Il problema del latino

Don BRYAN HOUGHTON: Orazione, grazia e liturgia Le radici gianseniste della nuova lex orandi.

Pubblicato in Conoscenza Religiosa [Firenze: La Nuova Italia], 1 (gennaio – marzo-1969), 90-108; il testo qui riportato è stato sottoposto ad alcune correzioni ortografiche e stilistiche. Il sottotitolo è redazionale


Da tre anni ormai è stato introdotto nella Messa il volgare e questa immissione, se non le sue conseguenze, forma materia di storia, e si può considerare con una certa misura di distacco. Che fosse un evento della massima importanza nessuno può negare: lex orandi, lex credendi. La fede regola l’orazione e viceversa. Sarebbe inoltre di una singolare superficialità sostenere che si potessero costringere milioni di persone a rimutare di punto in bianco la millenaria atmosfera della loro vita spirituale senza che ciò significasse niente. Forse mai vi fu un così drastico sovvertimento nella forma cultuale d’una religione la quale nel contempo pretendesse di rimanere la stessa di prima.
Il cambiamento non s’è ristretto alla lingua; la posizione dell’altare, del tabernacolo, del sacerdote, i gesti del celebrante, i movimenti dei fedeli, tutto è cambiato.
Anche se potrebbe essere illuminante, un esame particolareggiato di tutte queste mutazioni dilaterebbe di troppo questo saggio, ed esse sono inoltre, in certa misura, tutte subordinate alla stessa, unica affermazione: che nessun simbolo è significativo salvo la parola parlata e comprensibile.
Allo storico è indifferente che un mutamento sia giusto o errato; il problema è perché si sia verificato in un certo momento invece che in un diverso contesto ed in tempi diversi. Che cosa c’è di particolare nell’Avvento del 1964, che fosse assente nell’Avvento del 964? E come avviene che lo stesso vescovo oggi prescrive ciò che ieri proscriveva? E come mai un prete, ordinato nella e per la Messa latina, e che la celebro diuturnamente per anni, e la spiegò e difese ogni qual volta dovette istruire un convertito, e la predico dal pulpito, come mai egli la butta a mare oggi senza pensarci sopra e inveisce contro di essa senza arrossire. Non si può affermare che il clero vi fosse obbligato da una soverchiante esigenza popolare. È un fatto storicamente certo che nei tempi preconciliari, le varie associazioni ñ liturgiche vernacole nazionali ñ non solo erano promosse dal clero ma annoveravano fra i loro membri quasi soltanto ecclesiastici, e per lo più escludevano la Messa dal loro programma. D’altro canto il movimento Una Voce è forse oggi l’unica organizzazione spontanea e del tutto laica di azione cattolica nella Chiesa.
Poiché sarebbe assurdo asserire che tutti i vescovi e la maggioranza dei preti siano o subdoli o incapaci, bisogna pur trovare una causa sufficiente a spiegare un mutamento così subitaneo e così universalmente applaudito. Un’avversione alla Messa latina si stava dunque formando, da qualche parte in un qualche modo, del tutto inconsciamente. La enorme struttura monolitica pareva intatta, ma restava eretta, dunque, per mera forza d’abitudine. Doveva essere minata sotterraneamente se basto pigiare un bottone per farla crollare. Ma chi pigio il bottone e chi aveva scavato le gallerie per minarla?
Questi i problemi che attendono lo storico, e che sono al di fuori dell’ambito proprio al liturgista ed al teologo.
Allorché si esaminano da vicino questi cambiamenti così massicci, bisogna ricordarsi che le ragioni proclamate non sono necessariamente le vere, in parte perché il problema può essere non già che cosa la gente pensi ma perché lo pensi, in parte perché i motivi conclamati sono probabilmente razionalizzazioni post hoc di sentimenti più profondi e forse inesplicabili. Se questo vale per la Riforma protestante o per la Rivoluzione francese, varrà anche per la Riforma liturgica. Le ragioni proclamate meritano tuttavia d’essere prese in esame.
Quelle, anzitutto, del fautore del latino.
Quali ragioni adduce a pro del mantenimento d’una liturgia che in gran parte non si ode e per lo più non si capisce? Egli lamenta la perdita irreparabile d’un simbolo d’unità nel tempo e nello spazio, mostra l’assurdo d’un inglese che va a cercarsi a Roma la sua chiesa tribale; i conflitti inevitabili che nascono dal vernacolo in società plurilinguistiche; il pericolo che rappresentano per la Chiesa le lingue dei colonizzatori in paesi di emancipazione recente. Non solo le versioni sono inadeguate ma è puerile immaginare che si sia cresta una liturgia volgare soltanto col tradurre dal latino poiché ogni lingua ha una propria congeniale natura e l’equivalente inglese di un epigramma latino sarebbe un passo della magniloquente prosa di Macaulay. Comunque sia, non soltanto il silenzio è altamente significativo, ma è l’unico elemento comune fra tutte le lingue. C’è inoltre il problema insolubile della musica, e via enumerando.
Ragioni come queste sono oggettivamente veritiere, valide e ponderose, ma si può ben dubitare che siano le vere ragioni per cui il fautore del latino odia il volgare. Esse sono, fra l’altro, ragioni accidentali. S’immagini che l’inglese fosse dichiarato lingua universale della Chiesa e che la Messa, non tradotta ma riscritta in un inglese impeccabile ed armonioso, fosse celebrato dal sacerdote meno inadeguato fra tutti. Forse che il fautore del latino l’accetterebbe? Certo che no. Essa continuerebbe a stridergli nel profondo dell’anima. Continuerebbe a crudelmente soffrire.
Messo alle strette, pero, il fautore del latino avanza tutt’altro genere di ragioni, in modo spesso e variamente inadeguato; buon segno in verità, poiché le argomentazioni astratte sono sempre chiare mentre la realtà viva non è mai del tutto esprimibile.
Queste ragioni suonano più o meno così: “La Messa ha perduto il suo anonimato. Nell’antica, il sacerdote non aveva importanza, adesso ogni sua parola è intenzionalmente significativa e, poiché egli parla la sua lingua che non posso fare a meno di capire, mi urta. Pregare è impossibile, perché la mia lingua non solo mi distrae ma è in se stessa la distrazione. Peggio ancora: ho smarrito anch’io il mio anonimato. Nella antica Messa, io non contavo; adesso mi tocca esprimermi e per giunta in comune. Ero raccolto, ora debbo essere attivo, due inconciliabili. Nella vecchia Messa il cuore parlava al cuore, cor ad cor loquitur; ora che la Messa si ode tutta, è il cuore a non parlar più. Ogni traccia di devozione è svanita.
Un simile punto di vista può sembrare piuttosto soggettivo, ma ha un enorme vantaggio: il timbro della verità; probabilmente è una buona pista verso i veri motivi che cela questo atteggiamento. Fra l’altro, la direbbe lunga su un fenomeno innegabile: e cioè che coloro che meno conoscono il latino sono quelli che più ne deplorano generalmente la perdita: la lingua ieratica li aiutava a raggiungere l’anonimato; per un dotto conoscitore il latino aveva un palese significato e poteva valergli il vernacolo.
Quali, viceversa, le ragioni dichiarate del vernacolarista? Una si può eliminare d’acchito perché non regge, e cioè che la Messa offra alla Chiesa l’occasione più naturale di assolvere alla propria missione d’insegnamento. Forse che nessuno ha mai pensato di predicare durante la Messa? Che cosa s’insegna costringendo a borbottare tutto l’anno “Signore, pietà” invece di far ascoltare il Kyrie eleison Tra l’altro, è proprio vero che “Il Signore sia con voi” ha lo stesso significato di Dominus vobiscum? Produce veramente le stesse immagini mentali, conduce alle stesse associazioni?
D’altronde, a parte la teoria, il fatto che l’assemblea fosse composta esclusivamente di “periti” che non hanno nulla da imparare, impedirebbe in pratica al vernacolarista di celebrare la sua Messa in vernacolo? No di certo; al contrario.
Un’altra linea di pensiero, assai più interessante benché neppure questa sembri una causa sufficiente a mutamenti tanto drammatici, è nel vernacolarista la aspirazione al revival religioso, il “torniamo ai primordi” comune a ogni rivoluzione. Le società sembrano raggiungere di quando in quando uno stato tale di perfezione che la gente se ne disgusta cordialmente. Le tecniche sembrano troppo raffinate, i contenuti troppo gracili. La protesta mira non ad incrementare il contenuto bensì a spaccare il contenente: “Torniamo ai primordi!”
Nel 1520 che cosa avrebbe potuto produrre la Germania medievale dopo la Hellenkirche? Che cosa si poteva intagliare, dopo Riemenschneider? “Torniamo alla Bibbia!”: prima che si edificassero chiese o si intagliassero figure.
E che cosa si poteva fare nella Francia dell’ancien régime, se non distruggerla?
“Torniamo alle virtù di Roma repubblicana!”
Non si pecca forse di scorrettezza se si dirà che in questi tempi burrascosi la Barca di Pietro appariva un po’ troppo salda. Poiché le onde non riuscivano a sbalestrarla, forse ci sarebbero riusciti i marinai. Essa cavalcava i marosi con un trionfalismo esasperante: “la nostra Fede, che è il principio trionfale che trionfa del mondo” (Giovanni, 1, 5-4); eh, no, bisogna impedirlo far si che imbarchi un po’ d’acqua. La ciurma era governata dalla legge imperturbabile del diritto canonico; un po’ di capriccio, un tocco d’anarchia bisogna introdurli subito: “Torniamo alla Chiesa dei primordi!”
Certo, non è questo il primo revival che abbia afflitto la Chiesa. Il movimento per la riesumazione del gotico non è neanche finito, sicché lo stesso prete il quale qualche anno fa proclamava che la conversione dell’Inghilterra era questione di iconostasi goticheggianti, cortinaggi d’altare, amitti ornamentati, gregoriano e scolastica, adesso è convintissimo che l’altare rivolto al popolo, la stola più spoglia, gran letture bibliche, una messa comunitaria e l’esistenzialismo convertiranno il mondo. La cosa più curiosa è il periodo che oggi si è scelto di far rivivere.
La straordinaria somiglianza fra il declino dell’Occidente e quello della Roma imperiale, fra l’età nostra e quella di Sant’Agostino, è stata riconosciuta da parecchio tempo. Sgomenta perciò che qualcuno desideri consapevolmente ripristinare il cristianesimo quale fu dal IV al VI secolo. Eppure s’è scelto proprio quello. Come ogni revival, anche questo seleziona con gran cura, e come prima si pigliava il rapido per Edimburgo ad una stazione gotica e si mangiava con posate vittoriane su una conventina gotica, così è soltanto la socialità religiosa del culto pubblico che si vuole ridestare fra i vari caratteri dell’epoca di Sant’Agostino. Non sono pero considerati da imitare fenomeni religiosi ben più significativi dello stesso periodo, come quelli rappresentati dagli stiliti o dai monaci della Tebaide, da coloro che la socialità religiosa del loro tempo spinse nel deserto o in cima ad una colonna
Ma se queste forme estreme di individualismo religioso non sono state trascelte per l’imitazione odierna, questo non impedisce che riemergano. Un egregio autore ha scritto in una lettera privata, a proposito dei mutamenti liturgici: “Mi debbo ricordare che compito della Chiesa è trasmettere il deposito della fede attraverso i secoli, e che la sua testimonianza nei templi è soltanto una parte, e da ora in poi forse una parte decrescente, del suo destino L’unica conseguenza positiva è che forse molti di più tra noi saranno spinti nel Castello Interiore di Santa Teresa dove Dio può parlare nel suo linguaggio di silenzio”. Costui è maturo per il deserto.
Ma per quanto fascinoso possa essere un revival, per rappresentativo che possa essere di un movimento, non può mai esserne la causa.
No, la giustificazione fondamentale della Messa volgare è, come proclamano gli stessi vernacolaristi, la partecipazione. Il guaio è che la parola è molto ambigua.
Partecipare a che cosa, come, con chi? Partecipare a una società a responsabilità limitata, a una conversazione, a una recita teatrale, sono atti che implicano accezioni abbastanza diverse del vocabolo. Poi ci sono piani ben separati su cui si può ritenere che una persona partecipi: l’ecclesiale (in quanto membro della Chiesa) e il personale. Tanto vale dir subito che una liturgia inintelligibile non compromette il primo. Il fantolino che non capisce niente e strilla nel suo particolare vernacolo durante tutta la Messa partecipa, sul piano ecclesiale, con la stessa pienezza del celebrante, perché è membro della Chiesa e perché la Chiesa è presente in ognuno dei suoi membri come Gesù Cristo è ugualmente presente in ogni ostia consacrata. È nel piano personale che il fantolino è come o peggio che assente. Ne consegue che la partecipazione a cui mira una liturgia comprensibile deve attuarsi sul piano personale.
Ma si partecipa con chi? Qual è la “controparte” partecipe?
Non si può sostenere che sia Dio. Anche se l’osservazione sembra una celia, è ben vero che l’unica persona ostinata nel rifiuto di partecipare ad un’udibile Messa volgare è Dio; da parte Sua Egli continua a pronunciare nulla più che il Verbo fatto Carne. Se comunque la partecipazione a Dio può dipendere in qualsiasi modo da una liturgia volgare e udibile, allora dovunque, da più di mille anni, la Chiesa ha incoraggiato e insegnato una frequentazione inadeguata dei Sacri Misteri.
E se questo è vero, in che cosa ci si fiderà mai della Chiesa, se non c’è da darle credito neanche in ciò che eminentemente la concerne: la religione stessa, la partecipazione dell’uomo a Dio?
Se non è Dio, la controparte nel rapporto di partecipazione sarà forse il sacerdote ed i compagni di culto? Sembrerebbe a prima vista di si. Il canonico J. B. O’Connell negli Opuscoli dei Redentoristi (Redemptorist Pamphlets) scrive: “il quasi incredibile che per un millennio il rapporto vitale fra il popolo dei fedeli nei banchi ed i ministri all’altare sia rimasto tagliato”. Si dà qui per scontato che sia l’attività vernacola ed udibile a formare il rapporto vitale fra fedeli e ministri e non già la raccolta attenzione della assemblea, che poté certo esservi sempre. Ma le cose stanno davvero in termini così elementari?
Se è indubbio che taluni ricavano un beneficio psicologico dalla preghiera comunitaria, altrettanto lo è che molti non lo ricavano per niente. Anzi, invece di apportare un ricco sentimento di comunione, di incorporazione nell’assemblea, essa ha prodotto una frattura che prima sarebbe stata inconcepibile.
D’altra parte, un simile concetto di partecipazione non basta a spiegare tutto: perché mai i monasteri femminili sono stati particolarmente trascelti per farvi celebrare la Messa volgare? Lo stato spirituale di quasi tutte le monache è quello dell’orazione di pure presenza; la Messa volgare è probabile che provochi in loro una crudelissima sofferenza invece di rafforzarne lo Spirito di comunità; già forse hanno troppe preghiere in comune, aggiungere alla lista anche la Messa sembra un atto leggermente brutale.
O ancora, nei giorni feriali in certe chiesette minori, il semplice fatto che nessuno dei devoti apra bocca e che ci si conoscano tutti per favorevoli al latino, non impedirà ad un prete, che intenda farlo, di dire la messa volgare. Non che egli sia necessariamente un sadico, ma certo i suoi motivi per agire in tal modo debbono essere diversi dal desiderio di ripristinare “il rapporto vitale fra il popolo nella navata ed il ministro all’altare”.
Se la partecipazione come causa sufficiente per la liturgia volgare non può significare aver parte con Dio e non vuol precisamente dire far parte con il sacerdote ed il vicino, forse va intesa come “assumere una parte”: rappresentare, piuttosto che condividere. Cosi deve essere, poiché, per quanto una persona lo conosca bene, di norma non pensa in latino né si esprime in latino, soprattutto con se stesso: gli rimane artificiale. può conoscere il significato di Agnus Dei, ma non c’è qui una sua personale implicazione, è come se stesse parlando un altro, laddove “Agnello di Dio” ha per lui un significato reale, implica un affidarsi, un consegnare se stesso.
Anche se la assemblea rifiuta caparbiamente di rispondere, il prete, con eroica risoluzione, continuerà a dire la messa volgare, si consegnerà nella lingua in cui può mettere dell’intenzione.
Se poi l’assemblea risponde, sarà dalla somma delle personali volontà di consegnarsi che sorgerà la inebriata partecipazione con il vicino, il “rapporto vitale” di cui parla O’Connell. La Messa latina dialogata era del tutto insufficiente a questo fine particolare; gli inservienti erano semplicemente moltiplicati da due magari a duecento, ma inservienti rimanevano: non partècipi, non consegnati, impersonali, anonimi, per mera forza della lingua ieratica. Ma ora, nella loro lingua, parlano con intenzione, non sono più inservienti ma persone, non schiavi ma uomini liberi: “popolo di Dio”.
Se questa breve analisi dei motivi dichiarati dei fautori del latino o del volgare si avvicina al vero, la questione risulta abbastanza chiaramente definita. Il fautore del latino cerca nella Messa la dissoluzione dell’io, l’anonimato; il vernacolarista l’impegno dell’io, l’uscita dall’anonimato. Essi sono dunque irriconciliabili.
Ma, se il punto controverso risulta chiaramente definito, rimane il problema di come sia potuto avvenire uno scontro frontale entro una religione così dogmatica e unificata come quella della vera Chiesa. Prima di esaminare le possibili soluzioni, occorre escludere una spiegazione semplice: che è questione di temperamento; i fautori del latino sono degli introversi che cercano di perdersi perfino nel culto pubblico, i vernacolaristi invece degli estroversi che vogliono imprimere la loro personalità perfino sulla Messa.
I fatti, ahimè, non lo confermano: conosciamo tutti dei vernacolaristi introversi e degli estroversi fautori del latino. È veramente molto comico pensare che certi papi rinascimentali fossero degli introversi all’ultimo stadio. E che cosa avrebbe fatto diventare tutti estroversi nel bel mezzo del XX secolo? La spiegazione non funziona.
Certo è che, a parte il suo temperamento, un uomo per pregare deve essere capace di un minimo di introversione. La quieta, piccola voce giunta a Elia non si adatta al microfono. Ma questa è un’altra questione.
Lex orandi, lex credendi. Le liturgie possono mutare soltanto per due motivi: sono cambiate le credenze, la lex credendi, o è cambiato l’atteggiamento verso la preghiera, la lex orandi. Fu perfettamente giusto che al tempo della Riforma i protestanti cambiassero la liturgia, se non l’avessero fatto sarebbero stati degli ipocriti.
C’è stato un mutamento della fede, in seno alla Chiesa, tale da compromettere la liturgia della Messa?
Non è un problema, questo, su cui gli storici possano emettere per adesso un giudizio valido. La pozione intellettuale è ancora in fermento e non la si può imbottigliare e mettervi un’etichetta. Si è tenuti alla cautela. Si dice, per esempio, che il 60% degli studenti di teologia d’un seminario maggiore austriaco non creda alla Presenza Reale sotto nessuna riconoscibile forma. Ma forse il 60% del cervello dell’intervistatore non sapeva riconoscere la forma in cui quegli studenti credevano alla Presenza Reale.
È certo, comunque, che vi sono stati dogli spostamenti d’accento. Due di questi spostamenti, uno positivo e l’altro negativo, paiono degni di menzione.
Negativamente, “transustanziazione” è diventata una parola altrettanto oscena quanto “trionfalismo” o “diritto canonico”. La ragione è filosofica e può non aver niente o ben poco a vedere con la teologia. Ma il risultato è che il clero secolare, la cui fede nella Presenza Reale e schietta come l’oro, ha perduto un termine che gli era perfettamente significativo e che nessun altro ha sostituito. Di conseguenza sono rimasti senza parola dinanzi al mistero centrale della fede cristiana.
Più importante è il cambiamento positivo. Molti studiosi, con un seguito numeroso nel clero, non negherebbero certo la Presenza Reale ma credono che usarne separatamente dall’evento comunitario, dalla attiva partecipazione (recita) del Popolo di Dio alla Cena del Signore ñ la Messa ñ sia un abuso. Come la loro ripugnanza per il termine “transustanziazione”, anche quest’altra idea si fonda in una filosofia esistenziale invece che ontologica.
Eppure pochi porterebbero questa concezione esistenziale alla sua estrema, ma logica conseguenza: che fuori della Messa la Presenza Reale non ha senso, né, dunque, esistenza.
Questo atteggiamento spiega parecchio di quanto è accaduto e probabilmente accadrà nelle chiese cattoliche. Il Santissimo Sacramento è stato rimosso dall’altare maggiore grazie al semplice espediente di voltare l’altare. È ancora conservato, ma il più discretamente possibile, per scongiurare gli abusi della devozione privata. Sarebbe meglio non conservarlo affatto nella Riserva ma deporre le ostie non consumate nel santuario, dal momento, poi, che il Viatico è indesiderabile, militando esso contro il giusto uso del Sacramento dell’Unzione.
Non è difficile trovare chiese chiuse allorché non vi si officia, benché in esse non ci sia niente da rubare o da sconsacrare. Un numero sorprendente di preti già esita, specie nei giorni di festa a dire la messa privata, che probabilmente non sopravviverà a lungo. Le polemiche correnti contro le elemosine per la Messa si possono considerare un mezzo per divezzare il clero dall’interesse investito nel preservare tali messe.
La concelebrazione a onor del vero non fu troppo diffusa, finché non si concesse a tutti i concelebranti di accettare l’elemosina. In pratica la Benedizione è stata abolita con l’introduzione della Messa vespertina, accoppiata al recente decreto che ne vietava la celebrazione prima o dopo la Messa. Le processioni del Corpus Domini stanno segnando il passo e le Quaranta Ore saranno quietamente abbandonate. Salvo forse qualche specie di “servizi per gruppi di studio” rimarrà soltanto la Messa, ma la Presenza Reale, invece che il centro della devozione cristiana, dovrà diventare un “avvenimento” impegnativo. Questa la tesi benissimo enunciata in una pastorale recente da uno dei nostri vescovi inglesi: “Finora la maggioranza fra noi ha trascorso l’intervallo di silenzio fra il Sanctus ed il Pater aspettando la venuta di Nostro Signore… per adorarlo veracemente presente nel Santissimo Sacramento… La Chiesa ci sta togliendo questo silenzio… non perché non creda valida e necessaria questo genere di preghiera, ma perché non pensa che il momento del Canone sia il più adatto ad essa”: vale a dire il più adatto all’adorazione del Signore nel Santissimo Sacramento! Inevitabilmente, poiché il vescovo in questione è uomo d’onore e devoto, prosegue raccomandando la fuga nel deserto: “Nostro Signore in persona ci offre in merito l’insegnamento opportuno, e l’esempio. Disse: Ma quando pregate, andate nella vostra camera…”.
Si, proprio così, non si può, anzi non si deve, pregare in chiesa. Non c’è da sorprendersi se le chiese si svuotino
Che questo spostamento di accento nella lex credendi abbia fornito l’energia propulsiva all’introduzione delle liturgie volgari pare innegabile. Tuttavia non spiega tutta la gamma dei fatti. La concezione esistenzialista e attivistica del Santissimo Sacramento è di una minoranza esigua del clero secolare, benché possa essere più diffusa fra gl’intellettuali del clero regolare.
La stragrande maggioranza conserva una visione del tutto tradizionale della Messa e della Presenza Reale. Se, dunque, hanno accolto volentieri il vernacolo, non è certo perché sottoscrivano a un qualsiasi spostamento di accento nella fede. Sarebbero probabilmente sconvolti se pensassero che possa esservi una qualunque relazione tra le due cose. Se dunque è così, allora la vera ragione per i drammatici mutamenti di cui siamo testimoni va cercava altrove. ciò non significa che lo Zeitgeist, così mirabilmente illustrato dagli spostamenti d’accento nella lex credendi, non sia importante; significa pero che deve aver trovato il terreno stranamente ben preparato perché potesse esservi seminato, crescere, fiorire e fruttificare, come un qualche raro fiore del deserto, nello spazio di una notte.
Vi è stato dunque un mutamento nella lex orandi, nella teoria e nella pratica della preghiera? Indubbiamente si, e un mutamento così sottile, esteso su tante centinaia d’anni, da passare quasi inosservato.
La concezione tradizionale, universalmente accettata fino alla Riforma, e nella Chiesa cattolica sino ad oggi, è che la preghiera cristiana sia un atto di abituale grazia santificante. Vale a dire che la preghiera di un cristiano differisce dall’atto equivalente di uno Stoico o di un Buddista non soltanto nel contenuto o nell’oggetto ma nell’essenza. Mentre lo Stoico o il Buddista sta compiendo un atto naturale, favorito dalla grazia attuale, il Cristiano sta favorendo un atto soprannaturale compiuto dallo Spirito Santo. I due processi sono chiaramente contrari; il primo è un atto umano santificato, il secondo un atto divino umanizzato.
Poiché lo Spirito Santo è l’operatore e l’essere umano soltanto il cooperatore nell’orazione cristiana, ne consegue infallibilmente che questa è l’atto, tra tutti, che può esser compiuto solo in istato di grazia. Un uomo può ricevere sacrilegamente la Santa Comunione, ma non può sacrilegamente pregare. Dunque, o dovrà sforzarsi, almeno in certa misura, di essere in istato di grazia, o se, dopo peccato grave, è consapevole di trovarsi in istato di preghiera, allora dovrà aver compiuto qualche atto equivalente alla contrizione perfetta, poiché, per pregare, deve trovarsi in istato di grazia. In pratica, la concezione tradizionale preferisce la prima alternativa: un certo sforzo deve essere compiuto per trovarsi in istato di grazia. Donde l’importanza di ciò che gli antichi chiamavano “temperanza”, gli scrittori più tardi “mortificazione” e i moderni “ascetica”, vale a dire la pratica delle virtù e delle pie meditazioni. Ma la pratica dell’ascetismo non è in se stessa formalmente preghiera. Si limita a provvedere le circostanze nelle quali la preghiera è normalmente possibile. È vero che la meditazione può essere preghiera, ma lo sarà non in virtù della cosa meditata ma dell’intenzione, poiché la cooperazione umana con lo Spirito Santo non è un atto dell’intelligenza ma un atto della volontà.
Cosi, i pensieri che un sacerdote esprime nell’omelia, o un professore di teologia nella lezione, non sono preghiere; rimangono esattamente ciò che vogliono essere: veritieri, belli e pii pensieri. Un predicatore potrà indubbiamente essere indotto a pregare dalla sua stessa predicazione, ma non appena lo farà dovrà cessare di predicare, a meno che, come il Curato d’Ars, non sia in uno stato abituale di preghiera. L’attività dell’essere umano in preghiera è qualcosa di assai diverso: è aderenza alla grazia e meno esso interferisce con lo Spirito Santo, meglio è. Questo egli non lo compie con pii pensieri e buone risoluzioni che rimarrebbero i “suoi” pensieri e le “sue” risoluzioni ñ forme, tutte, di egocentrismo ñ ma con l’immediato cancellarsi, con l’abbandono di tutto ciò che è “suo” per divenire teocentrico quanto lo consente la grazia. Dovrebbe raccogliersi e svuotarsi, così da lasciare spazio per la divina operazione dello Spirito Santo. Sebbene petizione, propiziazione e resa di grazie abbiano il loro posto nella preghiera, la nota finale è l’adorazione, l’amour pur della controversia Fénélon-Boussuet, proprio quella cosa che, secondo il discorso episcopale testé citato, è oggi considerato un’attività sconveniente durante il Canone della Messa.
Nella concezione tradizionale è appassionatamente negato che la sua teocentricità sia in qualsiasi modo anti-sociale. Al contrario. Tutte le nostre pie esortazioni a noi stessi e risoluzioni di amare il prossimo nostro possono aiutarci ad essere con lui ragionevolmente cortesi e ad esercitare un’ipocrisia bene intenzionata, ma non possono farcelo amare perché rimangono meri atti umani. Ma la preghiera vera, nella quale la persona dimentica il proprio prossimo come se stessa per aderire a Dio solo, lo perfeziona in modo tale che, con sua stessa sorpresa, potrà accadergli di scoprire in quel prossimo ragioni di amarlo mai prima immaginate. Questa è l’operazione della grazia.
Né si deve immaginare che simile concezione della preghiera si debba riferire ai grandi contemplativi nella via unitiva ma non si possa applicare al semplice fedele. Non è così. Tutte le forme di orazione peculiari alla Chiesa e da essa incoraggiate implicano e richiedono uno stato di raccoglimento e di adesione, e non di intenzionale dedizione e attività. Il Rosario, le Litanie, le Stazioni della Via Crucis, le Lodi Divine, le giaculatorie indulgenziate, chi ha mai pensato alla parola parlata e persino al particolare mistero? Quale mai significato possono avere simili reiterazioni? Il loro uso serve a ridurre l’attività della mente umana ad un minimo così da liberare l’anima e disporla all’adesione a Dio nell’orazione.
Concessa questa filosofia dell’orazione, la posizione del latinista si mostra perfettamente razionale. Egli assisterà alla Messa con in mano un Rosario, una Filotea, un’Imitazione di Cristo, un Messale o nulla assolutamente: con qualsiasi strumento l’esperienza gli indichi come più utile a tenerlo raccolto in se stesso attento all’adorabile Presenza. Questo desiderio di anonimato, di raccoglimento, onde adorare Gesù Cristo realmente presente nel Santissimo Sacramento, non è preferenza personale nata dall’abitudine, è parte integrante della più intima fede. Il vernacolarista non ha bisogno di sostenere che dai Padri del Deserto in giù fino al benedettino John Chapman tutti i cattolici di tutto il mondo si sono mostrati inspiegabilmente ottusi: possono avere avuto un’errata filosofia dell’orazione, ma, qualunque essa fosse, la loro liturgia la esemplificava perfettamente.
Che la filosofia tradizionale dell’orazione fosse inaccettabile per i riformatori protestanti, specie per Calvino, è abbastanza ovvio; tutto il sistema cattolico dell’orazione dové sparire insieme alla Messa, poiché i riformatori propugnavano un diverso sistema della grazia, e sarebbe assai interessante in proposito un’analisi delle numerose liturgie protestanti.
Ma quando fu che si cambio atteggiamento fra i cattolici?
Henri Brémond attribuì il mutamento agli Esercizi di sant’Ignazio. Quale fosse la natura della orazione di Sant’Ignazio stesso, la ripetizione costante dogli Esercizi, specie com’era raccomandata nella Perfezione del Rodriguez, non poteva non dare l’impressione che la preghiera fosse essenzialmente un atto umano che dipendeva, al pari d’ogni altro, dalla grazia attuale e non già un atto soprannaturale dipendente dallo Spirito Santo attraverso l’abituale grazia santificante.
Per pregare si doveva scegliere un tema di meditazione, immaginare composizioni di tempo e luogo, trarre conclusioni, eccitare affetti, prendere risoluzioni; inoltre l’obiettivo dell’esercizio era antropocentrico: la propria perfezione, e non teocentrico: l’adorazione di Dio. Il risultato, secondo Brémond era l’opposto dell’orazione: invece di un’operazione della volontà volta allo svuotamento di sé, invece d’un raccoglimento e un’adesione volti all’adorazione di Dio, si ebbe il massimo di attività intellettuale e fantastica volta alla propria perfezione. Fu una sostituzione dell’ascetica all’orazione, del mezzo al fine. Un professore di teologia del tipo lirico dovrebbe pregare in tal modo meglio di chiunque e resterebbe un mistero insondabile come persone così stupide come Santa Teresina o Bernadette Soubirous potessero mai pregare.
Il principio unificante della vasta produzione letteraria di Brémond è l’illustrazione di questa tesi e, fra diecimila altre, egli tira fuori questa citazione, così formidabile che nessuno, per poco che sia interessato alla questione, potrebbe tralasciarla. Nel 1923 un certo Padre Vincent pubblico un’opera intitolata François de Sales Directeur d’âmes et éducateur de la volonté (
1). Eccone alcuni passi essenziali.
“Se vediamo Dio come lo videro gli Ebrei, nella sua conturbante maestà, non saremo forse portati a prostrarci dinanzi a Lui, subordinando quindi tutti i nostri doveri religiosi a quello della adorazione e della lode? Se l’uomo concepisce Dio alla maniera giudaica, tenderà a dimenticarsi, a perdersi di vista per vedere in certo qual modo soltanto il suo Signore onnipotente.
Se d’altro canto Dio è pensato come un padre o un tutore indulgente, desideroso di ornare le nostre anime, infallibilmente concentreremo le nostre preoccupazioni su noi stessi”.
Padre Vincent procede quindi a dimostrare che se la tradizione adoratrice duro un millennio e mezzo, lo si dovette al fatto che gli antichi Padri erano impregnati di giudaismo e che i loro atteggiamenti furono perpetuati dai monaci benedettini. Questa aggiunta era ben vera allorquando abate di Downside era Dom John Chapman, ma il vescovo Butler (suo successore) forse la troverebbe un po’ dura nei propri confronti. “L’ascetismo liturgico”, prosegue Padre Vincent, designando con questa buffa locuzione la concezione tradizionale della preghiera, “che ebbe origine, avanti il Vangelo, nella vecchia legge mosaica, e che è basato sul timore riverenziale della divinità, rimane la norma fino al secolo XVI”. Ma finalmente arrivano i gesuiti con il loro “concetto più alto della religione”. Loro capirono che Dio “è assetato del nostro progresso spirituale più che della nostra lode”. Alla fine “identificarono la Cristianità con il progresso morale”. La loro preoccupazione invariabile e primaria “fu di onorare Dio premièrement par la culture de soi, secondement par la culture des autres“. La lode di Dio certo è cosa eccellente “ma soltanto nella misura in cui contribuisce alla nostra crescita morale. In se stessa non è niente, se non la riduciamo alla sua funzione strumentale, se non ne facciamo un mezzo di (auto)perfezione e uno strumento d’amore (per il prossimo)”.
Sapere se le valutazioni storiche di Padre Vincent a proposito di ebrei e gesuiti siano vere o false esula dai nostri fini, ne tratteremo comunque più avanti. i! certo che la sua filosofia dell’orazione è una rivoluzione integrale e giustifica del tutto la diagnosi di Brémond. È anche innegabile che sia questa filosofia della orazione a giustificare la liturgia volgare. Se la preghiera equivale al “progresso morale”, se è un atto umano, che dipende come qualunque altro dalla grazia attuale e che è diretto al perfezionamento di sé, certo ci dovrà essere una liturgia comprensibile vernacola, didattica che il fedele possa “rappresentare”, capire, con cui possa esprimersi, impegnarsi e consegnarsi. Forse il vernacolarista ha una errata filosofia dell’orazione, ma la sua liturgia sicuramente la esemplifica alla perfezione.
Di là da ogni ragionevole dubbio, questa è la causa sufficiente del cambiamento liturgico di così vasta portata di cui siamo stati testimoni. Forse gli spostamenti di accento nella lex credendi hanno provocato la deflagrazione, ma il gran monumento della Messa latina era stato prima minato da un mutare lento e silenzioso della lex orandi, della dottrina della grazia come incide sulla preghiera.
Resta a vedere come questo mutamento lento e silenzioso si produsse. Tanto Brémond che Vincent l’attribuiscono ai gesuiti, l’uno a loro dannazione, l’altro a loro gloria. Ma per plausibile che la tesi appaia, non combacia coi fatti.
Gli Esercizi, quale ne sia l’interpretazione tarda, nei secoli XVI e XVII si ritennero solo Esercizi, una forma di allenamento di alta ascetica, e non un manuale di preghiera. Come pregasse Sant’Ignazio stesso si può inferire dal fatto che dovette ottenere la dispensa dalla recita dell’Ufficio “perché quasi tutta la sua giornata se ne andava nel dirlo, tanto abbondanti erano le visitazioni divine che gliene scaturivano (S. Sophia, III, 1, C. VII, § 28). In tali condizioni non sarebbe giunto molto in là con gli esercizi, come metodo di orazione. Il confessore di Santa Teresa Padre Baldassarre Alvarez abbandono decisamente gli Esercizi; alcuni intriganti lo denunciarono al Generale, ma sta di fatto che egli si difese benissimo e più tardi gli furono affidate le massime cariche nella Compagnia. più strano è il caso della Perfezione del Rodriguez, poiché mostra con quale diverso spirito si leggano i libri in tempi diversi. Per Brémond nel XX secolo essa è la causa d’ogni male, eppure figura nella lista dei libri raccomandati dal benedettino Dom Augustine Baker, il campione della spiritualità tradizionale agli inizi del secolo XVII. Si potrebbe continuare a lungo.
L’atteggiamento fondamentale della Compagnia di Gesù in queste materie, avanti la soppressione, si può giudicare da come parteggio nella controversia fra Fénélon e Bossuet: la difesa di Fénélon fu organizzata da Padre Dez della Chiesa del Gesù. L’origine della nuova spiritualità va cercata dunque altrove. L’onore o l’infamia non spettano alla Compagnia.
È chiaro come il sole che una nuova filosofia dell’orazione può solo nascere come conseguenza d’una nuova teoria della grazia e questa fu fornita non dai gesuiti, ma dai giansenisti. Anche loro promossero una riviviscenza del IV e del VI secolo, ma andarono ben al di là dei moderni, risuscitando la Tebaide: un deserto per intellettuali a Port Royal des Champs. Ma, quel che più importa, la loro teoria della “grazia sufficiente” spezzava in due la concezione tradizionale della orazione perché negava l’esistenza della grazia santificante su cui quella concezione riposa. La “grazia sufficiente” riguarda sempre gli atti, mentre la grazia santificante riguarda uno stato. Sotto molti aspetti i giansenisti furono esistenzialisti avanti lettera.
Come conseguenza naturale di questa teoria, se mai qualcuno “identifico il cristianesimo con il progresso morale” questi furono i giansenisti e non i gesuiti (con il loro “lassismo morale”). Non è per mera coincidenza che i giansenisti in Olanda avevano una liturgia volgare prima della fine del secolo XVII e che il giansenista Noailles la frequentava a Parigi nel 1709.
La nuova spiritualità fu iniettata nella Chiesa nientemeno che da Bossuet. Anche se egli non era giansenista, lo era certamente il suo teologo, Nicole. Benché non aderisse alla teoria della “grazia sufficiente” dovette sentire una naturale attrazione verso il loro atteggiamento in materia di preghiera. Bossuet era appunto un teologo di tipo lirico che probabilmente pregava facendo a Dio lezioni di teologia così come i suoi scritti teologici sono sublimati da un’unico fluire di lirismo. Quali che fossero le vere origini della controversia sul quietismo (e forse resteranno per sempre avvolte nelle tenebre), non c’è dubbio che i giansenisti, grazie a Nicole, si servirono di Bossuet per attaccare la spiritualità tradizionale attraverso a Mme Guyon. Il bersaglio non era tanto quella pia, intelligente dama che scribacchiava troppo, ma l’amour pur, l’amore disinteressato, l’adorazione pura: ciò che precisamente adesso è dichiarato inadatto al Canone della Messa.
Fénélon sorse a difendere la spiritualità tradizionale ed il risultato furono gli Articoli di Issy, la capitolazione completa di Bossuet. Ma non era ancora finita, Fénélon, comprensibilmente ma forse poco saggiamente, buttò fuori un libretto perfettamente anodino ma di non grande qualità Maximes des saints. L’aquila di Meaux, con occhio d’aquila appunto, riuscì a vedervi errori tali “da scuotere le fondamenta stesse della Cristianità”. Il resto è noto. Dopo le 132 sessioni d’una commissione romana, durate due anni, 23 proposizioni del tutto secondarie furono condannate da Innocenzo XII, ma non la dottrina dell’amour pur; come rilevo il cardinale de Bausset, Fénélon trionfo nella propria condanna.
Eppure i potenti, Bossuet ed i giansenisti, non avrebbero permesso che la cosa apparisse così. Fénélon è stato condannato, dunque tutto il suo sistema, la spiritualità tradizionale che egli difendeva, devono essere errati. Le conseguenze si palesarono subito: se il XVII secolo fu il più ricco di autori spirituali, il XVIII è sicuramente il più povero. Nessuno osava pregare, figuriamoci poi scrivere sulla preghiera.
Fénélon fu condannato il 12 marzo 1699. Immediatamente si apre l’età della ragione e dell’irreligione. In meno d’un secolo ci saranno vescovi come Loménie de Brienne e Talleyrand, sarà proclamata la costituzione civile del clero, abrogato il celibato ecclesiastico e introdotta la Messa volgare in più di ottanta delle centotrentacinque diocesi francesi.
Onore vada a chi lo merita. Nel crollo religioso del secolo XVIII, un Ordine si distinse nel tener fede alla spiritualità tradizionale, non i benedettini, parce Padre Vincent, ma i gesuiti, che s’inabissarono a vessilli spiegati. Caussade e Grou non sono soltanto i più alti autori spirituali del secolo, ma il secondo forse il più alto di quanti la Compagnia di Gesù ne ha prodotto.
La Compagnia di Gesù fu soppressa nel 1773. Rinacque quarant’un anni dopo. È molto, è più di una generazione. Qui Brémond e Vincent possono aver ragione: la Compagnia restaurata sembra aver avuto sulla preghiera una concezione leggermente diversa dall’antica. È, naturalmente, molto difficile resuscitare lo spirito, più facile resuscitare la lettera ñ ma “è lo spirito che vivifica”. Nessuno nega che nella Compagnia vi siano stati, negli ultimi 156 anni, grandi maestri di spiritualità: tutti ne abbiamo conosciuto personalmente qualcuno. Ma è anche difficile negare due proposizioni: 1. che molti singoli Gesuiti sono oggi in prima linea nell’introdurre proprio quella forma di orazione che l’antica compagnia combatté fino all’ultimo sangue; 2. che la nuova spiritualità è stata diffusa in parte da un uso improprio degli Esercizi nei ritiri per il clero. Quest’ultima asserzione, se vera, la direbbe lunga sul perché il clero, e non il laicato, è particolarmente prono alle nuove tendenze.
Questo saggio avrà adempiuto al suo compito se avrà mostrato che i fautori del latino ed i vernacolaristi non si ostinano intorno ad una questione superficiale di forma liturgica o di pratica pastorale. È l’intero fondamento dell’orazione, della Chiesa in actu che ne va di mezzo. Dunque è di somma importanza che si chiariscano alcuni quesiti.
Prima di tutto: nella Lex credendi, si esige una qualche autoritativa asserzione tanto sul Divino Sacrificio della Messa come sulla Presenza Reale. Gesù nel Santissimo Sacramento è soltanto la Via, o anche la Verità e la Vita? È ovvio che il peggior momento possibile per riformare una liturgia è quando vi sia il pur minimo elemento di dubbio su ciò che essa intende significare.
E poi: nella lex orandi, è di suprema importanza che sia dato insegnamento preciso su due punti: che cosa costituisce l’elemento della preghiera, l’azione dello Spirito Santo o quella dell’uomo? e qual è l’oggetto finale della preghiera: il perfezionamento di sé dell’uomo o la pura adorazione di Dio?
Fin quando non si saranno definiti questi punti, sulla vera e propria liturgia della Messa, dall’Offertorio alla Comunione compresa, non dovrebbe esser alzata la mano. In realtà sarebbe commendevole restaurare l’antico rito, per lo meno facoltativamente, onde non pregiudicare le deliberazioni dei Padri del Vaticano III.


Bryan Houghton




** BRYAN HOUGHTON, nato nel 1911, studiò a Friburgo e a Oxford. Si convertì dal protestantesimo al cattolicesimo nel 1934 e fu ordinato sacerdote nel 1940.
Assolse il suo ministero prima a Slough, in una parrocchia operaia, quindi, dal 1954, a Bury St. Edmund’s occupandosi soprattutto di problemi scolastici in distretti industriali, fondando scuole elementari nelle due parrocchie successivamente amministrate. È membro del Consiglio dell’Università dell’East Anglia.

1) Cfr. H. BRÉMOND, Introduction à la philosophie de la Prière, Paris: Blond & Gay, 1929.