La vita religiosa dei non musulmani in terra d’Islam

dal cap. IV di Giovanni Cantoni, Aspetti in ombra della legge sociale dell’islam. Per una critica della vulgata “islamicamente corretta”, con una Prefazione di Samir Khalil Samir S.J., Centro Studi “A. Cammarata”, S. Cataldo [Cl] 2000)…

2. La vita religiosa dei non musulmani in terra d’Islam


Quanto alla vita religiosa dei non musulmani in terra d’Islam, nella sura II, «Al-Baqara» (La Giovenca), versetti 190-193, del Corano si legge: «Combattete per la causa di Allah contro coloro che vi combattono, ma senza eccessi, ché Allah non ama coloro che eccedono.
«Uccideteli ovunque li incontriate, e scacciateli da dove vi hanno scacciati: la persecuzione è peggiore dell’omicidio. Ma non attaccateli vicino alla Santa Moschea, fino a che essi non vi abbiano aggredito. Se vi assalgono, uccideteli. Questa è la ricompensa dei miscredenti. Se però cessano, allora Allah è perdonatore, misericordioso.
«Combatteteli finché non ci sia più persecuzione e il culto sia [reso solo] ad Allah. Se desistono non ci sia ostilità, a parte contro coloro che prevaricano»
.


Perciò, proseguendo nell’elencazione e nell’esame delle difficoltà dopo quella costituita dallo statuto di dhimmi, padre Jomier scrive: «Il secondo punto è quello della costruzione delle chiese. Nel 1972, vi furono scontri in Egitto tra copti e musulmani» (15) appunto in relazione agli edifici di culto; padre Borrmans si esprime però in termini meno circostanziati, cioè va oltre i rapporti fra copti e musulmani, e più generalmente afferma: «[…] costruire una nuova chiesa si ritiene, in tale contesto, una cosa quasi impossibile» (16). E questa quasi completa impossibilità di costruire nuovi edifici di culto costituisce rappresentazione emblematica, versione per così dire «fisica», «architettonica», dell’impossibililità di svolgere apostolato, di essere missionari, dunque di tentare l’implantatio Ecclesiae, la «costruzione della Chiesa». Come logica conseguenza, uno degli esiti maggiori di quest’ultima impossibiltà è costituito dall’etnicizzazione del fatto religioso: per esempio, l’«essere cristiano perché libanese», un’affermazione che ha suscitato e continua a suscitare «scandalo» fra i soggetti dotati di «pie orecchie», ma della quale raramente ci si è sforzati e ci si sforza d’identificare la causa. Ebbene, poiché nel mondo islamico è impossibile proporre, e perciò eventualmente accettare, un «padre secondo lo spirito», cioè riconoscersi «figli di Dio»; ancora, proporre, e perciò eventualmente accettare, una dipendenza da Dio secondo una prospettiva diversa da quella appunto islamica, l’unica paternità possibile, l’unica relazione possibile con Dio coincide, e rimane, quella ricevuta «secondo la carne». Quindi, non solo si nasce appartenti a una religione, ricevendola come dono dai genitori, da coloro che danno la vita fisica, ma in tale religione si deve vivere, certamente con la possibilità di crescere e di maturare in essa, cioè con la possibilità che — per dirla con linguaggio cristiano, anche se spesso abusato — la fede possa divenire «adulta» dopo esser stata vagliata attraverso l’attività critica del pensiero (17); senza però che tale crescita e tale maturazione possano avere, in modo tematico, un esito giuridicamente rilevante, perciò non solo vivibile ma con sbocco missionario, diverso da quello previsto dal regime religioso vigente: infatti, viene concessa un’unica possibiltà di crescita e di maturazione, quindi di cambiamento, che è quella di diventare musulmani.


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