S. GIUSEPPE MARIA TOMASI

Questo Santo, erudito, teatino e cardinale, figlio primogenito di don Giulio e di donna Rosalia Traina, duchi di Palma e principi di Lampedusa, nacque a Licata (Agrigento) il 12-9-1649. Dai genitori ricevette gli esempi di tutte le virtù. Appena imparò a pronunciare le prime parole il padre lo abituò a dire, percuotendo con un piede la terra; “Muoia il mondo e viva Dio”.
La mamma lo conduceva ancora bambino ai piedi della Madonna di Trapani, con la mezzetta di cuoio sulle spalle e il bordone in mano. Il Santo non voleva essere pettinato che dai familiari o dalla nutrice. Se qualche donna gli si avvicinava per abbracciarlo, si divincolava protestando: “Non bacio femmine, non bacio femmine”. Concepì tanto orrore per la menzogna da considerare i bugiardi come “figli del diavolo”. Alla lettura delle opere di S. Francesco di Sales imparò a crescere umile e ubbidiente. Con il padre si recava volentieri a visitare le chiese e servire gli infermi, e con i familiari recitava con devozione alla sera il rosario.

Il padre pensava di preparare il figlio a occupare una brillante posizione alla corte del re di Spagna, ma Giuseppe, che amava gli studi sacri e il canto fermo, cresceva annoiato del mondo e delle sue vanità. Uno dei suoi zii, Don Carlo, era già entrato tra i Chierici Regolari Teatini, fondati a Roma nel 1524 da S. Gaetano da Thiene con lo scopo di ridare al clero “la forma del vivere apostolico”. Dopo aver invano desiderato di farsi monaco contemplativo, Giuseppe, a 15 anni, ne segui l’esempio. Il babbo non si oppose alla vocazione del figlio benché pensasse di rinunciare al principato in favore di lui per ritirarsi in qualche convento come aveva già fatto la sua consorte.

Il 12-5-1659, difatti, i genitori del Beato avevano fondato sotto la regola di S. Benedetto un monastero a Palma (Agrigento) in cui, nello stesso giorno, erano entrate dieci donzelle, tra le quali figuravano anche 3 figlie dei fondatori: Francesca (Suor Serafica), Isabella (Suor Crocifissa), Antonia (Suor Maddalena). Ad esse si aggiunsero più tardi la quarta figlia Alippia (Suor Lanceata) e la stessa loro madre. Prima abbadessa e istitutrice del monastero fu Suor Antonia Traina, sorella di Donna Rosalia e professa benedettina del monastero del Cancelliere di Palermo. Fra tutte le sorelle si distinse per virtù e doni mistici la Ven. Suor Crocifissa (1645-1697), che fu la confidente del fratello e di cui nel 1799 fu riconosciuta l’eroicità delle virtù.

Il Tomasi fece il noviziato a Palermo nel 1665, presso il grandioso tempio dedicato a S. Giuseppe, con l’unica preoccupazione di osservare fino allo scrupolo le regole dell’ordine, e di mortificare il proprio corpo mettendo talora sostanze amarissime nel cibo e cospargendo di ghiaia il letto benché avesse sortito da natura una salute tanto debole da costituire per lui una continua croce.

Il Santo, dopo una grave malattia che lo costrinse a soggiornare per un po’ di tempo a Palma, iniziò gli studi umanistici a Messina, dove si perfezionò talmente nella lingua greca da leggerla e scriverla correntemente come il latino. Dai superiori, sempre solleciti della sua salute, fu chiamato prima a Roma e mandato successivamente a Ferrara e a Modena a compiere gli studi. Nel 1670 fu richiamato a Roma per lo studio della teologia presso Sant’Andrea della Valle. Nel gennaio del 1672, per ordine dello zio, si recò in Sicilia a consolare la famiglia provata da una successione di lutti.

Terminò il corso degli studi teologici nel convento di S. Giuseppe di Palermo. In quel tempo sua sorella Suor Crocifissa gli predisse che un giorno sarebbe diventato cardinale. Tuttavia soggiungeva nella lettera: ”Ricordati che un cavallo ben bardato resta sempre un cavallo”. Nel 1673 il Santo ritornò a Roma nella casa teatina di San Silvestro a Monte Cavallo (Quirinale). e nel dicembre dello stesso anno fu ordinato sacerdote. Poco tempo dopo suo zio, Don Carlo, si ammalò, e prima di morire gli fece quest’ultima raccomandazione: “Ama Dio, figlio mio, tutto il resto non è che vanità. Dio solo, Dio solo, Dio solo! Manda questo messaggio ai nostri fratelli di Palma: Amate Dio soltanto!”.

Fin d’allora il P. Tornasi era considerato a Roma come un santo, benché la sua vita di teatino non presentasse nulla di straordinario. Dalle lettere, ancora inedite, che diresse alle sorelle di Palma e in modo speciale a Suor Crocifissa, risulta che andò soggetto a molte infermità e tribolazioni, sopportate con grande pazienza e umiltà. L’8-9-1675 scrisse alla sua confidente: “Sono ancora non poco molestato nel corpo da alcuni mali abituali che chiamano di umore melanconico ipocondriaco e che m’infiammano tutto il cuore, il petto e la testa in modo che non solo non mi lasciano attendere allo studio, ma di più m’impediscono quasi di dire la Messa e far altre funzioni. .. Resta che voi preghiate il Signore per me molto; io sto grandemente tribolato da varie tribolazioni spirituali, da tentazioni orribilissime, da scrupoli, da cadute, da peccati, negligenze e vizi, i quali sono così vivi e cosi pronti, come se non fossi cristiano”. Per questo stato d’animo trovò difficoltà a proseguire le ricerche intraprese sulla liturgia.

Le sorelle cercavano di rasserenargli l’animo, ma la prova era superiore alle forze. Il 18-7-1693 scrisse difatti a Suor Crocifissa: “Quanto poi a quello che mi dite a non stare malinconico, io lo desidero più della vostra esortazione, ma il desiderare e il non avere, accresce anziché diminuire la malinconia. Chi mangia assenzio come può avere la bocca dolce?” Nella prova egli trovò conforto in un incondizionato abbandono alla volontà di Dio convinto che ” non bisogna aspettare perfetta sanità e felicità senza dolori che nell’altra vita, perché il cercarle qui è pazzia ” ; che ” le continue tribolazioni interne ed esterne che patiamo in questo mondo, altro non sono che tanti coltelli che ci tagliano i legami degli affetti terreni”; che “Nostro Signore ci mostrò una strada sola per il Paradiso, quella delle tribolazioni e angustie” ; e finalmente che “se il pane basta 2 volte al giorno, la pazienza bisogna averla 100 volte all’ora”.

La considerazione delle proprie miserie e della propria responsabilità di fronte ai benefici di Dio, aiutarono il Santo a radicarsi maggiormente nell’umiltà, a detestare la finzione e l’affettazione. A Suor Lanceata, fatta badessa del monastero, scrisse il 3-12-1701: “Vi ricordo a non fare capitale delle lodi degli uomini, perché né lode umana fa virtuosi gli uomini, né l’umano biasimo li fa viziosi; ricordiamoci che tanto unicamente siamo, quanto siamo agli occhi di Dio, e non quanto siamo agli occhi degli uomini”. Nel mese di maggio 1704 a Roma corse la voce che il papa avrebbe scelto personalmente il preposito generale dei Teatini con i quattro consultori. Essendo stato riferito al P. Tomasi che il sommo pontefice aveva messo gli occhi anche sopra di lui, ne rimase tanto scosso che il 26 luglio seguente scrisse a Suor Serafica: “Mi parrebbe di tenere un piede nell’inferno”.

Le sorelle avrebbero voluto che il fratello si dedicasse a qualche opera di zelo, ma egli se ne schernì dicendo che per esse non aveva ” né talento né virtù”. Per la sua natura introversa, tendente al rigorismo, non sentì in sé né la vocazione missionaria, né la passione per la predicazione, né lo zelo per il ministero delle confessioni. A Roma preferì santificarsi seppellendosi in polverosi archivi per ricercare, studiare e riesumare antichi codici di liturgie millenarie, e far rivivere le norme della liturgia primitiva con tale passione che non gli dava tregua e con una meticolosità che rasentava lo scrupolo. Per lui la “vera norma” di glorificare il Signore e di fare orazione era quella tracciata da Dio stesso nella Sacra Scrittura e seguita dalla Chiesa nella sua liturgia. Con le sue opere si prefiggeva d’insegnare ai sacerdoti l’eccellenza dei divini uffici e il modo di celebrare convenientemente i santi misteri.

Per meglio conoscere la Bibbia e le antiche liturgie studiò le lingue classiche e quelle orientali. Dal dotto rabbino Mosè di Cave, apprese l’ebraico. In compenso, a 70 anni lo convertì alla fede.

In quel tempo Cristina di Svezia (+1689), figlia di Gustavo II Adolfo, l’eroe della guerra dei trent’anni, raccoglieva nel suo palazzo letterati ed eruditi. Anche il P. Tornasi fu invitato a quegli intellettuali convegni, anche a lui fu aperta la ricca biblioteca della munifica regina. Lo studio su antiche pergamene in essa raccolte gli permise di pubblicare nel 1680 i Codices Sacmmenlortmi o collezione delle antiche liturgie con una introduzione che meritò gli elogi del celebre Don Giovanni Mabillon (+1707). Nel 1683 diede alle stampe l’edizione critica del Salterio, ma per le eccessive lodi che gli pervenivano da ogni parte a motivo degli studi da lui intrapresi, nascose il suo nome sotto quello di Giuseppe Caro, già appartenuto agli avi suoi.

Lo studio amoroso e assiduo delle antichità liturgiche accese nell’animo del Tornasi il desiderio di ridurre tutto ciò che c’era nella liturgia della Chiesa alla semplicità primitiva, eliminando gli accrescimenti fatti nel corso dei secoli al breviario e al messale romano, ritornando all’antichissimo ciclo temporale ormai sopraffatto dal santorale. I suoi voti furono portati a termine soltanto da S. Pio X e dal Concilio Vaticano II. Egli non vi insistette a lungo temendo di essere indotto a ciò da “qualche occulta superbia e presunzione di voler fare il maestro e l’architetto di quello che si potrebbe fare in servizio di Dio, a utilità ed edificazione del suo popolo cristiano”. Con queste parole il 10-5-1687 manifestava pure nella lettera a Suor Crocifissa l’idea di abbandonare “quegli studi e applicazioni che, sebbene per la grazia di Dio siano in se stesse buone, pure distruggono o distraggono il cuore”. Nel 1688 accarezzò anche il disegno di allontanarsi da Roma e ritirarsi in solitudine per darsi all’orazione e al silenzio, ma in seguito alle esortazioni e agli incoraggiamenti delle sorelle continuò a occuparsi degli studi intrapresi.

Nel 1697 i suoi lavori sul Salterio furono presentati a Innocenzo XII dal superiore generale dei teatini. Il papa, dopo averli letti, volle conoscerne l’autore e nominarlo esaminatore apostolico, carica che rifiutò a motivo della sua cattiva salute.

Il Tomasi, giunto a maturità di anni e di dottrina, pensava che se avesse potuto tornare giovane, avrebbe percorso altro cammino per raggiungere le vette della scienza teologica. Si limitò quindi a indicare la via a chi avesse voluto accingersi alla non facile impresa facendo stampare nel 1701 l’Indicubulus Institutionum Theologicarum Veterum Patrum. In esso è contenuta la lettera che scrisse al Mabillon nella quale non nasconde un dignitoso disprezzo per le vuote speculazioni e gli arzigogoli degli scolastici del suo tempo, e tratta del metodo positivo da adottare nello studio della teologia, dimostrandosi un vero precursore degli indirizzi moderni. Secondo il disegno da lui tracciato raccolse e ordinò vari trattati dei Santi Padri con l’intento di compilare un corso completo di teologia patristica. Dal 1709 al 1712 ne pubblicò 3 volumi con il titolo Institutiones Theologiae antiquorum Patrum.

La profondità di dottrina, la santità di vita, l’acume di giudizio del Tomasi furono presto apprezzati dalle autorità ecclesiastiche che gli affidarono compiti di fiducia. Alla morte di Innocenze XII (+1700) fu scelto a succedergli il cardinale Giovanni Albani, penitente del Santo. Poiché per modestia costui non voleva accettare il papato, e d’altra parte i cardinali insistevano nell’elezione, fu istituita una commissione di 4 teologi, tra cui figurava anche il Tornasi, perché giudicasse se l’eletto fosse tenuto sotto pena di peccato grave ad accettare la dignità suprema. Avendo la commissione dato parere affermativo, il cardinale Albani sciolse la sua riserva e assunse il nome di Clemente XI. Sotto il suo pontificato il Santo fu nominato prima qualificatore del Sant’Ufficio e poi consultore della S. Congregazione dei Riti. Nonostante la precaria salute m inoltre nominato consultore di Propaganda Fide, teologo nella Congregazione delle Indulgenze e in quella dei Regolari. Quivi egli potè efficacemente fare noto il suo desiderio di riforma nei vari ordini religiosi proponendo che vi fossero ammessi soltanto coloro che amavano la perfezione evangelica ed erano bene istruiti. Il cardinale Cassini, cappuccino, attestò che i suoi pareri erano molto apprezzati e che “a persuadere la riforma, era argomento più robusto il suo vivere che il suo parlare: veduto, edificava e mostrava la virtù nel sembiante così amabile che innamorava di lei”.

La stima e la venerazione per il Tomasi fu generale fra i contemporanei. Il cardinale Francesco Barberini gli portava in convento persino manoscritti del capitolo di S. Pietro perché li esaminasse; il cardinale Gerolamo Casanate lo volle sotto-bibliotecario alla Vaticana; altri prelati e cardinali ricorrevano a lui per consiglio e “facevano capitale del di lui voto come di oracolo”. Nel concistoro del 18-5-1712 Clemente XI, senza averlo in precedenza consultato, lo fece cardinale presbitero col titolo dei Santi Silvestro e Martino ai Monti. L’umile religioso ne ricevette la notizia come un colpo di folgore. Scrisse subito al papa per supplicarlo di conferire quella dignità ad altra persona più degna perché, diceva, “ogni sorta di ragioni m’impediscono di accettare questa dignità, i miei peccati, le mie passioni mal domate, la mia ignoranza, i miei voti e il mio giuramento di non accettare alcuna dignità”. Il papa, ricordandogli che era stato da lui obbligato, in coscienza, ad accettare la tiara, gli rispose: “Le ragioni che allora avete addotto militano ora a favore della vostra elezione al cardinalato”. Il Santo ubbidì, ma esclamò con un presentimento che doveva verificarsi: “Via, sarà soltanto per qualche mese”.

Conservando la sua medesima forma di vita, semplice e povera, il Santo stabili la sua dimora presso la chiesa di S. Martino ai Monti, officiata dai Padri Carmelitani. Sovente egli si recava in coro per recitare con i religiosi il divino ufficio. Sull’esempio di S. Carlo Borromeo, che di quella chiesa era stato titolare, faceva il catechismo ai bambini, s’interessava della decorazione della casa del Signore e vi predicava sovente prendendo lo spunto dalla S. Scrittura. Si adoperò perché il viatico fosse portato ai morenti con decoro e, per rimediare al rilassamento dei costumi, nonostante le opposizioni, volle che le donne in chiesa stessero separate dagli uomini. Se tra i suoi familiari non ammetteva chi si rendeva reo di bestemmia, era però capace, a notte alta, di scendere con la lanterna in mano in un sottoscala a confortare un facchino febbricitante.

Il tempo che gli rimaneva libero dalle occupazioni, il cardinale lo dedicava allo studio e alla composizione di opuscoli di indole scientifica che gli meritarono, con le altre opere, di essere aggregato il 9-8-1712 all’Accademia dell’Arcadia con il nome di Alcidamo Aridio. Se la salute lo avesse assistito altri scritti pieni di erudizione sarebbero usciti dalla sua penna. Nel dicembre del 1712, in occasione di una malattia di Clemente XI esclamò: “Il papa riacquisterà la salute, ma io me ne andrò”. Fu visto allora scendere nella cripta della sua chiesa e indicare il posto in cui voleva essere seppellito.

La vigilia di Natale il cardinale Tomasi cominciò a sentirsi meno bene del solito. 11 papa, avvertitene, gli mandò alcuni nipoti a chiedergli i suoi ultimi ricordi. Il morente con tutta franchezza gli raccomandò di non dare diverse chiese ad uno stesso prelato, di esigere che in Germania venissero applicate le riforme del concilio di Trento e lo supplicò di soccorrere la propria servitù che egli non aveva voluto arricchire. Morì sereno nel palazzo Passerini a Panispema il 1-1-1713. Lasciò in eredità a Propaganda Fide le poche migliaia di scudi che aveva.

L’Opera Omnia del cardinale fu pubblicata a Roma dal 1747 al 1754 in 11 volumi dal teatino P. Antonio Vezzosi, in seguito preposito generale dell’Ordine. Pio VII beatificò il Tomasi il 16-9-1803 e Giovanni Paolo II lo canonizzò il 12-10-1986. Le sue reliquie, dal 1971, racchiuse m una ricca urna di metallo dorato, sono venerate a Roma nella chiesa di S. Andrea della Valle.


 Sac. Guido Pettinati SSP,

I Santi canonizzati del giorno, vol. 1 Udine: ed. Segno, 1991, pp. 28-33.

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