La proprietà secondaria e le manimorte.

Di p. L. Taparelli d'A. S.J. . 1. Questa nasce dall'uso della primitiva – 2. operante nel soprabbondante – 3. Legittimità e inviolabilità della secondaria – 4. Ingiustizia dei violatori – 5. Eterodossi, – 6. secondo i quali lo Stato è unico proprietario – 7. La proprietà può crescere indefinitamente? – 8. Sì; 1° perché l'uomo è destinato a propagarsi, – 9. 2° perché la carità vuole il bene di tutti, – 10. 3° perché l'ampiezza delle ricchezze ridonda in bene comune, – 11. quando il ricco è in coscienza piuttosto depositario che proprietario. – 12. Il diritto di estendere le proprietà essendo naturale – 13. appartiene anche ai corpi morali, – 14. anche alla Chiesa, -15. anche ai Comuni; – 16. purché si consulti la giustizia e non l'interesse – 17. Epilogo.

LA PROPRIETÀ SECONDARIA E LE MANIMORTE
«La Civiltà Cattolica», 1857, a. 8, Serie III, vol. VI, pp. 641-658

SOMMARIO
1. Questa nasce dall'uso della primitiva – 2. operante nel soprabbondante – 3. Legittimità e inviolabilità della secondaria – 4. Ingiustizia dei violatori – 5. Eterodossi, – 6. secondo i quali lo Stato è unico proprietario – 7. La proprietà può crescere indefinitamente? – 8. Sì; 1° perché l'uomo è destinato a propagarsi, – 9. 2° perché la carità vuole il bene di tutti, – 10. 3° perché l'ampiezza delle ricchezze ridonda in bene comune, – 11. quando il ricco è in coscienza piuttosto depositario che proprietario. – 12. Il diritto di estendere le proprietà essendo naturale – 13. appartiene anche ai corpi morali, – 14. anche alla Chiesa, -15. anche ai Comuni; – 16. purché si consulti la giustizia e non l'interesse – 17. Epilogo.

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1. Dalla natura dell'uomo e delle cose abbiam veduto sgorgare il diritto di proprietà mobile e stabile. Diamo ora un'altra occhiata a codeste due nature a fine di comprendere in qual modo il naturale discorso abbia condotto gli uomini tutti a rispettare quella che può dirsi proprietà derivativa o secondaria, in quanto risultato dall'uso della proprietà primitiva.

2. Non è chi non sappia quanto sia incerta la corrispondenza delle cose naturali all'opera dell'uomo. Egli semina e pianta; ma come sa se e quanto gli corrisponderà la raccolta? Scava per trovare una polla, per seguire la vena d'una miniera; ma la miniera si sperde, la polla non s'incontra: sperava nel bestiame, ma l'alidore gli dissecca i prati, l'epizoozia gli diserta l'ovile. Qual rimedio in tali incertezze? Il buon massaio per assicurar dieci, si sforzerà di produrre in ragione di venti.
Ma accade anche il contrario: una fecondità inaspettata, la scoperta di una nuova industria, di una polla o di una miniera non ricercate, oltrepassando l'espettazione del provvido amministratore, gli somministra quei frutti che egli non osava sperare. Sicché per la natura delle cose può all'uomo or mancare il necessario, or soprabbondare il superfluo.
Ed altrettanto avviene per la natura delle facoltà umane; le quali se ad un'opera sola costantemente s'impieghino, vi acquistano tal desterità, che ne traggono sproporzionatamente maggiore della fatica il vantaggio. È dunque nella natura dell'uomo e delle cose, che nelle mani di un operaio diligente si accumuli talora una derrata, oltre ogni sua espettazione e bisogno.
Posto l'uomo in tale soprabbondanza, frutto delle sue fatiche o più abili o più fortunate, e però sua proprietà, destinata a consumarsi in suo vantaggio; qual uso dovrà egli fare di ciò che gli sopravvanza? Poiché il suo destino qui in terra è di usare le forze per conservarsi e promuoversi verso la sua morale perfezione, egli vi sarà indotto naturalmente o a permutare le derrate superflue con le necessarie, di che penuria, e così darà sostentamento al corpo; o ad usarle in opere di virtù, e così crescerà in perfezione morale. Nell'un caso e nell'altro egli procaccia per sè un vantaggio cedendo ad altrui una parte di quello che colle sue fatiche avea accumulato; la quale, trapassando nel dominio altrui, tornano però veramente in vantaggio del padrone, qualunque sia l'emolumento o materiale o morale, con cui vengono contraccambiate. Ottenga egli col cedere la sua proprietà il contraccambio di agiatezze diverse; ottenga il compimento di un dovere, quale sarebbe, esempligrazia, in un padre l'educazione dei figli; ottenga la soddisfazione di un sentimento onesto e lodevole, qual sarebbe la compassione verso gl'infelici; sempre è vero che le fatiche sue tornano in pro di chi le adoperava, e che salva è la legge di natura: «Chi lavora, per sè lavora». Frattanto peraltro la materia lavorata dall'uno va passando e disperdendosi in mille mani legittimamente, e cessa per conseguenza dal gridare al primo padrone, da cui come ebbe la prima esistenza, ricevette anche legittimamente il congedo.

3. Non istaremo qui a spiegare le mille forme che può prendere per tal via la permutazione delle proprietà; giacché queste forme poco montano al nostro soggetto. Ciò che a noi premeva era il far comprendere la legittimità di quel passaggio o trasformazione che dir vogliate, pel quale la materia in cui s'incarnarono, per dir così, le fatiche di chi primo la lavorò, può mediante la permutazione rappresentare le fatiche del secondo, del terzo, del centesimo, del millesimo possessore, i quali tutti consentirono a permutare le proprie fatiche, o per dir meglio, il prodotto a cui esse andavano congiunte col prodotto delle fatiche del primo. La legittimità e l'inviolabilità del possesso che risulta da tal permutazione è importante a ben comprendersi, per mantenere santa e inviolabile al pari della primitiva, la proprietà derivata. Se questa altro non è che l'uso legittimo fatto dal primo produttore delle proprie fatiche, privarne il padrone secondario, quand'anche non fosse ingiuria a lui che acquistò, sarebbe ingiuria a quel primo che delle proprie fatiche dispose in un modo qualunque in pro dei successivi padroni.

4. Di che apparisce quanto sia tirannico il procedere di certi governanti che spogliano liberamente e liberalmente chiese, corporazioni, ospizii, ove i fedeli aveano deposto il prezzo dei loro sudori. Che cosa aveano eglino inteso con tale deposito? Volevano perpetuare l'uso delle loro fatiche in qualche opera di pietà o verso Dio o verso i prossimi; volevano in certa guisa (vedete nobilissima idea suggerita da una Religione che, eterna in sè, comunica ai suoi seguaci una quasi eternità, abbeverandoli alle sue fonti di vita immortale: medicamentum vitae et immortalitatis!); volevano, diciamo, in certa guisa sopravvivere a sè stessi per continuare in questo mondo l'augusta missione dell'uomo morale, glorificare Dio e giovare il suo prossimo. A tale uopo avean compresa la necessità di un amministratore fedele ed immortale; e un fedele si è rivolto alla Chiesa; cui le divine promesse assicurano immortalità e santità, l'altro avea scelto in questa Chiesa medesima un Prelato che mai non può mancare, un Ordine di religiosi in cui sperava durevole il fervore e inviolabile pel voto di povertà il deposito della roba altrui; un terzo, associatosi sotto certe leggi provvide in sè e autenticate dal suggello della Religione, coi più cari e pietosi tra i suoi concittadini, a questi avea commesso il frutto delle sue fatiche, bramoso di perpetuare per le loro mani quell'omaggio ch'egli avea reso in vita all'eterno Signore. E il generoso intendimento, sotto la schiavitù dei Governi assoluti, avea valichi inviolato più secoli senza che si osasse pur mettere in dubbio la riverenza dovuta al diritto di quel proprietario: Per sua disgrazia, figlia legittima della libertà eterodossa nacque un bel dì la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino; e il primo suo grido fu di farci sapere che LA PROPRIETÀ È INVIOLABILE; e però volendosi che tal legge non sia lettera morta, si eleggeranno a guarentirne l'eseguimento i Deputati della nazione. Da tali guarentigie libera nos, Domine, dovettero gridare dalla loro sepoltura le ossa di quei proprietarii, sulle quali era scesa fino a quel giorno la rugiada di mille benedizioni dal cuore di quei mille infelici, la cui sventura, loro mercè, trovava conforto: e quei benefattori delusi ne avean ben donde. Pubblicata appena l'inviolabilità novella, parve traballare sulle sue basi ogni diritto di proprietà gettato in balìa delle pluralità, ossia della Forza. Dalla prima vendita dei beni nazionali in Francia, fino alla rabbiosa desamortiçacion, che finì poc'anzi di ringhiare in Ispagna sentendosi strappar dalle zanne la preda ghermita; che altro fecero tutti i Governi di codesta risma, che altro stanno tentando oggi medesimo i libertini del Belgio, se non gridare ai benefattori dell'umanità?: «A noi quei sudori che spargeste per l'onore del tempio, pel sollievo degli sventurati: a noi non è sacra né la volontà dei morti, né il pianto dei vivi, né la religione del popolo: le fatiche del cittadino son fatiche dello Stato; tocca allo Stato il disporne.» Tal fu il risultamento di quella PROPRIETÀ DICHIARATA INVIOLABILE da uno STATO insaziabilmente famelico; e serva questo di un novello esempio aggiunto ai precedenti, per confermare vie meglio quanto sia pericoloso il volere governare col supremo principio degl'interessi di tutta la comunità quel diritto di proprietà, cui la natura ha ordinato primitivamente secondo gli uomini come individui.

5. Codesto despotismo che abbiam censurato, principalmente con allusione alle nobili imprese compiute poc'anzi nel paese modello del­l'Italia libera; non è già opera precisamente di quelle forme politiche; è opera del principio eterodosso che in quelle è presente­mente attuato: e infatti appena torna in Ispagna a spirare un'aura cattolica, la riverenza al diritto torna a rianimare le speranze dei Comuni, dei poveri, della Chiesa. E nel Belgio, vedete come le influ­enze cattoliche vanno dibattendosi contro il demonio sterminatore, per restituire la libera disposizione ai proprietarii, e una qualche consistenza alle istituzioni sostentatrici del povero, mediante la legge proposta per lasciar libera la carità dei Cattolici (1). E contro chi si dibattono? Contro quelle logge massoniche che vogliono dare ai libertini il diritto d'incatenare, di menomare, di frustrare la libertà dei proprietarii. Né solo nei Governi costituzionali, ma anche nei Governi più assoluti; quando il soffio desolatore dei d'Ormea, dei Kaunits, dei Tanucci, dei Du Tillot vi soffiò l'eterodossia, vacillò quivi pure la proprietà; e se non franò repente con tanto scroscio, venne diroccata a pietra a pietra, invadendosi insensibilmente dallo Stato le antiche istituzioni della volontà cittadina con la famosa abolizione delle manimorte; abolizione che per un'antifrasi curiosa venne pubblicata in nome della proprietà liberata. «Cittadini, gridò con quelle leggi l'eterodossia del Ministro, la proprietà finora fu schiava, giacché voi foste liberi finora a perpetuare dopo morte le volontà vostre nell'uso delle vostre fatiche, nell'eredità dei vostri sudori: quinci appresso vi concediamo la libertà d'impiegare le vostre forze per quell'uso che a noi piacerà determinarne dopo la vostra morte. Viva la libertà»! Tal fu in sostanza il concetto eterodosso dei giannoniani nel sopprimere la manomorta e nell'incatenare la benefi­cenza cattolica: era, come vedete, il preludio del comunismo moderatosi prudentemente ad appropriarsi soltanto i sudori dei defonti, i beni della Chiesa, e qua e colà qualche diritto dei Comuni alla spicciolata. Oggi il Progresso gli ha tolto la maschera, e in nome della proprietà libera gli ha conceduto franchigia a gridare altamente «La proprietà è furto: la proprieté c'est le vol»

6. Ma tanto è! quando si è perduta la prima idea della santità di quel diritto, quando la persona è diventata strumento dello Stato, invece di trovare nello Stato una tutela ai diritti della persona; quando insomma si è perduta quella libertà qua Christus nos liberavit, per tornare alla pagana indipendenza dell'Eritis sicut dii; allora questi dii innumerevoli, tutti schiavi delle loro passioni ed arbitri delle loro ragioni e delle loro volontà, se non hanno a mandare a soqquadro l'universo, abbisognano di un Giove, di un Fato, che ne governi inesorabilmente le braccia; e il Giove del paganesimo moderno è lo Stato, al cui centralismo servono, vogliano o non voglia­no, le braccia di tutti i cittadini: e così serviranno da schiavi, finché non tornino a quel Liberatore che solo potè stabilire la vera libertà delle persone (2), perché solo ne conosce l'altissima dignità e l'ultimo fine, solo parla con tale autorità, da persuadere le ragioni ed obbligare le volontà, solo per conseguenza può intimar guerra alle passioni con la certezza d'imbrigliarle, e di ottenere riverenza al diritto.

7. Le stesse ragioni, colle quali abbiam dimostrato legittima la proprietà di occupazione e di permutazione, possono dimostrare legitti­ma l'estensione della proprietà, solo che se ne consideri tutto il sistema, guardandosi dalla grettezza delle teoriche parziali. Conciossiaché se appoggiandosi a qualcuna soltanto delle ragioni addotte si pretendesse dividerla dalle altre e per conseguenza dalla integrità della umana e della universale natura, così potrebbe sofisticare un comunista: «Il diritto ad appropriarsi le cose materiali nasce nell'uomo dal debito di operare, e dalla necessità di sostentarsi. Ora, quando l'uomo ha il sufficiente vitto e vestito e albergo e strumenti; egli ha tutto ciò che la sua natura domanda per sostentarsi ed operare. Dunque più non gli compete il diritto di estendere la sua ricchezza acquistando proprietà novelle». Così potrebbe ragionare il comunista; e più d'uno forse crederebbe che costui si conformasse in tal discorso non solo alle leggi di natura, ma perfino alla perfezione del Vangelo; secondo la quale habentes alimenta et quibus tegamur, his contenti simus. Ma per poco che altri si arldentri nella piena contemplazione del tutto, scorgerà ben presto quanto sieno anguste le vedute di chi così la discorre.

8. E in primo luogo chi non vede avere costui dimenticato ciò che nessuno ignora, non essere cioè compiuta l'idea della umanità fuori della famiglia, fuor della quale l'uomo perde quella quasi immortalità successiva, da cui dipende il perpetuarsi sopra questa terra l'in­no di lode, per cui fu creato l'universo? Aggiunta poi all'uomo indi­viduo l'idea di famiglia, naturalmente richiesta e dal fine con cui il Creatore lo trasse dal nulla e dal doppio sesso in cui formò la specie; aggiuntavi la moltiplicazione dei fìgli, i pericoli delle infermità e la preveggenza di altri bisogni eventuali, vedrete tosto eccitarsi da codesti elementi la mente del padre a lanciarsi provvida negli an­ni avvenire, e ripercossa sul presente che fugge chiederne un sussidio durevole al par della vita, ed esteso al par della famiglia e dei bisogni. E poiché la famiglia ben può abbisognare dell'aiuto di servi e coloni, ecco nuova ragione ad estendere la provvidenza e gli averi non più solo pei figli, ma ancora pei famigli.
– Ma perché codesti famigli? domanderà taluno; perché non valersi delle braccia sue e dei figli alla coltura dei campi e al servigio domestico?
E perchè, replicheremo noi, perché la Provvidenza creatrice ha ella dato a quel capo di casa una testa capace di governare molte braccia, negando intanto a molte di queste braccia la capacità della propria testa? Perché ha ella formata la terra in modo che con una cultura vasta e benintesa raddoppiasse i suoi frutti? Se tali furono creati e gli uomini e le cose o fu sbaglio del Creatore che non vide le conseguenze dell'opera sua; o fu disegno premeditato, per cui nel creare l'opera ne previde e ne volle le conseguenze; volle che molte braccia robuste, ma improvvide od inesperte, servissero ad una testa esperta e provvida, ma mal servita da vigor di braccio; volle che la terra, al pari d'ogni altro elemento, invitasse gli uomini a consociare braccio e pensiero ed affetto invece di spicciolarsi isolati nei deserti.

9. Dal quale concetto di associazione non germoglia soltanto l'idea di famiglia, come ben sanno i nostri lettori dopo il tanto che abbiamo detto intorno alle origini e agli svolgimenti della società pubblica e della internazionale. Se codesti svolgimenti erano voluti dal Creatore; se la suprema legge di ogni svolgimento sociale è l'amore; se l'amore porta a volere efficacemente il bene di tutti, e a procacciarlo fin dove si estendono le forze; come pretendereste voi vietare ad una testa capace di guidare mille braccia il mettere codesta sua capacità a servigio del pubblico, e supplite in tal guisa a quelle cin­quecento teste, di cui son prive le mille braccia? Se il rendersi in tal guisa quasi servo e puntello della società moltiplicandovi i mezzi di sussistenza con ampia e bene intesa coltivazione, può essere atto di carità cittadina; qual diritto può aversi, o qual legge può trovarsi in natura per vietare sì nobile impresa? L'assurdità di tale pretensione apparirà anche più evidente trasportandola in un altr'ordine di sovvenimento sociale. Che direste voi se qualcuno vedendo un valoroso capitano fattosi campione della patria pericolante, ordinare, muovere in battaglia migliaia dei suoi concittadini: Olà, gridasse, è contro natura che un uomo solo ordini tante migliaia di braccia? Natura gli diede i suoi figli, i nepoti, i pronepoti; questi gli bastino, e non pretenda prevalere con sì sterminata potenza. Che direste di tal rimprovero? Rispondereste esser gran pregio, gran merito di certi uomini singolari il mettere la loro testa e la loro spada a servigio della pa­tria, per sicurezza di tutti i concittadini: Or che altro fa nel concetto cristiano il possessore di ampie terre, se non preparare sostentamento a numerose moltitudini? e con qual diritto potrebbe vietarsegli l'apprestare alla società un tale sussidio?

10. Questo divieto sapete voi dove trovasi? Si trova nelle zanne affamate della cupidigia, e nella superba ostentazione del lusso. Oh sì pur troppo! la cupidigia che non guarda al fine di sostentarsi, ma al diletto del possedere, non sa comprendere il disuguale ripartimento dei doni di provvidenza, e invidia agli abbienti e smania di strappare loro gli averi. A giustificare poi le smanie di codesta pas­sione contribuisce non poco lo sfarzo e la spietatezza di quei ricchi che si credono beati del possedere per sè e sdebitati di ogni riguardo ad altrui.
Per costoro il possedere assai non ridonda in bene altrui, essendo anzi prontissimi ad ogni spietatezza purché giovi alla borsa (3). Lo vedete: posto il domma fondamentale dell'utilismo eterodosso, è chiaro che l'estensione delle proprietà sarà sempre nella società eterodossa un problema insolubile, o piuttosto un pomo di discordia avventato nel banchetto sociale. S'ingegni pure il Thiers con tutta l'acutezza del suo ingegno a difendere in tal materia i diritti del proprietario, mai non riuscirà che a calcoli inconcludenti di un'astratta utilità. Leggetelo infatti nell'opera citata (lihro I, ca­po VII) ove risponde appunto all'obbiezione dei comunisti da noi testè proposta, e lo vedrete così ragionare. «Le disuguaglianze sono necessarie, perché la proprietà dia tutti i suoi effetti migliori e più fecondi. Dunque dobbiam rassegnarci alla proprietà estesa ed ereditaria, ancorché essa favorisca l'ozio ed i vizii nei ricchi». E quali sono codesti effetti che la proprietà dee produrre? Essi vengono numerati nei capi seguenti: Se voi mi concedete i godimenti fisici, dovete concedermi. anche i godimenti morali: così discorre nel capo VIII. Se volete che io giovi alla società lavorando assiduamente, dovete concedermi che io trasmetta ai figli il mio retag­gio: così nel capo IX e X. Se volete che il popolo un giorno mangi a crepapancia, che vesta di merinos, che viaggi sopra cavalli arabi, abbiate un po' di pazienza, e permettete per adesso ai ricchi di sfog­giare in lusso ozioso, aspettando fra i vostri cenci quell'epoca di felicità immaginaria: Souffrez donc ces accumulations des richesses, placées dans les hautes régions de la société, comme les eaux, qui destinées à fertiliser le globe, avant de se répandre dans les campagnes, en fleuves, rivières, ou ruisseaux, restent, quelque temps suspendues en vastes lacs au sommet des plus hautes montagnes (capo XI). Credete voi che il popolo si appagherà di codeste ragioni, e si contenterà di vestir cenci e mangiar patate per la magra speranza che fra tre o quattro secoli i suoi pronipoti vestiranno merinos e mangeranno fagiani? Se l'utilità debb'essere il motore della società, ella spinge necessariamente ogni individuo al godimento individuale: e che che voi gli diciate del vantaggio pubblico, questo mai non avrà forza sul popolano, finché costui non ne gode egli pure la sua parte.
Ma all'idea utilitaria sostituite il concetto di un Dio Creatore e Ordinatore di tutto il genere umano; e udrete tosto suonare alto le voci della Religione, che condannerà lo sfarzo lussureggiante del ricco Epulone, alla cui porta sta mendicando agonizzante il Lazzaro famelico. Molto più poi nell'agape cattolica, ove la giusta idea del fine compresa ugualmente dal povero e dal ricco, assicura al primo quell'alimento che non è negato dal Padre celeste al menomo dei volatili, e trasforma il secondo in un pubblico amministratore e depositario di beni comuni. Tal è l'idea che del proprietario ispira il Cattolicismo, perfezione anche qui della vera filosofia; e così potessimo trascrivere qui stesamente la spiegazione che di questa nobile e socievolissima dottrina danno ai fedeli non pur gli antichi Padri, ma i più robusti e zelanti predicatori del Cattolicismo (4).
Ma poiché chi legge un Periodico preferisce trovare in queste carte i concetti della vita civile, anziché i suggerimenti dell'ascetica, leggete almeno il bell'articolo sottoscritto DE LA TOUR nell'Univers del 18 Giugno 1850. Lo udrete da buon Cattolico qual egli è, esortare i bene agiati o nobili a ricordarsi qual sia stato l'intento divino nell'arricchirli ed esaltarli. Incominciate, dice, dal far bene gl'interessi della vostra famiglia, sia coltivando le vostre terre, sia associandovi alle imprese industriali, sia armando navigli al commercio, colla mira sempre di cooperare in simili intraprese allo zelo cattolico che in esse può trovare molto aiuto. Giunto così a una sufficiente agiatezza, accettate ed esercitate gratuitamente, e con la prudenza e liberalità d'un padre di famiglia, gli ufficii mu­nicipali, sopportando le tante noie ed opposizioni, a fronte delle quali tanti animi deboli si arrendono, abbandonando il municipio ad amministratori incapaci e interessati. Siete chiamato da Dio al clero? Qual più bel sacrifizio di sè medesimo può fare a bene della società un uomo ricco, un uomo illustre? Pur troppo sono rari ormai nelle grandi famiglie quei coraggiosi che sappiano consecrarsi per ben del pubblico alle privazioni e, al vitupero, ond'è abbeverato il sacerdozio. Preferite la carriera dell'armi? Anche qui qual bella prova può fare lo spirito cattolico; sostenendo a spada tratta la giustizia e la Religione contro gli assalti della demagogia e dell'empietà con quella indipendenza che le ricchezze procacciano! Mille carriere sono aperte, ove il lavoro non manca, confacente anche alle condizioni più agiate, alle famiglie più nobili. Tutto sta che ognun si persuada, non darsi ricompense eterne ad una vita oziosa: tutto sta che ricordisi vana esser la speranza, se il Giudice eterno non vedrà trafficate in vantaggio della carità quelle ricchezze che vi affidava in deposito». Così la discorre quel valoroso e cattolico ingegno: e con tal dottrina qual difficoltà può trovarsi nell'ammettere (salvo sempre ogni riguardo di giustizia è d'equità) la legittimità di un aumento indefinito di proprietà or mobili or permanenti? E che ha che fare in tal materia il testo dell'Aposto­lo: Alimenta et quibus tegamur? Se questo volea bastasse per noi, vietava egli che vi fosse un superfluo da dispensarsi secondo il precetto evangelico in bene dei poveri?

11. Noi tocchiamo qui una questione agitata oggidì caldamente dagli economisti con grande varietà e di argomenti e di fortuna; la quistione cioè della grande e della picciola proprietà, sulla quale avremo poscia a tornar di proposito. Adesso peraltro noi non abbiamo il menomo riguardo alle teorie economiche, né esaminiamo se la grande o la piccola proprietà, se la grande o la picciola cul­tura favoriscano meglio l'aumento delle riéchezze: ma tocchiamo soltanto la quistione sociale e giuridica; procurando di mostrare che l'estensione della proprietà anche stabile nulla ha di contrario alle leggi di natura, purché non vogliasi coll'ampiezza dei territorii e dei capitali sdebitare il gran proprietario dai doveri di carità e di giustizia impostigli dalla natura, e ribaditi e fatti eseguibili dalla religione; senza la quale intendiamo purtroppo essere moralmente impossibile e che il povero si rassegni all'umiltà di sua dipendenza, e che il ricco assuma sinceramente la funzione di amministratore. E la ragione di tale impossibilità sapete qual è? È, dopo il principio utilitario, quello spirito rigidamente giuridico, che altrove mostrammo essere proprio della società eterodossa, ove ogni speranza di bene sta per ciascun privato nella efficacia, con cui saprà far valere il proprio diritto contrastatogli perpetuamente dalla sospettosa renitenza e dalla cupidigia altrui. In una società cosiffatta se si ammettesse il principio, che il povero ha diritto all'elemosina, e il ricco non è che un amministratore, chi non vede come il comunismo ad un tratto ergerebbesi in accusatore dei ricchi, e l'aristocrazia sarebbe costretta a incatenarlo nella schiavitù? chi non vede che il povero starebbe perpetuamente (come stanno appunto i comunisti) in atto di rivedere i conti al suo ammistratore noverando quanti bocconi mangia il ricco, quante stanze occupa, quanti cavalli ha nella stalla, quante ore passa allo scrittoio, quante nel caffè o al teatro? Ma nella società cattolica ove l'osservanza dei diritti è confidata perpetuamente alle coscienze altrui, e l'adempimento dei doveri alla propria; ben può il ricco tenere sé come amministra­tore, senza tema che il povero sorga à svaligiarlo; ben può il po­vero aspettar dai ricchi volontario il sussidio, senza tema d'avere a morire di fame. In una tale società la vastità dei latifondi nulla ha che disdica alla giustizia della Provvidenza, come non le disdice l'a­ver voluto che uno comandi e le miriadi obbediscano, uno insegni e le centinaia imparino; giacché e il comando e l'obbedienza, e la proprietà e il lavoro , e la dottrina e la docilità sono, rispetto alla società, indirizzati al bene comune; rispetto all'individuo, sono funzioni precarie e comparse momentanee conducenti tutte egualmente al possesso del bene infinito.

12. Tolta poi questa pretesa ingiustizia della disuguaglianza di condizione fra gli uomini, rivive in tutto il suo vigore il diritto che ha ciascuno di produrre secondo le forze, di possedere il prodotto, e di usarlo onestamente, prima pel vantaggio proprio e poi per l'altrui. E il voler mettere un argine a tali onesti incrementi apparisce invasione tirannica del naturale diritto di proprietà, il quale secondo natura potendo sempre distendersi a produrre maggiori vantaggi anche morali, non incontra altro limite che la scarsezza delle proprie forze, o l'opposizione di qualche diritto certo e reale che gli contenda la via.

13. Nel che, a dir vero, se tu eccettui i comunisti ed i socialisti, accaniti a volere accomunare le proprietà, tutti gli altri pubblicisti sogliono essere generalmente concordi quando trattasi delle persone private; né sentono il menomo ribrezzo quando veggono l'immensa disuguaglianza che passa fra il lord aristocratico che gavazza nel convito, e il proletario famelico che languisce alla sua porta. Un solo eccesso muove i loro timori e le loro sollecitudini, ed è l'eccesso dei beni di manomorta, nei quali veggono pericolare ogni bene della società. Perocchè, dicono, i beni acquistati da una corporazione vi s'inchiodano immobilmente, ed usciti così dall'avvicendamento di proprietarii (o come dicono dalla circolazione), cessano quasi di essere fruttiferi per la società. E questo argomento, che sulle prime fu diretto principalmente a spogliare la Chiesa, ot­tenne poscia una efficacia più estesa coll'applicarsi a tutti i beni dei Comuni e d'ogni maniera di corporazioni anche laicali.

14. Ora quali sono i principii eterodossi donde acquistò vigore e credito codesta dottrina? Dovremmo porre in primo luogo l'odio contro la Chiesa, che si voleva spogliare non tanto per invaderne le ricchezze, quanto per abolirne ogni influenza sociale. Ma questa che fu la principal ragione del fatto, non compariva come il primo argomento della teorica. La teorica per gli economisti moveva da quei due principii già confutati: 1° La proprietà dee governarsi non secondo l'interesse dei privati, ma secondo il bene pubblico: 2° Il ben pubblico è non già di assicurare a ciascuno il libero uso dei suoi diritti, ma l'arricchire quanto è possibile il tesoro dello Stato. Considerata la proprietà sotto tale aspetto, il territorio diviene una cascina del Governo e il popolo la sua mandra; da cui quanto più può tosarsi e spremersi, salva l'integrità del capitale, tanto più savio e industrioso apparisce l'amministratore. Con tali principii la condanna delle manimorte era conseguenza naturale. Se riguardava la manomorta nei beni di Chiesa, l'economista così ragionava: «Un uomo di Chiesa non esercita il traffico, e però non produce cospicui guadagni: si occupa di funzioni spirituali, e però non farà miracoli in agricoltura: bada più alla carità verso gli altri che alla giustizia dovuta a sè, e però si lascia roder vivo da coloni, da mezzaiuoli, da piggionali. Il ben di Chiesa poi, non essendo proprietà privata, mai non passa ad altre mani e sfugge alle imposte di suc­cessione. Vedete quante perdite per la ricchezza dello Stato! A che dunque lasciargli nelle mani codeste terre che in mano dei privati renderebbero il doppio e aumenterebbero la ricchezza pubblica»? Lo vedete, lettore; si misura il diritto di proprietà dal vantaggio che può sperarne l'erario, non dal fine che gli ha prescritto la natura.

15. Dite altrettanto dei beni comunali: quei boschi ove ogni famigliuola poteva far legna, quelle prata che le davano il comodo di nutricar la sua vacca, quei molini, quei forni pubblici ben potevano giovare alla mediocre agiatezza di tanti che ora muoion di fame; ma difficilmente erano fondi ridotti a tal finezza di coltura, che lo Stato ne potesse riscuotere ciò che riscuote dai privati. Si aboliscano dunque codesti diritti comuni (come i Clan della Sun­terland) e si ripartiscano le terre fra pochi possidenti.
Anche qui, come vedete, l'odio delle manimorte originavasi dagl'interessi del fisco: lo Stato ha bisogno; si spoglino i proprietarii. L'argomento, a dir vero, avrebbe tal portata da smantellare ogni privata proprietà e trasferirci d'un tratto nel regno del comunismo. Ma il salto era mortale e gli animi mal preparati. Aspettando dunque un Proudhon o un Cabet che deponessero la maschera e intonassero ad alta voce gl'inni al popolo sovrano, parve più prudente artigliare quei proprietarii che non avevano labbro da gridare un ahi!; e tali erano appunto i Comuni, allorchè, corrotto già il principio morale e deposti gli scrupoli della onoratezza, gli amministratori stessi cooperavano volenterosi allo spogliamento col­la fiducia di participare al bottino.

16. Se invece di camminare col principio dell'interesse di Stato, ci fosse piantata irremovibilmente qual legge suprema la riverenza al diritto di proprietà, gli economisti avrebbero ceduta questa bisogna ai giureconsulti: e invece di domandare: «Quanto vantaggerà il fisco nello spogliamento?» si sarebbe domandato: «Per qual titolo questa proprietà appartiene alla Chiesa, al Comune, al corpo morale qualunque esso sia?» E trovato che essi ne fossero padroni legittimi, ogni altro provvedimento sarebbesi giudicato impos­sibile, per la sola ragione del vederlo ingiusto.
– Ma i corpi morali non sanno amministrare. – Che bella ragione! quasi non fossero stati i corpi morali quelli che alla barbara Europa insegnarono l'agricoltura, strappando alle paludi, alle selve, ai torrenti desolatori quei campi che blondeggiano oggi sì fecondi e invidiati: quasi non fosse stata in gran parte la retta amministra­zione quella che produsse le ricchezze del clero, di cui contraddittoriamente si accusa ad un tempo e l'incapacità di amministrare e lo sfondolato arrichire: quasi tutti i privati fossero altrettanti Colbert: quasi lo Stato rnedesimo non fosse anch'esso un corpo morale: quasi mancassero esempii di scialacqui enormi anche fra gli amministratori dello Stato. Ma tant'è! l'idea di proprietà inviolabile, dacché fu pubhlicata come diritto dell'uomo e del cittadino, è talmente scaduta, che uomini onorati ed onesti neppure s'avveggono della enormità dei loro principii. Oh quanto era meglio raccomandata l'inviolabilità del possesso quando stava sotto la tutela del diritto divino e del settimo precetto del Decalogo! Allora ogni amministratore di qualche pubblica istituzione dovea essere ad un tempo, e l'equo distributore dei frutti fra gli amministrati, ed il leale e generoso difensore, della sua azienda contro le usurpazioni del fisco. Ma un tale rattento avrebbe potuto arrestare la nave dello STATO, e cotesto nume etero­dosso poco si rassegna a quei diritti che pretendono abbarrargli la via. Per altra parte la coscienza degli amminIstratori era qui la maggiore salvaguardia che avessero gli amministrati. Or voi ben sapete ­essere solenne principio dei pubblicisti eterodossi, che sulla coscienza non può farsi assegnamento alcuno. Essi senza veruno scrupolo (e ne li rimproverava il valente pubblicista Soto da noi lodato altra volta) rovesciano l'infamia e il sospetto di mala amministrazione sopra tutti i loro concittadini, i qualì tutti o sono o furono o pos­sono essere pubblici amministratori, e così vengono rimeritati del sacrificarsi che fanno al vantaggio delle loro province (5). Se vi ha, soggiungea il Pubblicista spagnuolo, tra costoro chi erri per ignoranza, guidatelo; se per corruzione, punitelo, Ma in ogni caso guardatevi dal violare la proprietà, «L'averla rispettata, dice lo Smith, ha fatto maggior bene all'Inghilterra, che non fecero male tutti gli abusi: mancare di tale rispetto, aggiunge il Florez d'Estrada, è la maggior calamità, che possa incogliere ael un popolo». Così ragio­nava quel valoroso economista spagnuolo, di cui vorremmo qui trascrivere nella nostra lingua tutto il discorso, se ci fosse lecito il tanto dilungarci in una materia puramente incidente. Ma il fin qui detto basta per far comprendere ai nostri lettori la vera radice delle invettive contro le manimorte. Lo Stato voleva usurparsene i beni: gli amministratori corrotti speravano una parte nella preda: gli in­tegri venivano discreditati col general principio, che è stolto chi si affida all'altrui coscienza: i beni comuni frattanto si davano per beni della nazione: ogni proprietà dovea servire unicamente all'interesse pubblico. Con tali principii qual meraviglia che il comunismo abbia fatto sì spaventosi progressi, e che i poveri, spogliati di tanti sussidii, si avventino oggi per rifarsene contro gli spogliatori? Nel sistema di economia cattolica codesti sconci non possono aver luogo. Ad ogni lavoro appartiene inviolabile il suo frutto: e giungano pure i frutti ad accumularsi indefinitamente e a costituire vastissime proprietà, mai non cessa per questo il pubblico di vantaggiarsene, altro non essendo un gran proprietario se non un gran amministratore.
Si dirà che a codesta teoria sì bella non sempre corrispondeva la pratica, impedita e pervertita dalle umane passioni. Ma se le passioni riuscivano a traviare la pratica, quando doveano contraddire la teorica, quali disordini produrranno sotto l'influenze della teorica novella che le prende per guida e ne autorizza gli eccessi? Bello spediente davvero per rimediare al furto! Quando la Chiesa predicava che rubare è peccato; si commettevano dei furti: dun­que per evitare i furti predicheremo che il rubare non è peccato!

17. Riepiloghiamo. Stabilito il principio che le facoltà sono proprietà dell'uomo, è natural conseguenza che all'uomo ne appartenga il frutto: se all'uomo appartiene, egli è libero ad usarlo ed alienarlo: l'alienazione ne trasferisce il dominio, e questo dominio secondario è inviolabile al pari del primo, se non si vuole rendere frustraneo nel primo il diritto di alienazione.
Il diritto di produrre, essendo destinato a diffondere i frutti in un campo indefinito, entro i termini di giustizia e carità, non trova qui altro limite che quello delle forze del produttore. Ma il produttore può aumentare le proprie forze coll'associazione. Dunque l'aumento indefinito delle proprietà (qual che ne sia poi l'effetto economico) nulla ha che ripugni alle leggi di natura; sia che si riguardi nell'arricchimento della famiglia, sia che nell'associazione dei corpi morali.

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NOTE

1 Veggasi in tal proposito un importantissimo articolo nell'Univers 27 Mag­gio 1857, ove si descrive mirabilmente l'assalto dei liberali eterodossi contro la proprietà.

2 Si veritas vos liberaverit, tunc vere liberi eritis.

3 Dal 1811, dice l'Univers, al 1820 la duchessa di Suntherland in Iscozia spogliò legalmente 15000 contadini, atterrandone o abbruciandone i casali, per ridurre le sue terre ad una coltivazione più produttiva. Gli economisti, calcolato il prodotto liquido, applaudirono. Eppure qual violazione di diritto! que­gli avanzi del vecchio Clan non sedean sul terreno per un titolo consecrato da consuetudine immemorabile?… Il diritto piegò al cospetto dell'assoluto proprietario; la Riforma spogliò di sua mansuetudine quel diritto di proprietà che, secondo la tradizione cristiana, era un vincolo di carità fra il ricco e il povero (12 Giugno 1856).

4 Meraviglioso è in tale proposito il discorso del Bossuet intorno all'elemosina.

5 Infamais à todos los espanoles, porque todos los espanoles hemos sido ò podemos ser concejales. Es este, por ventura, el galardon que se reserva ecc. Raccomandiamo ai nostri lettori questo valoroso giornale della Regeneracion, che si pubblica a Madrid, come non meno importante per le materie, che squisilamente cattolico per dottrina e per zelo.