L’ECONOMIA ETERODOSSA ALLE PRESE COL PAUPERISMO

Di p. L. Taparelli d'Azeglio. S.J. . Il pauperismo è una piaga ignota in quei paesi appunto, ove la Chiesa prevale, ove l'eterodossia mai non ebbe il sopravvento, L'Italia nostra non sa qual ceffo egli abbia cotesto mostro, che l'articolista deve aver veduto con orrore in faccia, poiché ce ne descrive una si terribile ipotiposi. Attribuire alla Chiesa di volere il pauperismo che non osa mostrarlesi innanzi, ed aspettarne la medicina da quella filantropia, la quale quanto più chiacchiera, tanto più lo diffonde, egli è proprio un negar la verità conosciuta per trovare un argomento da calunniare il Cattolicismo.

L'ECONOMIA ETERODOSSA ALLE PRESE COL PAUPERISMO
«La Civiltà Cattolica», 1858, a. 9, Serie III, vol. XI, pp. 144-160.

Se dovessimo rassegnarci ai pronostici, con cui il sig. De Fontenay conchiude la rivista dell'opera del sig. Victor Modeste intorno al Pauperismo, dovremmo deporre il pensiero di scrivere questo articolo e lacerare la carta, ove l'abbiamo intestato: giacché, secondo lui, non si può ormai trattare di pauperismo in generale, senza accettare dal signor Modeste lo spirito, le idee, i mezzi, coi quali egli vorrebbe rimediarvi (1), spirito, idee, mezzi che escludono positiva­mente ed assolutamente lo spirito, le idee ed i mezzi suggeriti dal Cattolicismo. Non sappiamo se la modestia del signor Modeste ac­cetterà il privilegio di cotesto monopolio; ma ben sappiamo che gli scrittori cattolici non sottoscriveranno la sentenza burbanzosa di cotesta esclusione e le ragioni ingiuriose, sopra di cui essa si appoggia. Credereste? La carità della Chiesa cattolica, quello slancio univer­sale di abnegazione, onde i primordii del Cristianesimo resero atto­nito il mondo, agli occhi di quell'economista è estinta (2); ed è fortuna che siasi estinta, non essendovi a parer suo, istituzione più contraria all'intento di abolire il pauperismo. Non è cotesta abolizione, anzi non è neppure il sollievo dei patimenti l'intento vero della carità. Ella pensa a salvare le anime immortali; e in quanto ai corpi, guai per lei se i patimenti finissero! Il mondo avrebbe a piangere la perdita di una virtù, la Chiesa una via chiusa per sempre di salute eterna. Que les pauvres…. disparaissent, le monde n'a-t-il pas à pleurer une vertu, l'Eglise l'une de voies du salut éternel (3)? Il cercare in tal guisa un premio nell'altra vita è una mira troppo interessata: molto più nobile è la virtù della beneficenza, la quale ristrettasi a cercare il bene del suo prossimo, pòrtogli l'obolo di soccorso, già ha compiuto il suo debito ed ottenuto la ricompensa (4). Tali sono le idee dell'Autore intorno alla carità cattolica: laonde ben vedete che, se non si può scrivere sul pauperismo senza abbracciarle, non è scrittor cattolico che possa entrare in cotesta giostra, e noi possiamo rinunziare al nostro articolo.
Fortunatamente non corrono più in Italia i bei giorni del 48, in cui chi non si arrendeva agli oracoli del tripode eterodosso doveva tacere o per timore dei vituperii, o per mancanza di torchio o pel muto disprezzo degli organi di pubblicità. Oggi, la Dio mercé, se qualcuno volesse rispondere al sig. Modeste che il dire estinta la carità cattolica in Francia, è tale audacia che ha del ridicolo, non solo avrebbe un torchio a sua disposizione, ma riscuoterebbe applausi nella Francia medesima. Estinta la carità! mentre nella sola Francia 100 mila Suore ne sono altrettante vittime, alla fiamma del­le quali rende omaggio l'Anglicano, il Foziano, il Turco medesimo? Estinta la carità in Francia! mentre alle sue frontiere si agita il Belgio massonico e corre coi sassi e con le fiaccole per impossessarsi dei lasciti che la carità profonde su i poveri? Si direbbe che cotesti scrittori vivono, non in Francia, ove la carità splende da abbagliare anche i ciechi: ma fra i Patagoni, o piuttosto nel mondo della luna.
Vero è peraltro che per non offendere soverchiamente i Cattolici, il sig. Modeste contraddice sé stesso con la medesima audacia, con cui contraddiceva il fatto; e dopo aver detto la carità une sorte d'incapacità sémivolontaire à devenir une institution agissante et forte, soggiunge tosto con una benignità, di cui i Cattolici deb­bono sapergli grado, che egli permette alla Chiesa di essere libera a fare del bene; e che tanto maggior bene ella farà, quanto sarà più libera (5). Manco male! L'incapacità quando è libera fa del bene.
Dopo tali contraddizioni comprenderà il lettore assennato, non doverci noi tenere per obbligati dalla sentenza del signor Fontenay, né dover riguardare come illecito lo scrivere intorno al pauperismo con idee tutt'altre da quelle del signor Modeste. Cionondimeno non è per ora nostra intenzione intraprendere intorno al pauperismo, una lunga trattazione che non sappiamo quanto sarebbe la benvenuta nelle pagine di un periodico, ove i lettori cercano più presto un divertimento istruttivo; che un insegnamento profondo. Riserbandoci dunque di tornare all'uopo sopra cotesto argomento, ci con­tenteremo per ora, interrompendo le nozioni elementari che andiamo svolgendo dell'Economia, di fare un'escursione momentanea su i campi ove ci chiama l'Economista parigino, il quale assume così audacemente la funzione di vituperatore della Chiesa, senza conoscerla, e dà frattanto una validissima conferma alle dottrine di lei senza avvedersene. Svolgiamo in poche parole queste due proposizioni; e se ci riesce di ben chiarirle, il nostro lettore vedrà qual razza di cervelli sieno gli economisti eterodossi.
E in quanto al primo punto, cioè la poca cognizione che hanno costoro dell'insegnamento cattolico, ci potremmo sbrigare in pochi tratti parlando con cattolici: i quali già avranno avuto a sorridere per compassione sentendo che, se venissero meno i poveri, la Chiesa avrebbe a piangere d'aver perduta una virtù e una via di salute. «Possibile, diranno eglino seco stessi, che alberghi tanta stupidezza in una testa umana; che chi scrive coteste strava­ganze non vegga l'impossibilità di persuaderle? Non vede l'Autore che se la carità non avesse poveri da soccorrere, avrebbe sempre infermi da assistere, ignoranti da catechizzare, ciechi da guidare per le vie, sordomuti da restituire alla vita sociale, guerre stermi­natrici ove spargere i suoi balsami, orfani derelitti da abbracciare con sollecitudine materna; e così la virtù e la via di salute non potrebbe mancarle?» Questo avrà detto il lettore per sé medesimo senz'aver letto il Journal des Économistes: e noi che l'abbiamo letto potremo aggiungere per divertimento del lettore che codeste assur­dità, già per sé stravaganti, l'articolista le rende ancor più incredibili colla contraddizione: giacché mentre a pagina 42 afferma che la Chiesa non vuol vedere estinto il pauperismo per tema che man­chi occasione alla virtù, il dabbenuomo si dimentica che a pagi­na 30 avea già riconosciuta colle voci del Vangelo la necessità che sempre vi sieno dei poveri e permesso alla povertà individuale di sussistere, purché si abolisca il pauperismo (6): cotalchè poveri nel mondo non mancheranno mai. Or quando non mancano poveri da soccorrere, non manca l'esercizio di virtù e la via di salute. Come dunque rifuggirebbe la Chiesa dall'abolire cotesta astrazione del pauperismo? Persuadetevelo, signor economista, le astrazioni occupano molto le teste dei filantropi; ma alla carità cristiana quel che preme è la persona del battezzato, il fratello che patisce. Sieno molti o pochi o un solo; si appellino astrattamente pauperismo in mascolino o povertà in femminino; si mirino concretamente come poveri o come mendichi, ciò nulla le importa: sono tribolati e ciò basta.
Ma la calunnia dell'economista aggiunge alla contraddizione e all'ingiustizia una inavvertenza (per non dire ignoranza) di fatto che sembrerebbe incredibile, se non si leggesse. Egli sembra ignorare che il pauperismo è una piaga ignota in quei paesi appunto, ove la Chiesa prevale, ove l'eterodossia mai non ebbe il sopravvento, L'Italia nostra non sa qual ceffo egli abbia cotesto mostro, che l'articolista deve aver veduto con orrore in faccia, poiché ce ne descrive una si terribile ipotiposi. Attribuire alla Chiesa di volere il pauperismo che non osa mostrarlesi innanzi, ed aspettarne la medicina da quella fi­lantropia, la quale quanto più chiacchiera, tanto più lo diffonde, egli è proprio un negar la verità conosciuta per trovare un argomento da calunniare il Cattolicismo.
Qui peraltro l'Autore potrebbe opporci una risposta scritta da lui in altro proposito. «Il dirmi che, dove la Chiesa prevale non comparisce il pauperismo, è un equivoco di chi non sa distinguere la penuria reale dalla penuria sentita. Nei paesi eterodossi, voi di­te, il pauperismo conta le tante migliaia; nei cattolici appena si contano le decine. Sapete perché? Perché in Inghilterra tutti sono ricchi e la ricchezza degli uni fa sentire la povertà degli altri: in Italia, ove tutti sono poveri, come volete calcolare il pauperismo? Aspettate che la ricchezza vi penetri, e vedrete se i popoli oggi sì rassegnati non cominceranno a lamentarsi» (7).
Tale è la replica fatta dall'Autore all'argomento sperimentale da noi dedotto in favore della Chiesa: ma la replica dà poca idea del ragionatore economista, il quale sembra confondere il luccichio del lusso, che certamente splende maggiore in Inghilterra, coll'agiatez­za universale del sostentamento, che dà all'Italia nostra un'immensa ed evidente superiorità in ciò che è saviezza d'economia sociale.
E dove mai troverà egli (se non fosse in Piemonte ove il sistema inglese già comincia a portare i suoi frutti) (8) una statistica dei morti di fame in Italia, come la veggiamo pubblicarsi di tempo in tempo rispetto all'Irlanda e all'Inghilterra? E dove troverà egli in Italia, in una sola provincia, 80 famiglie che vivano solo d'erbe raccolte alla campagna? Dove 770 famiglie costrette a dormire per terra? Dove 400 famiglie, ove le donne non abbiano in sei che una sola veste per uscire (9)? E quella spaventevole tassa dei poveri, sottentrata in Inghilterra alla volontaria elemosina della carità cattolica; quella tassa, primo tentativo di un socialismo mascherato, per cui lo stato smugne a forza dalla borsa dei ricchi il di che sfamare la ventraia del mendico minacciante; quella tassa, privilegio finora, se la memoria non c'inganna, dell'economismo inglese; quella tassa senza di cui i poveri morrebbero non più a migliaia, ma a milioni, essendovi in Inghilterra un povero sopra sei abitanti; e per conseguenza quattro milioni di poveri sopra ventiquattro milioni d'abitanti, senza parlare delle Indie ancora più spietatamente malmenate dalla fame; quella tassa, diciamo, dove la troverà egli nei paesi schiettamente cattolici? Dove specialmente nella povera Italia?
Qui non si tratta di sentire o non sentire la povertà, di accattare o non accattare l'elemosina: si tratta di morire o non morire per l'eccesso di povertà. Si senta questa, o non si senta, quando si muore, si muore: e se in Italia non si muore di fame come in Inghilterra, la povertà è minore in Italia che in Inghilterra; e sta saldo l'argomento da noi recato, evidente l'audacia calunniatrice di chi accusa rea di pauperismo la carità cristiana, al cospetto della quale il pauperismo non osa mostrarsi,
Ma più strana ancora e più enorme è l'audacia dell'altro argomento, con cui si combatte la carità cattolica. «La carità, dice l'Articolista, mira a salvare le anime: dunque non rimedia alla nudità del corpo ch'ella disprezza come perituro. Non basta: la carità opera per ottenere la vita eterna: dunque opera per interesse ed è inferiore alla beneficenza, la quale opera solo in riguardo del prossimo (10).
A quanto pare, l'Autore vorrebbe abolire interamente la speranza cattolica, non meno che la carità. Ma qui pure egli mostra di conoscere ben poco e la natura dell'uomo e la dottrina della Chiesa: poco la natura dell'uomo, se spera nell'universale tanto disinteresse, che si sterpi il pauperismo per sola naturale compassione: poco la dottrina della Chiesa, se crede che la carità, non sappia operare se non per acquistare la mercede del godimento eterno, La suprema, la perfetta carità opera unicamente perché Dio merita d'essere amato ed obbedito, ed è questo motivo più nobile assai e più ragionevole di quella simpatia tutta umana, alla quale egli vorrebbe ridurre la beneficenza.
Ma questo, dice l'Autore, si fa per puro amor di virtù! dunque non soccorrono i corpi! quasi si potesse praticare cotesta virtù senza sovvenire ai prossimi. Ma di grazia, signor Modeste, se la carità non ha da soccorrere i corpi, come avete detto poc'anzi che mancherebbe la virtù, se mancassero poveri da soccorrere? E quelle tante Suore che, nel fetore degli spedali o tra il fischiare delle palle guerriere, infondono i balsami della carità sulle piaghe e riscuotono l'ammirazione e le benedizioni dei moribondi, credete voi che dis­prezzino quel corpo mortale, per cui vincono tante ripugnanze ed espongono la vita? È proprio una compassione veder questo po­ver'uomo dibattersi così tra le scempiaggini e le contraddizioni per la pura smania di malmenare la carità cattolica.
Rechiamone ancora un ultimo argomento. Volete vedere, dice l'Autore, che la carità cattolica impedisce l'abolizione del pauperi­smo? Eccone una prova di evidenza matematica. «La carità, pre­scrivendo ai ricchi di dare il tutto, conduce ad un comunismo che distrugge ogni capitale, e rende impossibile la beneficenza per par­te dei ricchi. La carità stessa ingiungendo al povero di rassegnarsi pienamente alla miseria, spezza ogni principio d'attività per uscire dai cenci. Dunque carità e pauperismo vanno qui di conserva (11).
Voi vi fate le croci, lettore, al veder che in Francia si conosca da certi economisti la dottrina dei Cattolici intorno a carità, come in Italia si conoscerebbe la dottrina dei Buddisti o dei Veda. E dove ha trovato il sig. Fontenay cotesto precetto di rinunziare a tutto, per cui verrebbe distrutto il capitale? Dove ha trovato cotesto comunismo volontario, che tutto senza riserbo mette in comune? Noi altri in Italia sapevamo che il rinunziare in effetto a tutto ciò che si possiede è un consiglio di perfezione, alla quale si ricerca una vo­cazione speciale: sapevamo che quelle anime elette, cui tale spogliamento non ripugna, non introducono ombra di comunismo, sia che lascino i beni alle loro famiglie, sia che li affidino a qualche pia istituzione con uno scopo determinato: sapevamo che, per assicurare il conseguimento di cotesto scopo, la Chiesa impone a Vescovi o ad altri visitatori una perpetua vigilanza che ne guarentisca l'adempimento: sapevamo (e debbono saperlo anche gli economisti) che appunto per questo si grida contro le proprietà della Chiesa, o, come suol dirsi, di manomorta: sapevamo che cotesta proprietà lungamente invidiata forma il primo bottino e le spoglie opime del trionfatore, appena la giustizia libertina assume la tutela della proprietà inviolabile. Sapendo tutto questo, sentirci parlare dal sig. Modeste del precetto di comunismo volontario, ci fa desiderare che gli economisti, quando vogliono parlare dei Cattolici, si degnino prima di studiarne, se non la teologia morale, almeno il catechismo che s'in­segna ai fanciulli. Dal quale il sig. Fontenay potrà anche imparare che la piena rassegnazione alla miseria nulla ha che fare con l'apoteosi dell'ozio o coll'inerzia del solitario indiano. Sa egli chi scrive l'apoteosi dell'ozio? La scrive colui che facendo riverenza ad uno scrigno ben pieno, e concedendo al capitalista pienissima licenza di ingoiarsi senza lavorare con usure enormi i sudori del povero, gli somministra i mezzi e la giustificazione d'una vita sibaritica, licenziandola ad ogni godimento, quando l'usuraio sia giunto a non abbisognare del lavoro. In quanto alla piena rassegnazione suggerita dalla Chiesa, siccome va sempre congiunta con la spiegazione del precetto del Genesi. In sudore… vesceris pane; e dell'altro di S. Paolo: Si quis non vult laborare nec manducet; essa si riduce a questa formola che ben può dirsi il simbolo morale dell'Irlandese stritolato dal Landlord economista: «Mi rassegno, se Dio così comanda, a faticare tutta la mia vita senz'altra ricompensa che un obolo da offrire all'altare, due patate che mi sostentino, quattro cenci che mi ricoprano e la fame che finalmente mi uccida, anziché rinunziare, alla mia fede, alla mia coscienza e ribellare a quella aristocrazia che mi opprime». Ecco qual è la rassegnazione del Cattolico, diversa alquanto dall'attività e dal progresso del comunista. Se questa attività, questo progresso riesca favorevole alla ricchezza delle na­zioni, sel veggano gli economisti: ma non vengano a spacciare co­me dottrina della Chiesa quella rassegnazione infingarda che abolisce il lavoro con fatalismo da Musulmano. Altro è che la Chiesa non consenta alla barbara oppressione dell'operaio proletario, altro che consenta a costui l'infingardaggine di una stupida noncuranza.
Queste poche parole di risposta non basterebbero certo ad illuminare l'incomprensibile cecità di chi vuole ignorare la dottrina della Chiesa per maledirla: ma bastano agl'Italiani cattolici, perché misurino con un guardo la statura di cotesta scienza pigmea che se la piglia con la Sapienza infinita del Vangelo. Cotesto assalto peraltro è un semplice incidente della rivista scritta dal Fontenay intorno al Saggio sul pauperismo: tutto il rimanente di coteste pagine riuscirebbe, chi voglia spremerne il succo, precisamente al termine opposto da quello inteso dall'Autore, dimostrando non essere possibile l'abolizione del pauperismo, se non mercé della Chiesa.
A provare cotesto nostro secondo assunto basta solo che vi mettiamo sott'occhio la sostanza delle dottrine spiegate dal Fontenay, le quali potrebbero ridursi a queste proposizioni.
Il pauperismo non è che la semplice povertà sentita: sentita dal povero che comprende l'eccesso del suo male e dispera; sentita dal ricco che comprende il proprio pericolo e tenta ripararvi (12).
L'essere in tal guisa sentita la povertà nasce dall'aver fatto conoscere al povero i suoi diritti e dal rendergli anche più acerba la privazione coll'immagine del lusso nei ricchi (13).
Il Pauperismo è dunque propriamente una piaga morale, e morale principalmente debb'esserne il rimedio: vale a dire istruzione e moralità; rimedio che non può somministrarglisi se non dalle classi supreme della società (14).
Cionondimeno siccome la privazione nasce da penuria universale delle cose appetibili, anche a questa dee rimediarsi. E vi si rimedia dalla classe mezzana con la sua attività nell'aumentare la ricchez­za sociale, dalla suprema con la generosità nel largheggiare (15).
Qual è dunque il vero rimedio del pauperismo? Qual è la soluzione del terribile problema? Persuadetevelo, risponde presso il Fontenay M. Modeste: destino eterno dell'uomo è l'aspirare ad un riposo che mai non arriva (in questo mondo avrebbe aggiunto un cristiano): per conseguenza la vera soluzione è persuadersi che ogni successo dee rinnovare la difficoltà, ogni difficoltà invitare a nuovo successo. Di che per ultimo la soluzione del problema sta ­nel metter mano all'opera di sollevare i poveri riguardando la redenzione dei miseri come la legittimazione delle ricchezze (16): e in tal opera durare indefessamente, pertinacemente, altro non essendo il mondo che un interminabile avvicendarsi, ove tutto è ad un tempo soluzione e problema; e la soluzione di ieri si trasforma domani in difficoltà novella (17). Mano dunque all'opera, conclude il Fontenay: À l'oeuvre donc; c'est le dernier mot du livre (pag. 44) . Non sappiamo quanto sarà consolante pei filantropi cotesto dernier mot, il quale ci sembra molto somigliante a quello che viene detto altrove dall'Autore, bastardo sistema dei palliativi, che tutto si riduce per parte dei ricchi a soccorrere, per parte dei poveri a ras­segnarsi (18). Ma piaccia o non piaccia, il rimedio è cotesto: mettere mano all'opera (19): i trafficanti seguitino ad accumulare, i grandi a largheggiare, il popolo a faticare: Voilà le dernier mot du livre. E che sia questa l'ultima parola del libro, noi non vogliamo negarlo, giacché infatti nell'ultima pagina del Modeste troviamo questa frase, Le moment de l'étude est passé. Ce qui resterait maintenant à faire, ce serait d'entrer résolument dans ce champ du travail exploré par nos soins (20). Ma se questa è l'ultima parola del libro, essa è tutt'altro che l'ultima soluzione del problema: e il signor Fontenay, cui sembra nulla potersi più aggiungere al libro del Modeste, mostra di non aver compreso egli stesso dove sia veramente il nodo del problema; o piuttosto mostra d'averlo dimenticato, dopochè con molta chia­rezza l'avea spiegato nel suo esordio. Non dice forse egli a pagina 28 che la soluzione del problema sta nel faire penser, faire vouloir? Che tout ce qui ne va pas dans ce sens est faux, inutile, désastreux? Or questo appunto, dice terminando M. Modeste, questo è ciò che rimane da farsi: c'est ce qui reste à faire. Dunque terminato il libro, tutto ancora rimane da farsi: seppure il sig. Fontenay non ci dimostra che il libro è stato letto da tutti in Francia; che appena letto il libro, il nobile ha rinunziato a sprecare nei capricci del lusso e del delitto (21); che il medio ceto attende a conquistare la ricchez­za (22) (oh di questo non ne dubitiamo!); che il popolo ha acquistato intelligenza, preveggenza, fiducia, gagliardia; e che è persuaso, essere il lavoro non meno un dovere che una necessità (23). Se in tal guisa tutti i ceti della società hanno incominciato la grande opera della guarigione, o se egli è certo che, letto il libro, la cominceranno, allora sì, le dernier mot du libre ci avrà dato la soluzione del problema. Ma se accadesse anche al libro del sig. Modeste ciò che a tanti altri, dal Quesnay fino ai tempi nostri, di viaggiare per gli scrittoi degli economisti, strapparne un elogio, una censura, una rivista, fiutare un po' d'incenso in un'accademia, incipriarsi di polvere negli scaffali di una biblioteca e lasciare il mondo quale lo trovò; allora ci permetta il sig. Fontenay di dirgli, potersi ancora scrivere un libro intorno al pauperismo, senza partecipare alle idee di M. Modeste; anzi seguendo idee precisamente contrarie. Suppongasi pure che egli avesse trovato il modo di abolire il pauperismo, mediante certe proporzioni economiche da stabilirsi nella società; che vantaggio avremmo dal sapere che coteste proporzioni esistono e sarebbero efficacissime, se non si trova il modo di persuadere coloro, da cui dipendono a darvi la mano? Quel vantaggio appunto che abbiamo pel nostro commercio dalle dotte opere, ove M. Lesseps ha dimostrata la possibilità di tagliare un canale nell'Istmo di Suez. Tutta l'Europa ne ammira gli studii indefessi; ma se non si trova il modo di fare che tutte le Potenze, e pensino e vogliano come M. Lesseps, il taglio non si farà e il commercio continuerà ad affrontare i tifoni spaventevoli del Capo e le ambasce di una navigazione bimestre nelle più stemperate regioni equinoziali. Oh se il sig. Lesseps trovasse un libro che facesse pensare e volere il taglio, quanto n'andrebbe lieto e superbo!
Non sappiamo se egli avrà questa sorte rispetto all'Istmo egiziano: ma rispetto al pauperismo, crediamo che il libro si possa scrivere e scrivere con fortuna, purché si rinunzii all'idee di M. Modeste: e il lettore già comprende chi lo scriverà; lo scriverà un Cattolico, o piuttosto un Cattolico dimostrerà che cotesto libro è già scritto da lungo tempo, e si trova nella Biblioteca del Vaticano gelosamente custodito dalla Chiesa cattolica; e porta per titolo IL SANTO VANGELO. Questo è quel libro che ha per suo carattere proprio la virtù di faire pensor e faire voluoir. Sono più di 18 secoli che cotesta sua virtù si sta cimentando alle prove più ardue dell'esperienza con un successo che fa meravigliare i fedeli e trasecolare gl'increduli, al vedere le cose impossibili che egli persuade. Egli è riuscito a far pensare che l'Uno è Trino, che l'uomo è Dio, che il pane si trasforma nell'Uomo-Dio, che il corpo morto risorge, che la libertà non osta alla Provvidenza, e che, ciò che è più anche dif­ficile a credersi, è beato il povero, il disprezzato, il piangente, il perseguitato, lo straziato, l'ucciso. E tutte queste cose ultime, non solo ha saputo farle pensare, ma, ciò che ne raddoppia il prodigio, ha saputo farle volere. Se dunque il libro dell'economista non riesce né a far pensare, né a far volere, ma solo dà una direzione a chi vorrà pensare e volere; ancor possiamo sperare una soluzione ulteriore del problema dal libro del Cattolico, la cui efficacia è assicurata da 18 secoli di esperienza.
Applichiamo dunque cotesta ricetta alla malattia attenendoci alla diagnosi dell'economista. Il pauperismo é, secondo lui, la povertà sentita, ma sentita in modo, che il povero freme e il ricco paventa. Or può egli negare il Fontenay che la Chiesa abbia un sedativo, a cui cedono e i fremiti del povero e i palpiti del ricco? Lungi dal negarlo, egli concede tale essere la condizione dei paesi cattolici, ove al popolo si parla piuttosto di rassegnazione che di diritti. Ma se dall'essergli predicati cotesti diritti nasce il dimenticarsi i doveri, specialmente quando esso paragona col lusso dei ricchi le proprie priva­zioni; non sarebb'egli un buon rimedio predicare ai ricchi l'abolizione del lusso e i diritti del povero, predicando ai poveri il dove­re del lavoro e i diritti del proprietario? Questo è ciò che fa la Chiesa; e ciò che ella ottenne per tal via, non bisogna misurarlo paragonando la povertà del popolo nel secolo XVII con quella del XIX: ma con la condizione, in che viveano i poveri o sotto le influenze del paganesimo o nelle prime invasioni dei barbari, quando la Chiesa ne intraprese la redenzione. Quello è l'abisso, donde la Chiesa trasse il povero: fame e schiavitù. Paragonate lo schiavo che perisce sullo strame di un ergastolo, col povero ospitato nei maestosi alberghi di Roma, di Genova, di Napoli, di Palermo, e capirete ciò che seppe fare la Chiesa per far conoscere al ricco i diritti del povero e scemare il contrasto fra il lusso dei primi e la miseria del secondo. Vero è che da più d'un secolo la filantropia e la beneficenza hanno fatto prodigi: e sebbene certuni rassomiglino cotesti prodigii della beneficenza filantropica ai prodigii dell'apostolato biblico i quali tutti restringonsi in lunghe perorazioni sulla sventura degl'infedeli e in milioni di Bibbie adulterate con mille brutte falsificazioni a migliaia e scaraventate a casaccio dove il diavolo le porta; noi vogliamo essere meno severi e concedere che i milioni di libri abbiano ottenuto migliaia di lotterie, di sottoscrizioni, di balli filantropici, di associazioni pietose, di simpatiche dimostra­zioni in favore dei poveri. Solo domandaremo se la filantropia avrebbe mai, senza cristianesimo assunto codesta impresa; se avrebbe saputo il nome stesso di fraternità umana; se avrebbe compresa l'uguaglianza degli uomini; se avrebbe un'idea di quella simpatia verso i miseri, alla quale ella spera di raccomandare con frutto la guarigione della gran piaga sociale. Se cotesti sentimenti nacquero dal Cristianesimo, se per 17 secoli vi fruttificarono prodigiosamente, se dal Cristianesimo li tolse in prestanza la filantropia che se ne pavoneggia; qual bisogno aveva la Chiesa dei soccorsi di lei per continuare quell'opera di redenzione? E che può ella aspettare dagli economisti per condurla a compimento? Sapete che? Che si trasformi cotesta grand'opera di carità spontanea e di redenzione riconoscen­te in una beneficenza mossa dalla paura e in una redenzione conquistata a mano armata (24).
Tale sarà sempre l'esito, tale la soluzione del problema, quando questo si vorrà risolvere coi puri elementi di natura: e le parole stesse del Fontenay provano che egli sente esser cotesto finalmente il midollo di tutte le trattazioni economistiche. Il soccorso dato dai ricchi nasce da paura, i progressi dell'infimo ceto si conquistano con la minaccia; il medio ceto, instancabile nel produrre, somministra materia alla larghezza dei ricchi, somministra bottino al saccheggio dei poveri. In verità, se qua doveva finalmente condurci tutta la scienza economica, non valeva la spesa di menarne tanto fracasso. In conclusione, se vogliamo epilogarne le dottrine, esse si riducono a dirci che il pauperismo nacque quando si predicarono al popolo i diritti dell'uomo; che quando cotesto popolo adirato minaccia, i grandi gli gittino per paura una parte di quella ricchezza che il medio ceto va continuamente fabbricando; che gittata ieri questa offa per acchetare il Cerbero latrante, domani ricomincierà il latrato del Cerbero e la paura del ricco; che durare pertinacemente in questa perpetua lotta e il destino dell'uomo e della società. Per fermo la so­luzione non è consolante; e se i filantropi sanno acconciarvisi, non vi si acconcieranno probabilmente i Cattolici; e continueranno il credere che, ad un male morale, il quale tutto consiste, pel povero nel sentirsi ingiustamente oppresso, pel ricco nel palpitare ingiustamente invidiato, sia molto miglior rimedio quello inventato dalla Chiesa di persuadere ai ricchi volontaria carità, ai poveri volontaria rassegnazione. Bene inteso che se o gli economisti o i governanti o qual'altra vogliasi persona industre e caritativa trovi il modo di rendere più ordinata, e per conseguenza più vantaggiosa ai poveri e alla società l'elemosina; questo lungi dall'esser disapprovato o rifiutato dalla Chiesa, verrà anzi da lei usufruttuato, santificato e reso universale e perpetuo. Ché tale è finalmente lo spirito di cotesta madre pietosissima degli uomini: mentre gli eterodossi coll'empia e spietata lor clava sono disposti ad atterrare tutte le istituzioni cattoliche, a costo di perdervi tesori di lavoro gratuito, di affetti pietosi, di ricchezze perpetuamente rinascenti in benefizio degli sventurati; la Chiesa ogni bene fa suo, tesoreggiando in favor dei poveri e le scoperte scientifiche e le industrie economiche e le istituzioni benefiche, purché riesca a liberarle da qualunque infezione origi­naria che abbiano potuto contrarre, germinando in terre irreligiose e nimiche. Svolgeremo altra volta questo pensiero, e il libro del signor Modeste potrà somministrarcene copioso tema ed importante.

NOTE
1 Quiconque voudrait traiter du paupérisme en général, serait forcément ra­mené à adopter le plan, les divisions, l'esprit, lcs idées et probablement aussi les moyens pratiques du livre de M. Modeste. Journal des Èconomistes. Aprile 1858, pag. 47.

2 Cet élan universel d'abnégation dont les premiers temps du christianisme ont donné le spectacle au monde étonné… Cette ardeur s'est éteinte et elle de­vait forcément s'éteindre (L. c. pag. 42).

3 Journal des Economistes. Aprile 1858 pag. 42.

4 La charité… méle à son détachement la pensée de la vie eternelle, et l'on se demande en la voyant si cette préoccupation intéressée du salut ne laisse pas la piace à une vertu plus haute encore. Dans sa sphère, la bionfaisance est complète (l. c. pag. 43).

5 En laissant à la eharité son mobile élevé et son action d'autant plus bienfaisante qu'elle est libre, M. Modeste se prononce pour une vertu plus humaine et plus directement efficace (pag. 42).

6 La pauvreté individuelle, accidentelle subsistera toujours… elle doit meme subsister… Nous voulons bien avoir toujours des pauvres parmi nous, mais nous ne vouluns pas avoir toujours le paupérisme.

7 …Pour n'avoir pas su distinguer entre le dénùment réel et le dénùmcnt senti: Ici, disait la statistique, le paupérisme compte tans de milliers de tetes. Oui, parce qu'ici vous etes dans un milieu riche… Là, continuait-on, nous ne trouvons pas d'indigents déclarés. Ie le crois bien, c'est un pays où tout le monde est pauvre: à quoi voulez-vous que se prenne le dénùment parasite? il ne se sent mème pas; qu'il vive ou qu'il meure, c'est, à son opinion, comme cela qu'on doit vivre et mourir (l. c. pag. 33)

8 Vedi l'Armonia che cita il Cittadino 1 Maggio pag. 393, Notizie. Un morto di fame.

9 Vedi la supplica dei sacerdoti irlandesi per la sventura la popolazione di Donegal (Univers 10-4-1858). Vedi anche nel Margotti Roma e Londra il Medical-Times, secondo il quale in un solo anno 21.770 Irlandesi morivano di fame (Capo XXX pag. 523). Raccomandiamo queste cifre alla meditazione della Rivista di Firenze, la quale schierandosi coi propugnatori della libertà e dell'uguaglianza contro gli economisti che noi appelliamo cattolici e che essa dice eterodossi, teme che questi vogliano gratificarci di quanto più orribile e schifoso ebbe il Medio-evo. Al comparire fra le tenebre della visione notturna cotesta fantasia, la povera Rivista basisce, già vede il popolo ineducato spen­sieratamente moltiplicare, e accalcarsi di nuovo cencioso e famelico alle porte dei ricchi monasteri, per ricevere quel tozzo che lo mantiene in stupido ozio e in avvilimento miserabile ed abbietto (Rivista Maggio 1858 pag. 297). Non sappiamo se, propugnatrice com'ella è del Malthus, ella preferirebbe vedere alla umile e faticante plebe vietato il matrimonio, perché non moltiplichi spensieratamente, e interdetta la porta dei ricchi monasteri, affinché prive di quel tozzo muoiano di fame a migliaia e si avvicendino l'uso di quei cenci, senza i quali non possono comparire in pubblico. Se questa condizione dell'umile e faticante plebe va à versi alla Rivista di Firenze, non disputeremo de gustibus: crediamo però che i celibi forzati famelici, senza pane e senza cenci, preferiran­no ancora il tozzo dei monasterii alla morte dei proletarii inglesi rappresentata da quelle cifre. Ma forse il prof. Vannucci sarà di quei tanti che mai non leggono, e meno ancora nominano la Civiltà Cattolica (bene inteso che sanno per supema ispirazione tutto ciò che vi è scritto sul conto loro). In tal caso lo preghiamo di leggere i begli studii della sua medesima Rivista sull'India. Vi troverà una bella descrizione del fasto inglese, dell'ingiustizia, lealtà e ferocia dei dominatori, delle guarnigioni di Alligatori (pag. 267 e segg.) e simili altre piacevolezze che suppliranno alle cifre della Civiltà Cattolica per far comprendere le differenze che passano tra l'Economia cattolica e l'Economia degli Inglesi. E si ricordi che, se questi riuscissero coll'aiuto del Piemonte a predominare in Italia, essa potrebbe avervi un Lord alto-Commissario simile a quello che ri­sponde all'opposizione nelle Isole Ionie impiccando gli oppositori.

10 Il s'agit pour elle d'ennoblir et d'épurer, de détacher du monde et de sauver des ames immortelles. Est-elle une institution, un effort, un remède contre le dénument?… La charité,…. mèle à son dètachement la pensée de la vie éternelle, et l'on se demande en la voyant si cette préoccupation interessée du salut… laisse… la place à une vertu plus haute ancore (L. cit. pagg. 42, 43).

11 Car le précepte du renoncement, d'une part, en prescrivant au riche la charité absolue qui est le don total et sans réserve, aboutit à un communisme volontaire destructif du capital; et par sa contre-partie, en imposant au pau­vre la résignation complète à la misère, il brise le principe d'activité, l'autre ressort du progrès. (L. c. pag. 42).

12 Le paupérisme est parce qu'il est senti, et presque dans la mesure où il est senti; senti par ceux qu'il atteint, et plus encore peut-etre par ceux qu'il n'atteint pas (pag. 29… Il y a deux choses distinctes dans le pauperisme: il y a le dénument matériel, et puis surtout il y a l'absence du ressort moral (pag. 37.)

13. l. c. pagg. 31, 33

14. l. c. pag. 28

15. l. c. pag. 27

16. l. c. pag. 44

17. l. c. pag. 44

18. l. c. pag. 32

19. A l'oeuvre donc, voilà le dernier mot du livre. L'action ici est doublement nécessaire et pour ceux qui se débattent au fond du bourbier de l'indigence, et pour ceux aussi qui vont leur tendre la main d'en haut. La rèdemption des misères de la classe souffrante est, je le crois, la lègitimation de la richesse des classes fortunèes (pag. 44.)

20. MODESTE Du Paupèrisme en France. Paris Guillaumin et C. pag. 576.

21. Agaspiller en fantaisies folles, dangereuses, coupables mème, sa richesse, son intelligence et sa sensibilitè (pag. 40).

22. La classe moyenne… préposée à la réalisation du progrès matèriel et à la conquète de la richesse (pag. 44).

23 La marche à suivre… ce sera partout d'éclairer l'intelligence et le coeur, d'èveilleir l'attention et la prévoyance (pag. 38, 39).

24. Le sentiment plus marqué de la misére est à la fois, pour celui qui la souf­fre un aiguillon par la douleur, pour celui qui rapproche un avertissement par lamenace. (pag. 32)