione sarà sempre scarsa, se non impotente, come senza ragione l'interesse sarà naturalmente ingiusto ed antisociale.
Per ultima conseguenza, scienza veramente sociale sarà l'economia, quando farà capitale di tutte e tre coteste potenze motrici nel governare i sudditi rispetto agli averi, ossia alla ricchezza: e per conseguenza l'economia degli eterodossi, che solo gl'interessi vuol mettere in conto, mai non riuscirà né ad esplicare adeguatamente i fenomeni economici, né a guidare vantaggiosamente gl'interessi della società.

Tali sono i principii che crediamo ormai posti in sodo, e che già ci diedero campo nella terza serie a gravi considerazioni rispetto ad alcune questioni speciali; la prima delle quali, come abbiam ricordato, fu quella sopra l'usura, trattata da noi in occasione della legge piemontese; nella quale osservammo, base precipua del dissenso fra Cattolici ed eterodossi essere la riverenza dei primi al sudore del povero, smunto generosamente a profitto dei ricchi dalla teorica dei secondi. Questi, inventata per vantaggio delle loro borse quella commoda teoria, che «ogni capitale è per sé fruttifero», gittano in mano al povero una qualche parte del loro scrigno, e coi sudori che egli sopra vi sparge (sia con guadagno o con perdita, a ciò non si bada) vogliono raccogliere una messe che il denaro per sé non produrrebbe. A questi si contrappose egregiamente nel momento stesso che ella si pubblicava, oltre tanti altri e Deputati piemontesi e scrittori cattolici, il signor Emilio Tay, avvocato nella Corte d'Appello di Parigi; il quale in un bell'articolo pubblicato nel Journal des Économistes 1857 (tomo XIV, pag. 584 e segg.) rinfaccia ai legislatori piemontesi d'avere o dimenticato o ignorato i diritti e le necessità che pretendono dilatare e proteggere. Il cristianesimo, soggiunge, aveva imposto un freno alla cupidigia: vorrem noi perderne i benefizii abbandonando nuovamente il debitore in balìa dell'usuraio? Tal è il risultato della legge sarda: non paga di dar la libertà alle parti contraenti, neppur si ricorda di stipolare in favore di un mutuatario, astretto a consentire dal predominio della fame o di altre urgenze. Un venditore avrà diritto di ricorrere se in tali strette consentì a lesione enorme; e il mutuatario, se soccombe a simili violenze morali, non avrà speranza di riparo (Ivi, pag. 588). Così parlava il Journal des Économistes, promotore gagliardissimo di ogni libertà nel commercio.
A cotesta autorità possiamo aggiungerne un'altra assai più recente di un antico capitano del genio, antico direttore delle fucine di Denain, il quale esponendo i principii economici della società cristiana, tutti quasi interamente li deriva da questo principio, misconosciuto, dic'egli, dalla scienza utilistica. Egli confuta a lungo le teorie dello Smith, del Sismondi, del Ricardo ecc. e mostra che la sorgente di tutti i disordini economici sta precisamente nel pretendere che ogni capitale sia per sé fruttifero; ed assumendo all'opposto il principio contrario (il capitale non è fruttifero se non pel lavoro) s'ingegna di metterlo in piena evidenza, riducendolo a formola algebrica (4).
Non è qui luogo di esaminare il valore di coteste formole: solo abbiam voluto ricordarle per la singolarità del fatto che, dopo tanto gridìo contro i teologi e i canonisti, i quali seguitatori di Aristotile, non avean veduto come ogni capitale è fruttifero, venga adesso un capitano del genio, versatissimo per sua professione nei lavori di produzione, a ristorare la riputazione dei canonisti, e confutare con ragioni sperimentali la pretesa fecondità attribuita al capitale da chi volea succhiare i sudori, onde il povero lo innaffia e lo feconda. Il Cattolico all'opposto memore che il sudore dee dar pane a colui che lo sparge, ricupera il proprio, ma non chiede l'altrui. Coteste ragioni non persuadono certamente il liberalismo avverso alla Chiesa, e noi lo vedemmo perorare per l'usura in nome dell'umanità, non solo per bocca dei libertini di Piemonte, ma anche nelle gravi ossia pesanti colonne del Journal des Debats, che parlava di tali materie, come se appunto mai non si fosse risposta parola ai miseri cavilli della spietatezza eterodossa (5).
Ma sarebbe ridicolo il pretendere che o cangino parere o tengano almeno in qualche conto le risposte di privati scrittori, coloro che deridono con piglio da professori, non che la tradizione dei secoli, perfino l'insegnamento e l'autorità più augusta di tutte sulla terra, della Chiesa cattolica.
Una seconda quistione, a cui fummo chiamati con i nostri lettori dalle grida spaventose dei due mondi naufraganti fu quella famosa crisi commerciale, in cui affondarono, come ben vi ricorda, navi e vascelli d'ogni grandezza con tanto fracasso, che ancor non finisce di assordarci. Ed appunto l'altro giorno ci venne fra le mani in breve sunto il Rapporto della Commissione instituita in Inghilterra per esaminare la crisi commerciale del 1857: nel quale, non senza nostra soddisfazione vedemmo confermato dopo lunghi esami dei 27 Deputati (e pensate che erano uomini quei che si sceglievano dall'Inghilterra per provvedere alla sua borsa!) quello appunto che fin dal 2 Decembre di quell'anno disse ai suoi lettori la Civiltà Cattolica, intorno alla causa della crisi commerciale, attribuita da noi all'abuso delle istituzioni di Credito (tom. VIII, pag. 648).
E questo appunto dicono adesso quei barbassori economisti d'Inghilterra, secondo il compendio recatone dal Giornale delle Strade-ferrate 18 Settembre 1858: «L'abuso del credito, la sostituzione di un credito fittizio al credito fondato sopra solide guarentigie, hanno generati i dissesti che travagliarono l'Europa ecc.».
Siccome peraltro quel primo cenno dato nel momento degli spaventi abbisognava, specialmente pel comune dei nostri lettori, di molte dichiarazioni tecniche, trovammo a suo tempo il luogo, ove ragionare e della Moneta e del Credito, considerando l'una e l'altro secondo, i principii dell'economia cattolica.
Il Congresso internazionale di beneficenza a Francoforte esaminato nel volume IX, la Mendicità e i Mendichi toccati nel volume IV, l'Economia eterodossa alle prese col pauperismo e le influenze economiche del Frate, furono quistioni economiche anch'esse, ma toccate piuttosto che trattate, almeno in ciò che si aspetta alla parte economica. Alquanto più distesamente abbiamo esaminata per ultimo la quistione della Proprietà letteraria e quella che vi si annette della Produzione immateriale, allettati dalla bella opportunità di quel Congresso economico che veniva radunato a Brusselle, e di cui rendemmo conto ragionato nel primo volume di questa Serie.

Ecco lettor cortese, le varie trattazioni che nella Serie passata han dato campo a noi di esercitare la penna, e ai nostri benevoli la curiosità o la pazienza. Giudicammo necessario ridurle in un ragionato compendio per coloro principalmente che, entrati ora appunto nel numero dei nostri associati non hanno fra le mani i volumi passati, ai quali molte volte potranno riferirsi le venture nostre trattazioni; prima delle quali sarà esaminare (sempre, s'intende, al lume dei principii cattolici) i fattori della produzione. Nel quale assunto verremo condotti naturalmente a compiere quell'analisi critica dei primi concetti di economia, della quale vi abbiam dato poc'anzi un breve sunto.

NOTE

1) Illae pascentes tantum prodiere volando etc.

2) Il perspicace lettore capirà benissimo che si tratta qui di legge morale, non di conoscimento specolativo. Tanto il Cattolico quanto l'eterodosso ammettono specolativamente (e chi potrebbe negarle senza cavarsi gli occhi!) amendue le proposizioni. Il Cattolico vede che l'uomo è un individuo) l'eterodosso lo vede collocato nel mondo come parte nel tutto. Ma, moralmente parlando, il Cattolico riguarda quell'individuo come parte e ne inferisce dovere supremo, che gli corre, di coordinarsi secondo le leggi del tutto: l'eterodosso lo riguarda come occupato solo di sé e della propria soddisfazione, e però indipendente dalle leggi del tutto.

3) Vedi Civ. Catt. III Serie, vol. IV, pag. 397 e segg.

4) LE LIÈVRE, Exposé des principes économiques de la société chrétienne, pagina 368 e segg.

5) Vedi Civ. Catt. III Serie, vol. X, pag. 528, 537.