S. EMILIA DE VIALAR (1797-1856)

Nasce a Gaillac, in Francia, il 12 settembre 1797. Donna dal carattere estremamente forte, le sue attitudini corrispondono alle necessità per la Chiesa francese di riorganizzarsi dopo l'età napoleonica. Emilia fonda a Marsiglia una congregazione rivolta alle missioni: la congregazione delle Suore di san Giuseppe dell'Apparizione. In Emilia riscontriamo una profondità spirituale che le fa incontrare il Signore: in mezzo alle preoccupazioni, ai viaggi faticosi, non perde mai il contatto con il divino. Muore a 59 anni il 24 giugno 1856. Pio XII la canonizza nel 1951.

Colei che fu salutata come la prima missionaria dell'Algeria nacque il 12-9-1797 a Gaillac (Tarn), nella diocesi di Albi (Francia), primogenita del barone Giacomo e di Antonietta, figlia del barone Portai, medico alla corte di Luigi XVIII e di Carlo X. Fino a sette anni Emilia fu allevata dalla madre, poi, non essendoci in paese scuole pubbliche, dovette frequentare per sei anni, come esterna, l'Istituto della Duberville, scritturata dèa della ragione durante la rivoluzione francese, e convertita a Dio nel corso di una missione predicata a Gaillac. La santa vi incontrò svariate pene.
In certe sue note intime, scritte per obbedienza al direttore spirituale, Don Bourgade, leggiamo difatti: "All'età di otto o nove anni, Dio m'ispirò di soffrire per Lui tutti i fastidi causati dalle persone che mi governavano".
A tredici anni Emilia fu condotta dalla madre a Parigi perché ricevesse presso le Canonichesse regolari di Nostra Signora, fondate da S. Pietro Fourier (+1640) per l'istruzione e l'educazione della gioventù, una formazione adeguata al suo stato. Anche là la santa ebbe da piangere perché vide morire la giovane mamma (1810). In quel tempo fu ammessa alla prima comunione: "Da quel momento – annotò – Dio cominciò ad attaccarsi al mio cuore. Io fui portata a correggermi dell'abitudine di mentire, che era il solo difetto che riconoscessi in me e che il timore di vedermi sgridata dai miei genitori mi aveva fatto contrarre. In seguito non ho mai odiato niente più della menzogna".
Dopo due anni di pensionato il babbo richiamò a casa la figlia perché si prendesse cura dei fratelli. In principio ella si sentì spinta a darsi a mortificazioni corporali, poi fu mossa ad immolare ad ogni istante la sua volontà al Signore. Senza venire meno ai suoi doveri, ogni mattina si alzava presto per recarsi in parrocchia ad ascoltare la Messa e fare tre volte la settimana la comunione, e tutte le sere vi ritornava di nascosto, per non irritare il padre collerico e brutale, ad adorare il SS. Sacramento. Durante la preghiera restava immobile, immersa in un profondo raccoglimento. Chi l'avvicinava si accorgeva che viveva alla presenza di Dio e che la sua esistenza era una continua preghiera. Si confessava ogni otto giorni, ma ella non esitava manifestare a chi la dirigeva i grandi fervori spirituali che il Signore le accordava perché non era creduta. Una volta, trovandosi in una casa di campagna e sola in camera, si era sentita investire da una grande luce dall'alto; un giorno fu direttamente chiamata a sperimentare la divina presenza; un pomeriggio, in chiesa, dalle tre alle quattro, vide il Signore disteso sull'altare, con le braccia in croce, il corpo piagato e il sangue che gli usciva dal petto squarciato.
Emilia conosceva in una maniera talmente chiara e convincente quello che il Signore voleva da lei da non poterne dubitare. In compenso si abbandonò completamente all'attrattiva che provava per le opere di carità. Nel corpo dei malati e dei poveri che soccorreva con generosità, ella vedeva sempre le anime. Dio le concesse di convertire parecchie peccatrici e di fare abiurare a diversi protestanti i loro errori. Nella casa paterna Emilia ebbe molto a soffrire da parte del padre, che viveva impigrito e rimesso alle mutevoli lune di una vecchia servente dispotica, gelosa e violenta. "Allora – scrive la santa – io feci la promessa a Dio che mi sarei impegnata a sopportare sempre, senza lamentarmi, le vessazioni che avrei incontrato nel mio ambiente".
Il barone era molto fiero di sua figlia, bella, intelligente e ricca; a più riprese le propose vantaggiosi matrimoni, ma Emilia li rifiutò con fermezza perché il Signore le aveva già fatto intendere che doveva evitare di piacere agli uomini rinunciando al lusso delle vesti, ai gioielli e ai ricevimenti. A diciotto anni, mentre pregava e faceva letture adatte per superare le proprie incertezze, Dio le disse formalmente: "Tra due anni conoscerai la vocazione". In seguito alla sottrazione di certe grazie spirituali, dovuta alle sue mancanze di carità, ella sentì il bisogno di rivolgersi al nuovo curato di Gaillac, e chiedergli il suo aiuto. Da quel momento la confessione cessò di essere per lei una sofferenza e poté crescere nell'amore di Dio e del prossimo perché Don Luigi Mercier le permise di accostarsi tutti i giorni alla mensa eucaristica.
Se non fosse stata frenata, Emilia si sarebbe privata dei suoi beni per soccorrere i poveri. Nel trascinare un giorno un sacco di grano da distribuire ai bisognosi contrasse un'ernia, che soffrì per tutta la vita senza lamentarsene benché rendesse più difficoltosi i suoi viaggi e l'esercizio delle opere di misericordia. Il padre non amava quella dedizione ai miseri. Un giorno la sorprese mentre portava una pignatta di brodo ad una famiglia povera. Gliela prese di mano e la scaraventò al suolo con sdegno. Per distoglierla dalla vita religiosa alla quale diceva di sentirsi inclinata una volta le gettò in faccia, a tavola, una caraffa di acqua. Neppure Don Luigi fu facile ad assecondarla benché fosse a conoscenza del voto di verginità da lei emesso a vent'anni. Confidò Emilia: "Credette suo dovere provarmi, e per lo spazio di un anno combatté le mie idee in tutti i modi possibili, ma questo suo atteggiamento non mi spaventò affatto".
Alla morte del nonno paterno (1832), Emilia, oramai trentacinquenne, capì che era giunta l'ora di fondare le Suore di San Giuseppe dell'Apparizione per il soccorso di tutte le miserie. Approfittò infatti dei 300.000 franchi che aveva ereditato per comperare due case attigue e organizzare in esse due scuole e un dispensario con l'aiuto di qualche sua amica e l'approvazione di Mons. Francesco de Gualy, vescovo di Albi. Per tutta la vita non avrebbe avuto altro fine che glorificare Iddio e fare del bene a tutti, specialmente nelle terre di missione. Il barone de Vialar ricevette ironiche congratulazioni per quella sua figlia fondatrice di una Congregazione che nella Chiesa avrebbe costituito come un ex-voto vivente e perpetuo del grande mistero dell'Incarnazione. Convinto che quell'opera fosse un disordine, ne attendeva melanconico il crollo, mentre Madre Emilia taceva, pregava e continuava a sovraspendersi, sospinta dalla grazia, per i rifiuti della società.
Dio benedisse l'iniziativa della santa. Mons. de Gualy il 20-2-1839 poté dichiararle: "Il successo meraviglioso della vostra Congregazione, successo che sembra avere del prodigioso, viene soprattutto dallo spirito di umiltà e di semplicità che l'anima. Essa non cerca affatto di comparire; non cerca nemmeno le opere: non le cerca e non le rifiuta. Attende i momenti della Provvidenza nella quale pone una confidenza piena e intera. Non si inorgoglisce ne si vanta affatto dei successi suoi, fa del bene in segreto e lascia ad altri il gusto di rendere pubbliche le affermazioni che Dio concede alle opere sue!".
Il Signore aveva concesso alla fondatrice di soddisfare la grande attrattiva che sentiva per le missioni dandole modo di stabilire il suo istituto ad Algeri. Suo fratello Agostino vi si era trasferito e aveva acquistato terre e fondato un ospedale. La sorella fu invitata ad assumerne la direzione. Vi giunse che imperversava il colera (1835). Con tre suore fu per tutti, cristiani, musulmani ed ebrei, un vero angelo consolatore. Per dare ai malati limonata ghiacciata ne fece venire dalla Francia a sue spese una quantità pari a 20.000 franchi. Non stupisce perciò che un arabo, incantato per la carità di madre Emilia, le dicesse additando il crocifisso che portava al collo: "È buono colui che ti fa fare queste cose!".
Avviata la sistemazione della sede algerina, la santa ritornò momentaneamente a Gaillac per scrivere in ginocchio davanti al tabernacolo le costituzioni della sua famiglia religiosa. Il padre non aveva voluto né rivederla, né riceverla. La figlia continuò ad amarlo lo stesso e ad assisterlo costituendo per lui un vitalizio. Ritornata ad Algeri aprì una casa a Bona e, con l'aiuto del primo vescovo dell'Algeria francese, Mons. Antonio Dupuch, un'altra a Costantina (1839). Il giovane prelato, però, era un ostinato gallicano e male sopportava che quelle Suore dipendessero dall'ordinario di Albi. Si rifiutò quindi di approvare la progettata casa di Orano se Madre Emilia non si sottometteva in tutto alle sue direttive, e non accettava le eventuali modifiche che lui avrebbe ritenuto opportuno introdurre nelle costituzioni. Questo equivaleva a spezzare in due la Congregazione, motivo per cui la santa gli si oppose energicamente. Turbata, ma non scossa, gli rispose: "Qualunque siano le disposizioni che vostra eccellenza vorrà prendere con me, benedirò sempre il Signore, e, se occorrerà, sono pronta a soffrire. Sicura che tutti abbiamo in cielo un padre e un giudice, confido pienamente in Lui". Il vescovo l'ammonì a considerarsi in stato di peccato grave, l'additò pubblicamente quale rea di empietà e di apostasia, minacciò la sospensione a quei sacerdoti che l'avessero, comunque, sostenuta e interdisse per molti mesi la cappella da lui stesso benedetta. Mons. de Gualy aveva consigliato Madre Emilia a cedere alla volontà del prepotente Ordinario, ma ella preferì recarsi a Roma (1840) per invocare l'arbitrato di Gregorio XVI. Le fu favorevole, e allora monsignore reagì sollecitando l'intervento del governo per la espulsione delle settanta Suore di San Giuseppe dell'Apparizione e la sostituzione con le Figlio della Carità.
Nel maggio 1842 in poche ore le comunità della Vialar furono sfrattate dalle terre, dalle opere e dalle case che erano venute su dal loro sangue e dal loro amore senza il promesso indennizzo delle ingenti spese che avevano dovuto sostenere per renderle efficienti. La madre strinse a sé le sue figlie e disse quieta: "Perché piangete? Questa non è che una prova.
Siamo forti: Gesù ha sofferto più di noi!". Si verificava alla lettera quanto la santa aveva scritto ad una sua religiosa il 3-2-1842: "Il Signore vuole trattarci come vere spose, facendoci seguire la via che ha tracciato lui stesso: quella delle tribolazioni e delle lotte. Egli vuole distinguere il nostro Istituto, stabilendolo sulle basi di una grande generosità verso di lui, e formare le nostre anime a questa sublime dedizione che non consiste soltanto a servirlo con gli esercizi della carità, ma a lavorare pure essendo perseguitate".
Non passò molto tempo che lo sventurato vescovo di Algeri dovette dimettersi (1846) per i gravi disordini di amministrazione e i debiti contratti senza possibilità di pagamento. Dall'esilio di Torino scrisse, pentito, a madre Emilia che avrebbe voluto cancellare con il sangue gli errori commessi. La santa ne distrusse la lettera di scuse, giustificandosi: "Non voglio che si possa dire che un vescovo si è abbassato davanti a me". Nella bufera, alla santa non era venuto meno il coraggio perché con l'aiuto di Don Bourgade, uno dei preti non graditi ad Algeri da Mons. Dupuch, era riuscita a stabilire le sue suore nelle scuole, nei dispensari e negli ospedali di Tunisi, Susa e Marsa. Poteva quindi scrivere a Mons. de Gualy: "Non so perché il Signore mi ha scelto fra tante altre assai più perfette di me. La ragione non può essere che questa: riconoscendo egli la mia profonda indegnità, tutta la gloria andrà e tornerà a Lui. Oh, come sono riconoscente e con quale ardore desidero lavorare, assieme alle mie suore, per l'edificazione degli infedeli in questo paese!".
Madre Emilia si sentiva moltiplicare le energie a contatto dei bisogni dell'umanità. La vista delle anime che si prendevano quotidianamente costituiva per lei il più crudele martirio. Era perciò continuamente in moto per visitare le case o fondarne delle nuove nel Lazio, nella Toscana, a Cipro e a Malta, senza curarsi delle chiacchiere, dei pettegolezzi che la dipingevano al nuovo arcivescovo di Albi, Mons. Eugenio de Jerphanion, come una viaggiatrice e un'ambiziosa. Bramava di fare delle sue religiose delle anime capaci di realizzare il loro motto: "Sacrificarsi e morire".
Benché molto sensibile e impressionabile, era padrona di sé, prudente, equilibrata. Sapeva attendere il momento opportuno per dare un avviso o fare un rimprovero senza offendere, dando così prova di grande capacità nella direzione della Congregazione. Ciò nonostante Iddio permise, per associarla più strettamente a sé nel suo viaggio al Calvario, che si scatenasse contro di lei un'altra burrasca che la condusse alla rovina.
Madre Emilia era stata accusata di incapacità amministrativa. Ebbe forse soltanto l'ingenuità di fidarsi troppo della sua sostituta in Gaillac, Suor Paolina Gineste, la quale, diventata vittima delle sue crescenti albagie, dopo che Don Luigi Mercier era morto, in combutta con un certo avvocato Molis e Don Farenc, aveva sottratto considerevoli somme dalla regolare amministrazione. Quando la santa vide che nulla era chiaro nel libro dei conti interrogò, consultò, cercò, ma le vennero nascosti persino dei documenti contabili. Fu allora che denunciò gli ammanchi al nuovo Ordinario, ma questi, dopo aver anch'egli interrogato e indagato sentenziò che la madre era stata troppo avventata nei suoi sospetti. Suor Paolina, infedele ai suoi voti, con alcune suore, si trasformò in accusatrice della superiora generale presso i tribunali. Undici processi ella dovette subire con sorti alterne. Economicamente rovinata, fu costretta ad abbandonare Gaillac che le era diventato un calvario e, per non lasciare mancare il pane quotidiano a quante seppero restarle fedeli, tese le mani vuote lei che era vissuta sempre colmando quelle degli altri.
L'accolse Tolosa nell'ottobre del 1847 dopo trattative che non furono senza lacrime. Poco prima aveva scritto a Don Bourgade, che invano le aveva suggerito di mettere per iscritto i favori spirituali ricevuti da Dio perché non servirono a convincere nessuno: "La mia povera anima si nutre sempre del pane delle prove; in un modo o in un altro è il mio pane di ogni giorno". Disposta a compiere la volontà di Dio a costo di tutte le sue ripugnanze, sapeva che la Provvidenza era impegnata ad assisterla. L'ardore della sua fiducia aumentava perciò in proporzione delle sue afflizioni.
Neppure Tolosa era la terra dell'approdo sicuro per Madre Emilia e le sue religiose. Per non accettare modifiche alle costituzioni, propostele dai nuovi superiori ecclesiastici, ella preferì rifugiarsi a La Capelette (Marsiglia), bene accolta dall'arcivescovo, il B. Carlo Gius. Eugenio de Mazenod (+1861), fondatore degli oblati di Maria SS. Immacolata. In 23 anni di governo la santa dischiuse in 42 città le case della sua carità. Altre ne avrebbe aperte se l'ernia, contratta in gioventù per amore dei poveri, non l'avesse in due giorni rapita all'affetto delle sue figlie spirituali il 24-8-1856. Nell'incertezza dell'avvenire esse salirono ad Ars, dal Santo Curato che leggeva nel futuro. "Sorelle – disse loro – state tranquille, siate forti tutte! Un giorno la vostra fondatrice salirà agli onori degli altari".
Pio XII la beatificò il 18-6-1939 e la canonizzò il 24-6-1951. Le sue reliquie sono venerate a La Capelette.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 8, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 270-275
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