Bene della vita e controllo della morte: riflessioni giuridiche

di Michele C. del Re. La vita, bene o strumento? Il controllo della morte. Eutanasia attiva e passiva, rifiuto di terapia, rifiuto di terapia. Il consenso a morire. Limiti alla disponibilità del corpo e della vita. Morte pietosa e libera morte: il tormentato percorso Leggi vigenti. Riferimenti. Conclusione

Bene della vita e controllo della morte: riflessioni giuridiche [1].


di Michele C. del Re


 1. Premessa: la vita, bene o strumento? – 2. Il controllo della morte – 3. Eutanasia attiva e passiva, rifiuto di terapia, rifiuto di terapia – 4. Il consenso a morire –  5. Limiti alla disponibilità del corpo e della vita – 6. Un esempio di schema di legge per l’eutanasia – 7. Morte pietosa e libera morte: il tormentato percorso – 8. Leggi vigenti. Riferimenti – 9. Conclusione: sanare i disagi, rispettare la vita, lenire il dolore.


 


1. Premessa: la vita, bene o strumento?


Non è possibile affrontare gli aspetti giuridici del problema dell’eutanasia e del suicidio, che si può raccogliere sotto il denominatore comune “controllo della morte”, senza richiamare innanzi tutto le diverse posizioni metagiuridiche assunte nei confronti della scelta per la morte. Le norme di legge vigenti hanno un senso, una portata, una lettura insomma, in forza delle ideologie sottostanti, le quali trovano, per dir così, il loro luogo operativo non soltanto nella costituzione formale, ma anche nella costituzione materiale. Alcuni giuristi affermano  che si deve escludere ogni giudizio preliminare di carattere etico o religioso, ma poi sostengono che il diritto è bilanciamento di beni giuridici gerarchicamente ordinati: entrano  così in contraddizione perché la determinazione della qualità di bene avviene sempre sul piano metagiuridico della coscienza sociale. La peculiarità del metodo giuridico sta piuttosto nel fatto che la “verità giuridica” si verifica per induzione, risalendo dal combinato disposto delle norme scritte, alle Grundnormen  metagiuridiche, considerando “vera” quella concezione che riesce a conciliarsi con tutte le norme del sistema giuridico. Soltanto quando una norma appare contraddittoria col sistema si potrà tentare di espungerla dichiarandone l’incostituzionalità, ma è scorretto metodologicamente dichiarare contraria ai principi costituzionali una norma in armonia col sistema, anche se appare in contrasto con un’ideologia diffusa.


Secondo la concezione etico-religiosa che è propria della tradizione giudaico-cristiana[2] ed ha permeato tutta la cultura occidentale, la vita stessa – mistero indefinibile di per sé – è un bene, un dono,  sicché essa è sacra indipendentemente dalla quantità di felicità, di benessere che offre. Sacra e indisponibile è dunque la vita del malato sofferente quanto quella della persona sana, colma di joie  de vivre. Se essere e bene sono identici, se essere per l’uomo è essere nell’entità totale corpo/anima, la vita, anche per il sofferente, è da considerarsi un bene. D’altronde il mistero del male nell’economia della vita, può risolversi rifiutando la propria condizione di vivente?  Per S. Tommaso[3], tre sono le ragioni che militano contro la liceità del suicidio: chi si uccide viola la legge naturale di carità che impone d’amare se stessi; offende la comunità, in quanto ciascuno è parte di essa; offende Dio, perché ciascuno non appartiene a sé stesso, ma a Dio e non può disporre di ciò che non è suo[4]. Tanto meno può disporne la società se non per ragioni di giustizia “in casi di estrema gravità”[5].


Corollario giuridico di questa posizione è logicamente quello del divieto legale del suicidio o almeno del disfavore al suicidio, e, a maggior ragione, di ogni intervento mortifero che prescinda dalla volontà del soggetto.


Concezione  soggettivistica, opposta alla precedente è quella che la vita è soltanto un mezzo per godere di beni che il mondo offre,  sicché quel che conta non è tanto la vita quanto la qualità della vita. La vita è un bene disponibile (perché è bene solo se sussiste un interesse a mantenerlo), anche al di là delle prescrizioni di legge, sicché la legge deve intervenire soltanto per disciplinare – direi, anche facilitare – l’uso del diritto alla morte.


Questa tesi si coordina con la concezione  sociologica (si potrebbe dire hobbesiana?) dei fondamenti del diritto, quale è accolta, ad esempio, in parte  della giurisprudenza e dottrina statunitense[6]; l’impostazione prescinde dal valore in sé del bene, ma si richiama agli interessi convergenti o contrastanti dell’individuo e della comunità organizzata.


La comunità organizzata può interferire nella assoluta libertà dell’individuo, soltanto quando l’atto del privato crea un clear and present danger (evidente ed attuale pericolo) in un settore vitale ed essenziale della società organizzata. Il diritto a privare un individuo della sua facoltà di rinunciare alla vita rifiutando le cure mediche o con un’azione positiva di suicidio è collegato e determinato dal bilanciamento degli interessi  in gioco: “per esempio, nei casi che riguardano pazienti con una prognosi negativa anche in caso di trattamento, l’interesse dello Stato è assai minore di quello che ha nell’ipotesi di un individuo che se curato ha un’aspettativa di vita sana e lunga”[7], sicché è ragionevole mandar esente da pena il medico che stacca, a richiesta, la spina, nei casi incurabili. n questa visione del mondo, il precetto salus aegroti suprema lex è sostituita dal precetto voluntas aegroti suprema lex. O addirittura la società organizzata potrà legiferare tenendo conto che se lo strumento-vita funziona male il medico potrà intervenire con la campana a morte per i sofferenti, tra l’altro inutili e costosi.


Credo tuttavia che il punto di partenza per la valutazione possa prescindere da ogni concezione  filosofica e trovar fondamento sul dato obiettivo dell’istinto di conservazione, sull’impulso arazionale a conservare nel tempo la vita, il misterioso equilibrio instabile dell’organismo, che fa parte del patrimonio genetico dell’uomo. Vivere e sopravvivere è programma fondamentale della biologia, non solo per gli uomini, sicché alla stregua di esso che deve valutarsi ogni intervento che vada contro il tabù fondamentale, indiscutibile proprio perché insito nelle strutture portanti del nostro esistere. Su questo punto la dottrina – diffusissima in tema di libertà – resta muta, perdendo di vista un fatto sociobiologico altrettanto importante della socialità, per l’uomo. Direi che ecologia ed etologia umana debbono finalmente riscoprirsi dal giurista che spesso si chiude in un circolo di autoreferenze senza uscita.


Significativa per la motivazione, che pone in primo luogo l’istinto di conservazione è la decisione nel caso  Hales v Petit (1981); in esso la Corte enunciò alcune considerazioni sulla ratio che è a fondamento delle norme sul suicidio: Il suicidio è contro natura, perché contrario a quelle regole di auto-conservazione che sono proprie di tutti gli esseri viventi. Sotto questo profilo, non può concepirsi un diritto di estinguere il presupposto sul quale tutti i diritti si fondano. In secondo luogo, il suicidio è contro Dio, in quanto è una rottura del comandamento ‘non uccidere’ (Dio è richiamato nella Costituzione americana, sicché l’argomentazione è considerata valida anche sub specie iuris). Il suicidio, poi, è contro lo Stato, contro il Re, nel senso che “il Re, che ha il governo del popolo, si preoccupa del cattivo esempio che il suicida dà ai consociati”, sicché lo Stato ha il dovere di ostacolare ogni condotta che possa incoraggiare il suicidio[8].


Esposti questi orientamenti[9], vedremo che oggi le norme giuridiche vigenti in Italia, ed in particolare il nostro codice penale, rispecchiano e si fondano sul rispetto della vita, sentita come bene in sé, anche se non assoluto, coerentemente con il portato sociobiologico della lotta per la sopravvivenza da cui nasce (o con il quale è correlata) la tradizione storica[10].


 


2. Il controllo della morte


Il dibattito[11] tra i giuristi assume andamento tumultuoso, talvolta contraddittorio, perché le scoperte scientifiche e le innovazioni tecniche hanno persino messo in crisi la nozione di morte e di vita,  rendendo necessario stabilire un criterio oltre il buon senso, per determinare la distinzione tra il morto e il vivo[12].


L’organismo vivente riesce a ritardare i processi entropici che portano alla stasi; la morte si ha appunto quando i processi entropici riprendono il sopravvento[13]. L’identificazione intuitiva della  vita con il basso livello di entropia spiega perché sia difficile accettare l’idea che un complesso biologico che in qualche modo, sia pure con l’ausilio delle macchine, ancora “estrae ordine” dall’esterno, si sottrae dal decadimento verso l’equilibrio (cuore e polmoni attivi), sia non-vivo.


Gli interventi chimici, fisici e chirurgici hanno prospettato nuove forme per il  controllo della morte, rendendo possibile da un lato un prolungamento di  attività biologica  puramente meccanica (talvolta con accanimento terapeutico),  d’altra parte una estinzione della vita in modo quieto e atarassico, ad esempio attraverso l’agonia per aquam in venam. Gli ordinamenti giuridici riflettono il disorientamento di fronte al problema e alle sue nuove forme, anche se si deve riconoscere nella società occidentale una tendenza forte per la tutela della vita (si pensi alla abolizione della morte come pena, alla condanna della guerra, qualora non determinata dalla stretta, attuale necessità di difendersi).


Di queste nuove raffinate forme di controllo della morte, quali sono lecite, quali sono criminose?


 


Molte difficoltà per l’esatto inquadramento del problema vengono dall’uso variabile delle parole, a volte voluto per sostenere la propria tesi nella battaglia verbale tra sostenitori dell’una o dell’altra tesi[14]: in questo campo è particolarmente evidente che words have uses, no meanings, che l’equivocità di certi termini è soltanto velata dalla apparente scientificità[15] mentre il diritto esige una precisione di termini che escluda o limiti al massimo possibile, ogni incertezza definitoria, che rende ovviamente elastico il precetto e facile l’arbitrio del giudicante. Nel campo del diritto penale, vista la natura afflittiva della sanzione, il principio di stretta legalità, di determinatezza del precetto  ha rango di norma costituzionale, dovendosi ricorrere per quanto possibile a elementi descrittivi e non normativi nella costruzione della fattispecie.


 


3. Eutanasia attiva e passiva, rifiuto di terapia, suicidio assistito.


La eutanasia passiva consiste nel non ritardare la morte di una persona, lasciando che la natura abbia il suo corso abolendo i mezzi chimici e fisici di prolungamento della vita applicati al paziente, ad esempio, sconnettendo le macchine[16] che sostengono polmoni e cuore, cessando le cure mediche, cessando il nutrimento o anche evitando di usare meccanismi per rimettere in moto il cuore che si è fermato[17].


Costituisce eutanasia passiva – ma spesso si usa l’espressione eutanasia indiretta[18]  la somministrazione di palliativi, che possono consistere in abbondanti dosi di morfina (o altro possente antidorifico) per il controllo del dolore con eventuale ed indiretto effetto letale, effetto anche se preveduto, non  voluto dall’operatore. Queste procedure si riferiscono al malato terminale o alla persona in uno stato vegetativo persistente, cioè all’individuo con danno cerebrale tale per cui non può la persona riacquistare coscienza.


La eutanasia passiva consentita  rientra nella species del rifiuto di terapia, ma nei casi di rifiuto di trattamento medico, non sempre è l’intenzione di morire  che spinge al rifiuto. L’unica situazione nella quale si può dire che intento della persona interessata è quello di morire – oltre al caso di eutanasia passiva del malato terminale che vuole affrettare la morte incombente –  si ha quando il soggetto rifiuti un trattamento relativamente facile, non troppo costoso, non fortunoso, e che non comporti una lesione grave (ad es. il diabetico che rifiuta l’iniezione di insulina, si può dire che cerchi la morte); certo non è facile trovare altre ipotesi nelle quali si possa considerare il rifiuto di trattamento come volontà di suicidio[19].


In caso di rifiuto di terapia, l’intervento terapeutico del medico contro la volontà del malato, è lecito, illecito o addirittura doveroso? A chi spetta il controllo della morte?


La dottrina è divisa.


L’art. 32 Cost. esplicitamente dichiara la salute interesse della collettività, mentre l’art. 42 e l’art. 2 Cost. prevedono un impegno sociale, attivo, nei confronti della società, prevedono, insomma, una sorta di divieto d’abbandono della battaglia della vita, sicché il medico non potrebbe rinunciare al suo compito istituzionale terapeutico.


All’opposto, secondo la prevalente dottrina il medico è esente da responsabilità se si astiene da praticare trattamenti a chi li rifiuta, salvo che non sia obbligato per legge; anche in tal caso, peraltro, non può usare la coercizione. Si invocano gli artt. 13 e 32 della Costituzione da cui si può desumere il principio di autodeterminazione terapeutica[20]. Nel codice deontologico d’altronde, all’art. 35, in applicazione di questo  orientamento, si stabilisce che l’opposizione al trattamento non ha effetto, se il trattamento è obbligatorio per legge, ma il medico non può imporre comunque “trattamenti fisicamente coattivi”.


Distinguerei le situazioni: se l’opposizione del paziente è nei confronti di trattamenti che non incidono sull’incombente destino di morte, la rinuncia all’intervento da parte del medico è obiettivamente non offensiva del bene, sicché il medico non è in nessun modo autorizzato a superare il rifiuto. Se l’intervento medico potrebbe salvare la vita,  l’intervento è legittimo sotto il il profilo del fine di evitare un danno maggiore di quello provocato con l’intervento coattivo,  ma l’intervento del medico potrebbe costituire violenza privata ex art. 610 cod. pen., sicché le considerazioni sopra svolte valgono anche per l’ipotesi di rifiuto di cure per malattia incurabile[21].


 


La eutanasia attiva, detta anche uccisione pietosa (mercy-killing), comporta la causazione della morte di una persona attraverso una azione diretta in risposta ad una richiesta della persona stessa o comunque col consenso del morituro (eutanasia attiva consensuale) o senza il consenso. L’attività del terzo può limitarsi ad aiutare ed agevolare il suicidio (suicidio assistito)


L’eutanasia attiva non consentita, rientra nella fattispecie dell’omicidio volontario. Soltanto una aberrante visione strumentale dell’individuo nei confronti della società può ammettere una eutanasia non consentita[22]. Per un riferimento normativo, se ce ne fosse bisogno, richiamo l’art. 32 cost. per la salvaguardia della vita, e l’art. 3 cost. che statuisce il principio di eguaglianza e di pari dignità tra gli esseri umani, che non permette  che si attribuisca ad uno o più soggetti di stabilire se un individuo anche se malatissimo debba vivere o no[23].


Per quanto riguarda invece l’eutanasia attiva consentita, il nostro sistema giuridico pone un divieto rigoroso nella vigente normativa penale e, di riflesso,  nel codice di deontologia medica (art. 35[24]). La nostra legge peraltro conosce (e punisce con pene di diversa entità), l’omicidio volontario (art. 575) cod. pen.), la fattispecie autonoma di omicidio del consenziente (art. 579 cod. pen.) e l’istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 cod. pen.)[25].


Integra omicidio del consenziente il fatto di chi provoca la morte  sostituendosi nell’attività mortifera all’aspirante suicida pur con il consenso di questi ed assume l’iniziativa non solo per la causazione materiale, ma anche nelle determinazioni volitive specifiche. Agevolazione al suicidio si verifica quando il suicida resta  dominus della propria azione  e realizza anche materialmente di mano propria l’uccisione[26]. Il suicidio assistito rientra in genere nella fattispecie dell’art. 580 cod. pen., anche se fornire la macchina suicidiaria  pone il problema dell’identificazione della fattispecie.


 


In realtà, il nostro sistema contempla tra i principi di etica sociale il divieto di uccidere, considerandolo ineludibile;  coerentemente con tale principio si nega la concessione dell’attenuante del motivo d’alto valore morale e sociale (art. 62, n 1. cod. pen.) a chi uccide per pietà[27]. Invero non pochi autori auspicano la concessione dell’attenuante alla eutanasia anche non consentita[28].  È stata invocato lo stato di necessità, non tanto in riferimento all’art. 54 cod pen., ma alla seelische not o alla inesigibilità di un comportamento diverso da parte del familiare.


Di fronte a casi limite nei quali sembra sussistere una sorta di fatale necessità, si deve tener conto che vi è “il rischio di una eutanasia incontenibile, in quanto, una volta infranto il principio di intangibilità della vita umana, si può aprire un circolo vizioso difficilmente frenabile”.


Invero, corrono proposte per la depenalizzazione dell’eutanasia attiva, consensuale[29], che non costituirebbe violazione del divieto di uccidere. Ma il principio salus aegroti suprema lex può esser sostituito da quello voluntas aegroti suprema lex? Comunque anche i promotori della liberalizzazione della eutanasia attiva, consensuale, si rendono conto che una legge permissiva potrebbe costituire “un alibi per incurie sociali che determinino il malato terminale a optare per un commiato anticipato che non crei problemi ai familiari”[30].


Gli argomenti contro l’eutanasia attiva consentita sono raccolti schematicamente così, da Peter Saunders (medico del Christian medical fellowship d’Australia, paese che ha una legge permissiva) che riporto senza commento:


1.       l’eutanasia consentita non è necessaria perché esistono trattamenti alternativi.


2.       Le  richieste non sempre sono libere e volontarie.


3.       L’eutanasia volontaria toglie al malato la finale maturazione dei rapporti umani.


4.       L’eutanasia affossa la ricerca scientifica.


5.       Casi controversi portano a leggi ingiuste.


6.       L’autonomia è importante, ma non assoluta.


7.       L’eutanasia volontaria porta al “turismo eutanasico”.


8.       L’e. v. cambia la coscienza sociale.


9.       L’e. v. viola i codici storicamente accettati dell’etica medica.


10.    L’e. v. dà troppi poteri ai medici.


11.    L’e. v. conduce inevitabilmente alla eutanasia involontaria.


 


 Certo, la liceizzazione della eutanasia  ha notevoli effetti sociali di cui si deve tener conto.


Il rilfesso sull’attività medica e in particolare sull’attività dello psicologo può assumere aspetti devastanti. Il precetto tradizionale con la forza di tabù sotto il profilo emotivo con la forza di vera e propria Grundnorm, sotto il profilo etico per il medico è il nolle iudicare, difendere la vita senza valutarne la qualità.


Eroso questo principio è facile trasformare con passaggi apparentemente insensibili il trattamento medico in un trattamento di controllo e di valutazione della vita conferendo all’uomo il supremo potere della divinità che dà e toglie la vita: “si pone in evidente discussione la identità e la credibilità morale e professionale del medico, a cui viene attribuito il tradizionale dovere di curare l’ammalato con tutte le sue possibilità e cognizioni, in piena coerenza col principio di Ippocrate: primum non nocere. Infatti, l’eventuale possibilità per il sanitario di somministrare sostanze letali che possono abbreviare la vita dell’ammalato grave e incurabile provocherebbe a crescere tra i suoi pazienti una sfiducia di fondo, confondendo tra loro il dovere di curarli e la possibilità di ricorrere al “colpo di grazia”.


 


4. Il consenso a morire


Il problema giuridico del consenso a morire è drammatico quando il malato al punto si trova  in stato che ne esclude o limita la capacità mentale o gli rende impossibile di esprimere la sua volontà, sicché si deve far riferimento a dichiarazioni precedentemente espresse, a presunzioni, o a volontà di rappresentanti, per mandato o no.


Nel diritto italiano, come la Cassazione ha avuto modo di sottolineare[31] il consenso non solo deve essere serio, esplicito e non equivoco, ma dev’essere perdurante fino al momento in cui è commesso il fatto. Esso, per un bene quale la vita, non è delegabile.


Il consenso può essere, beninteso, tacito[32] ma non può essere meramente presunto. L’articolo 579 cod. pen. prevede peraltro non soltanto la invalidità del consenso per chi è in istato  mentale tale da non poterlo esprimere ragionevolmente, ma  esclude dal novero dei soggetti il cui consenso è valido genericamente ogni “persona inferma di mente o che si trova in condizioni di deficienza psichica per un’altra infermità”. Una interpretazione rigorosa[33], per taluni troppo rigorosa, afferma che appunto la malattia inguaribile che comporti un insopportabile tormento, può determinare la deficienza psichica che rende invalido il consenso, quindi chi invoca l’applicazione dell’art. 579  deve rigorosamente dimostrare che l’infermità non aveva prodotto l’effetto della deficienza psichica.


Nella  sentenza della cassazione 27.6.1991, peraltro, si discusse il problema della inesigibilità sostenendo la difesa che l’autore non avrebbe potuto tenere un comportamento diverso anche perché non aveva coscienza dell’antigiuridicità materiale (antisocialità). Questo tipo di difesa è stato invocato in altri casi in cui si è provveduto a sopprimere il parente carissimo con affezione morbosa, dolorosa einguaribile. Evidentemente la mancata coscienza dell’antigiuridicità dell’azione – comunque si intenda l’antigiuridicità – non esclude il dolo.


 


Importante è il testamento biologico (living will), cioè quell’atto di volontà in cui si dispone del proprio corpo nell’ipotesi di futura incapacità di liberamente decidere. La disposizione è un atto tra vivi[34], e consiste in  una dichiarazione di volontà unilaterale da eseguirsi in certe situazioni,  che può anche divenire un mandato, quale previsto dall’art. 1710 cod.civ. Il testamento biologico come ogni altro negozio giuridico è soggetto al limite della liceità della causa, della funzione sociale che l’atto assume, oltre che dell’oggetto.


Sulla validità del testamento biologico le opinioni sono contrastanti[35]; per buona parte della dottrina,  il testamento biologico non è imperativo, inquantoché non è attuale la volontà del dichiarante al momento in cui v’è da dare esecuzione. Si riconosce la validità vincolante di una dichiarazione di volontà che escluda l’uso di mezzi straordinari di mantenimento in funzione di organi, cioè che escluda l’accanimento terapeutico; dibattuto il problema se il  testamento che escluda la terapia (o una particolare forma di terapia), in base alla qualità della vita o anche  per motivi filosofici o religiosi, sia vincolante per il medico curante.


Io credo  che in questo campo si debba ricorrere al criterio della ragionevolezza, canone immanente nell’ordinamento, come riconosciuto dalla giurisprudenza e dalla dottrina: quando la condotta di vita, la visione del mondo del malato non più in grado di esprimersi,  lascia supporre che non vi sia stato un mutamento di idee, la volontà espressa in precedenza deve rispettarsi (naturalmente se non contra legem); se il testatore ha affidato a parenti cari la manifestazione di volontà, credo che la legge ammetta questa dichiarazione sostitutiva che in realtà non è un substitute judgement, credo, ma una attestazione della volontà seria del morituro che non può più parlare.


 


5. Limiti alla disponibilità del corpo e della vita.


Nel nostro ordinamento è riconosciuto il diritto di disporre del proprio corpo ex art. 5 cod.civ.; la norma peraltro esplicitamente esclude la disponibilità quando l’atto cagioni una diminuzione permanente  della integrità fisica, o quando gli atti di disposizione siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume[36]. Beninteso la punibilità è esclusa quando l’aggressione alla integrità avviene  senza intermediari da parte del titolare del bene, se non nei casi in cui la mutilazione è finalizzata alla frode in assicurazioni (642 cod pen.) o al sottrarsi al servizio militare (art 157 e 158 CPMP e 115 CPMG). Evidentemente le espressioni usate comportano   un rinvio alla sensibilità comune, alla coscienza sociale, quindi ai principi ultimi di buon comportamento che spetta all’interprete e in particolare al giudice ritrovare ut aurum in  vena. Un punto però è certo: gli att