S. TARCISIO (+257)

Tarcisio subì il martirio da adolescente mentre portava l'Eucaristia ai cristiani in carcere. Scoperto, strinse al petto il Corpo di Gesù, per non farlo cadere in mani profane, ma venne ucciso. Il corpo venne sepolto insieme a papa Stefano sulla via Appia. Nel 767 papa Paolo I fece traslare le spoglie nella basilica di san Silvestro in Capite insieme ad altri martiri.

E' venerato come il protomartire dell'Eucaristia. Della sua vita però sappiamo soltanto quello che attesta il papa S. Damaso (+384), il poeta delle Catacombe, nell'iscrizione metrica da lui dettata e fatta scrivere sopra una lastra marmorea dal suo calligrafo Furio Dionisio Filocalo in bellissimi caratteri, a ornamento del sepolcro del martire. In una copia di essa, conservata nella silloge di Lorsch, è detto: "Lettore, chiunque tu sia, conosci l'uguale merito dei due Martiri ai quali Damaso, papa, rende omaggio dopo che hanno ricevuto in ciclo la loro ricompensa. Il popolo giudaico aveva un tempo oppresso di pietre Stefano, che lo esortava a ritornare a migliori sentimenti: il fedele Levita di Cristo fu il primo a conseguire, come un trofeo tolto al nemico, la palma del martirio. – S. Tarcisio portava il Sacramento di Cristo: siccome mani cattive e indegne gli facevano violenza perché manifestasse i nostri sacri misteri a profani che bruciavano dal desiderio di farne un oggetto di derisione, egli preferì soccombere sotto i loro colpi anziché abbandonare a quei cani furiosi il corpo del Re del cielo".
Il martire invitto diede così a vedere quanto opportunamente i suoi genitori nel battesimo gli avessero imposto il nome greco Tarcisio, che significa appunto una persona piena di audacia, di coraggio. Poiché S. Damaso pone in relazione il martirio di S. Tarcisio con quello del diacono S. Stefano, primo martire del cristianesimo, è molto probabile che anche il nostro martire fosse un diacono. Sappiamo difatti dalla Prima Apologia di S. Giustino (ca. 65) e dal De Lapsis di S. Cipriano (c. 13) che durante le persecuzioni ai diaconi era riservato il compito di portare la comunione ai confessori e a quanti non potevano prendere parte alle riunioni liturgiche. Non si può tuttavia escludere che Tarcisio fosse un semplice fedele perché nei primi secoli della Chiesa, i cristiani, secondo Tertulliano, solevano portare a casa l'Eucaristia per comunicarsi ogni giorno. Il raffronto che fa Damaso tra S. Stefano protomartire e S. Tarcisio sarebbe allora limitato al genere di martirio che entrambi subirono, vale a dire la lapidazione.
S. Damaso non ci dice in che circostanza o in che tempo Tarcisio sia morto per evitare la profanazione della SS. Eucaristia. Giacché fu seppellito nelle catacombe di S. Callisto, sulla via Appia, è probabile che sia stato martirizzato nella seconda metà del secolo terzo. L'imperatore Publio Licinio Valeriano difatti con due successivi editti (257 e 258) scatenò una persecuzione contro i cristiani per istigazione di cattivi consiglieri allo scopo di rinsanguare le dissestate finanze imperiali con il sequestro delle supposte ingenti ricchezze delle vittime. La persecuzione fu crudele e generale, e mirò a colpire oltre i luoghi di culto e le proprietà della Chiesa, anche i capi delle comunità ecclesiastiche. In essa perirono il papa S. Sisto II, successore di S. Stefano I, S. Lorenzo con altri sei diaconi, S. Cipriano, vescovo di Cartagine, e altri numerosi martiri, tra cui probabilmente anche S. Tarcisio.
La persecuzione cessò quando Valeriano fu vinto (260) dal re Sapore di Persia, sotto le mura di Edessa, e trattato alla corte di lui con oltraggi tanto obbrobriosi che ne morì dal dolore. Il figlio Galliano, per misura politica, ordinò con un editto la restituzione ai cristiani dei locali di culto e dei cimiteri. La persecuzione riprese per breve tempo in tutto l'impero verso la fine del 274, sotto Aureliano, che aveva fatto del culto del Sole la religione di Stato. Dopo d'allora, fino a Diocleziano (303), la Chiesa Cattolica poté estendersi e prosperare indisturbata.
Secondo l'autore della Passione di S. Stefano, papa (257), Tarcisio sarebbe stato un suo accolito. Lo scrittore però fa della confusione attribuendo il genere di morte subito da S. Sisto II a S. Stefano I.
Racconta infatti come fu sorpreso e decapitato dai soldati romani nel momento in cui offriva il sacrificio della Messa nel cimitero di S. Lucina, incorporato in seguito a quello di S. Callisto. La leggenda del martirio di S. Stefano I, sorta nel secolo VI, non è suffragata dai più antichi documenti liturgici e storici. Il Cronografo Romano, infatti, del 354, non computa Stefano tra il numero dei martiri, ma soltanto tra quello dei confessori.
L'ufficio degli accoliti consisteva nel fare da messaggeri ai vescovi, nell'accendere i lumi per le funzioni sacre; nel portare i vasi sacri, le palme benedette e altre cose necessarie o utili al ministero; nel servire il vino e l'acqua all'altare. Il loro compito più nobile e più importante a Roma era quello di portare una particella del pane consacrato, il cosiddetto fermentum, dalla Messa papale ai singoli sacerdoti dei titoli urbani perché la congiungessero alla propria ostia consacrata in segno di unità con il Sommo Pontefice. L'uso è ricordato dal Liber Pontificalis sotto i papi Melchiade (+314), e Siricio (+399). Non è quindi provato che Tarcisio la portasse come accolito a coloro che non avevano potuto prendere parte alla celebrazione della Messa per timore di persecuzioni o per malattia.
Fin dai primi tempi del cristianesimo fu in onore tra i fedeli la comunione quotidiana. Durante le persecuzioni erano proibite, pena la morte, le pubbliche assemblee. Eludendo la vigilanza dei pagani, i più ferventi, i più coraggiosi cristiani si recavano di notte, attraverso i passaggi segreti, nelle case private o nelle gallerie delle catacombe dove clandestinamente venivano celebrati i divini misteri. Al termine del sacro rito, quanti dei presenti lo desideravano ricevevano in un prezioso lino o in un piccolo vaso di metallo un certo numero di particele consacrate che portavano a casa per soddisfare alla loro operosità e a quella dei vicini.
Fu dunque all'uscita di qualche chiesa domestica o di qualche catacomba che Tarcisio fu scorto da un gruppo di soldati dell'imperatore Valeriano incaricati di sorvegliare l'accesso ai cimiteri dei cristiani e barbaramente assalito. Tra quei pagani e l'intrepido giovane s'ingaggiò una lotta furibonda. Non riuscendo a strappargli di dosso il sacro deposito di cui avevano sospettato l'esistenza forse dal modo devoto e circospetto con cui camminava, colpirono Tarcisio con sassi e con bastoni alla testa con tanta violenza da lasciarlo disteso per terra morto. I cristiani, costernati, lo raccolsero con grande devozione e lo seppellirono con onore in una galleria delle catacombe che il diacono Callisto aveva fatto ampliare per ordine del papa S. Zefirino.
Quando le persecuzioni cessarono, le catacombe divennero meta di frequenti pellegrinaggi. Gravi danni esse riportarono in seguito alle invasioni dei Goti (secolo VI) e a quelle dei Longobardi (secolo VIII).
Credendo di trovare chissà quali tesori quei barbari rovistarono nelle tombe di tanti martiri e dispersero le ossa di tanti confessori della fede.
Anche la lapide che S. Damaso aveva fatto mettere sulla tomba di S. Tarcisio andò in frantumi. Le reliquie del martire dell'Eucaristia furono in un'epoca imprecisata trasportate con quelle di S. Zefirino, con l'evidente scopo di estendere il culto favorendo un maggior afflusso di pellegrini, nella chiesa a tre absidi, eretta forse da papa S. Fabiano (+250), in superficie, non lontano dall'ingresso delle catacombe, in onore dei SS. Sisto e Cecilia. Nel secolo VII, difatti, l'Itinerario di Saitzburg (Epitome de Locis sanctis Martyrum), asserisce che i pellegrini veneravano in detta chiesa, dentro uno stesso tumulo, i santi Tarcisio e Zefirino.
S. Gregorio il Grande (1604), volendo soddisfare la pietà di Teodolinda, regina dei Longobardi, le inviò diverse fiale, ancora conservate nel tesoro del duomo di Monza, contenenti l'olio delle lampade che bruciava davanti alle tombe dei martiri. Sull'etichetta di una di esse si legge con il nome di altri martiri anche quello di S. Tarcisio. Dopo le invasioni dei Longobardi le catacombe caddero in abbandono e in esse trovarono rifugio persino gli animali. I resti di Tarcisio e Zefirino sfuggirono alla profanazione dei barbari e dei ladri e da papa S. Paolo I furono fatti trasportare con quelli di altri martiri nella chiesa di San Silvestre in Capite, al Campo Marzio, che aveva fatto costruire per una comunità di monaci greci sul sito della sua casa natale.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 8, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 146-149
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