B. MARIA TERESA DEL S. CUORE HAZE (1782-1876)

Da vicino e da lontano Madre M. Teresa vegliava su tutte le suore, e ciò che le riguardava, per piccolo che fosse, non le era indifferente. S’interdiceva soltanto ogni consiglio che si riferisse a casi di coscienza o di vera direzione spirituale di cui lasciava la preoccupazione al confessore. Sapendo, per esempio, che alcune suore avevano paura del temporale, essa si
alzava di notte per visitarle, portare il lume e l’acqua benedetta che dava loro facendo segno che stessero tranquille perché lei restava a vegliare e a pregare. All’avvicinarsi di qualche festa e dopo i giorni di maggior lavoro, faceva alle suore le più gentili sorprese.

7 gennaio

La Beata, fondatrice delle Figlie della Croce, nacque a Liegi, nel Belgio, il 27-2-1782, penultima dei sette figli che Luigi, professore di lettere e segretario del principe vescovo di Hoensbroech, ebbe da Margherita Tombeur, donna molto pia e laboriosa. A quattro anni la piccina, che nel battesimo aveva ricevuto il nome di Giovanna, aveva già imparato a leggere speditamente perché il padre impiegava il tempo che gli restava libero dall’ufficio a istruire i suoi figli. A contatto delle cistercensi di Robermont, presso le quali la mamma conduceva sovente le figliole, Giovanna sentì vivissima l’attrattiva per la vita claustrale. Nelle ore di ricreazione riuniva le sorelle e le amiche, le vestiva da religiose e con esse, in qualità di badessa, praticava con fedeltà le cerimonie liturgiche che aveva visto svolgersi nel monastero.
Durante l’invasione del Belgio da parte delle truppe rivoluzionarie francesi (1794), la famiglia Haze, correndo pericolo di vita per la sua condizione sociale, si rifugiò a Solingen, in Germania. Quando poté fare ritorno a Liegi dovette lavorare per vivere sia perché nel frattempo il padre era morto, sia perché i beni stabili le erano stati confiscati.
Alla morte anche della mamma (1820), Giovanna decise di darsi a Dio con la sorella Ferdinanda. Cesso quindi di frequentare persino le riunioni di famiglia e s’interdisse i più innocenti passatempi. Per questo vennero chiamate “le solitarie”. Tuttavia, non era detto che, per amore di Dio, non fossero capaci di farsi tutte a tutti, sotto la direzione dell’abate Habets, vicario della parrocchia di San Bartolomeo, nella quale assunsero la direzione di una scuola a pagamento e accanto alla quale aprirono un laboratorio di ricamo. Nonostante l’intenso lavoro che svolgevano trovarono ancora il tempo per curare i malati, insegnare il catechismo ai fanciulli e preparare gli adulti al matrimonio, senza nulla togliere alla preghiera. Attestò l’abate Habets, loro confessore e direttore: “Esse avevano un tale ascendente sui cuori, che ottenevano sempre delle conversioni notabili”. Il parroco, l’abate Cloes, nonostante l’opposizione di Guglielmo I, re dei Paesi Bassi, alla libertà dell’insegnamento cattolico, volle aprire una scuola gratuita per le classi indigenti e affidarla alle due “solitarie” (1829). La scuola, che accettarono senza riguardo all’umana prudenza, doveva diventare la culla delle Figlie della Croce.
Alla morte del parroco (+1830), unico sostegno della scuola, le due sorelle, anziché abbandonare le alunne, decisero di ampliare l’ambiente che le ospitava a costo d’immensi sacrifici. Quando il Belgio riuscì a rendersi indipendente dall’Olanda (1831), la scuola prosperò. Giovanna ritenne quindi giunto il momento di dare vita a una congregazione benché l’Habets la consigliasse di farsi carmelitana. Il 1-8-1832 con le sue prime compagne indossò un abito uniforme e il vescovo della diocesi, Mons. van Bommel, riconobbe l’associazione e diede l’incarico all’Habets di redigere per essa delle costituzioni provvisorie.
Le religiose si sarebbero chiamate le Figlie della Croce perché, una sera del 1833, mentre Giovanna si trovava con una sua consorella nel cortile delle carmelitane, vide librarsi d’un tratto al disopra della proprietà vicina, una grande croce nera, ornata nel centro di una corona bianca. Poco dopo sparì dall’azzurro del cielo, ma quella visione non si cancellò più dalla mente della fondatrice. Fine dell’Istituto sarebbe stato quello di dare a Gesù Cristo, che ha sofferto per la nostra salvezza, e a Maria SS. Addolorata, patrona e protettrice della congregazione, gloria e onore nelle sue membra deboli e sofferenti quali le fanciulle povere e i malati abbandonati.
Scrive l’Habets: “È impossibile farsi un’idea delle pene interne di Giovanna a partire dal momento in cui i superiori ecclesiastici le permisero di portare l’abito religioso e di fare i voti. Da quel momento essa riguardò come illusione proveniente dal demonio l’ardore con cui aveva desiderato di essere la sposa di Cristo…
Si rimproverava amaramente di aver usato di aspirare ad una felicità della quale si riconosceva indegna… Ciò che aveva sempre creduto ispirazione di Dio le appariva ora come effetto della sua immaginazione”. Fortunatamente, nella generosità del suo sacrificio, non cessò di avanzare tra il timore e la speranza ubbidendo a chi la dirigeva nelle vie dello spirito.
Le Figlie della Croce ricevettero l’abito religioso l’8-9-1833 dalle mani del vescovo. La cinquantaduenne fondatrice fu ammessa con le sorelle alla professione perpetua dei voti per uno speciale privilegio. Si chiamò Madre Maria Teresa del S. Cuore di Gesù, e si adoperò subito per comunicare alle sue figlie il proprio spirito di abnegazione, umiltà, semplicità e carità. A due soli anni dalla fondazione la morte le aveva portato via ad una ad una le prime compagne, fatta eccezione di una coadiutrice. Madre M. Teresa non perse la calma e il coraggio per questo, e Dio la benedisse mandandole altre vocazioni e manifestandole la sua volontà con sogni misteriosi. Essi toglievano alla Beata, di età matura, di eminente spirito pratico e grande buon senso, ogni titubanza nelle sue decisioni perché le svelavano quello che si sarebbe verificato in avvenire.
Nel 1841 l’Istituto si prese cura anche delle carcerate. L’opera l’anno dopo portò alla fondazione di un rifugio per le convertite, e preparò le suore ad accettare anche la direzione di un grande ricovero di mendicità a Reck-heim nel Limburgo (1843), e dell’ospizio fondato sull’antica abbazia di Stavelot (1844), ai quale più tardi aggiunsero un ricovero per le orfanelle. La fondatrice si era decisa di assumere la cura di tanti infelici perché, diceva, “sono anime per cui il Signore ha versato tutto il suo sangue”.
Nel 1851 le Figlie della Croce si estesero anche ad Aspel, a settentrione della Prussia renana, centro ideale per un pensionato di giovanotte, un noviziato e un centro d’azione in vista di fondazioni future. Quando Madre M. Teresa vi giunse, riconobbe subito con commozione non soltanto i luoghi visti in sogno circa vent’anni prima, ma persino il giardiniere del castello di cui prese possesso. Aspel fu la primizia di quindici case sia di educazione che di carità fondate in Germania mentre era ancora in vita la Beata.
Per volere dell’Habets, le Figlie della Croce varcarono anche gli oceani. Si stabilirono difatti nel 1862 nelle Indie Orientali e nel 1863 in Inghilterra. Ovunque prosperarono perché docili agli avvertimenti della loro superiora generale, e fedeli imitatrici delle sue virtù. Il canonico Brémas, primo cappellano delle suore a Liegi, fece questa riflessione: “La cara Madre non aveva studiato gli asceti: le numerose sue occupazioni non le lasciarono tempo per leggere. Dove dunque aveva attinto quella scienza dei santi che conosceva a fondo? Nella sua unione con Gesù Eucaristia. Ne aveva l’intima convinzione. Gesù era il suo maestro, come era la sua consolazione e la sua forza”.
Con il permesso dell’Habets Madre M. Teresa fece il voto d’imitare Gesù fanciullo e sofferente fino alla morte. Poté quindi asserire con convinzione: “Raccogliersi in Dio è una felicità inapprezzabile”, e acquistare l’arte di spingere al bene le sue figlie con poche parole: ”Fatelo per Gesù. Fate tutto per amor di Dio. Lavorate per Dio solo, Egli conta tutti i vostri passi!”. Una di loro testimoniò nei processi canonici: “Io sentivo che Dio era in essa, ed essa era in Dio”. Un’altra depose di lei: “La nostra Madre era come una calamita che attirava le anime e le traeva dietro a sé nel suo ascendere a Dio”. Questo influsso fu universale e costante. Difatti dal 1838 al 1874 ogni tre anni fu rieletta superiora generale della congregazione con unanimi suffragi delle capitolari.
La Beata possedeva, del resto, in alto grado le qualità e le virtù che rendono una persona adatta al governo. Nelle deposizioni del processo si legge: “Ella era estranea alle piccolezze del suo sesso; era di un bel carattere e aveva un amore grande e nobile. Pur essendo perspicace, non usò mai né l’astuzia, né la politica”. In ogni circostanza il suo esterno appariva immerso in una pace profonda. Sembrava che avesse il dono di trasfonderla anche negli altri. Dotata di un temperamento impetuoso, seppe a poco a poco diventare paziente e indulgente nelle contrarietà. Non fu mai una taciturna. Sapeva parlare e scherzare piacevolmente sempre con grande riserbo. Rideva con gusto in ricreazione, e godeva visibilmente quando vedeva le sue figlie animate da santa giocondità.
Non si spaventava mai dei difetti che le postulanti manifestavano nell’entrare in religione. Le accettava con piacere purché avessero un po’ di buona volontà, e non fossero troppo orgogliose. Talora diceva: “S. Teresa per stabilire un monastero esigeva la casa e la campana; a me bastano anime di buona volontà, la casa e la campana sarà facile trovarle”. Comprendeva che quando Dio affida ad un’anima l’apostolato dell’istruzione, questa deve rendersi capace di un lavoro serio. Si sarebbe anzi contristata di vedere le sue figlie adoperare sistemi antichi e fuori uso. Tuttavia un’istitutrice senza umiltà e senza pietà restava per lei una povera cosa.
Da vicino e da lontano Madre M. Teresa vegliava su tutte le suore, e ciò che le riguardava, per piccolo che fosse, non le era indifferente. S’interdiceva soltanto ogni consiglio che si riferisse a casi di coscienza o di vera direzione spirituale di cui lasciava la preoccupazione al confessore. Sapendo, per esempio, che alcune suore avevano paura del temporale, essa si alzava di notte per visitarle, portare il lume e l’acqua benedetta che dava loro facendo segno che stessero tranquille perché lei restava a vegliare e a pregare. All’avvicinarsi di qualche festa e dopo i giorni di maggior lavoro, faceva alle suore le più gentili sorprese. Rientrando in casa la sera, esse trovavano il soggolo stirato, le scarpe pulite o qualche massima spirituale appropriata alle loro necessità.
La Beata non diceva male di nessuno e non mostrava di fare poco conto di alcuno. Sovente fu vista mettersi in ginocchio davanti a qualche suora che credeva di avere offeso o che si mostrava ferita dalle sue riprensioni, e domandava loro perdono. Nella sua bontà non ammetteva l’insinuazione che una religiosa potesse lamentarsi senza motivo. Alle malate riservava i più bei frutti del giardino e i piccoli regali che le facevano, Un giorno confidò alla superiora di Aspel; “Per conto mio sarò più contenta di essere ingannata cento volte dalle suore, piuttosto che mancare una sola volta di bontà verso una di esse”.
Una delle sue massime preferite era: “Una Figlia della Croce deve sapere sacrificare i suoi più cari interessi al divino volere”. Un giorno una sua religiosa le chiese: ”Dovrò rassegnarmi a dire con S. Teresa: soffrire o morire?” La Beata le rispose: “No, no, non è così che deve parlare una Figlia della Croce. Ella deve allegramente abbandonarsi alla volontà divina e dire: soffrire, morire o lavorare, tutto come vuole Iddio”.
Nel 1860 la comunità di Werden, in Germania, composta da sette suore, minacciò di separarsi dalla congregazione per una supposta irregolare gestione delle rendite dell’ospedale a profitto di casa madre. La fondatrice ne sofferse assai, ma dopo un sopralluogo, confidò alla superiora di Reis: “Se al Signore non sono gradite le case da noi fondate, io consento molto volentieri alla loro soppressione”. Era sua convinzione che “l’ubbidienza perfetta rende ogni cosa facile perché fa appoggiare non sulle proprie forze , ma sulla grazia che Dio accorda agli umili e ubbidienti”. Ella stessa considerava l’abate Habets come suo superiore, e lo trattava con molto rispetto, considerava le sue parole come un oracolo, e faceva eseguire i suoi ordini con scrupolosa esattezza. Abituava le suore a ubbidire con prontezza “come alla voce di Dio” persino ai segnali della campana.
Madre M. Teresa sapeva fare intendere alle sue figlie soprattutto l’austera bellezza della via della croce. Diceva loro sovente: ”La prova è un regalo del nostro Padre celeste, deve quindi esserci cara più di tutti i tesori del mondo”. ”Non è sul Tabor che si riconoscono i santi, ma sul Calvario: desiderate ardentemente la vostra perfezione desiderando di soffrire”. Scrisse ad una suora afflitta: “Le vostre pene non devono inquietarvi affatto perché le anime veramente amanti di Gesù lo accompagnano fino al Calvario. Dio permette le pene e le afflizioni per purificarci, per farci attaccare unicamente a Colui che si è dato a noi”. Ad una suora che aspirava seriamente alla perfezione, disse: “Coraggio e fiducia, figlia mia! Prima di essere tutta di Dio, bisogna che il cuore sia veramente affranto, per cosi dire, dal dolore; allora diviene trono della grazia e Dio ne fa ciò che vuole”. A un’altra disse: “Noi possiamo benissimo amare e desiderare le umiliazioni, possiamo ben essere contente che Dio ce le mandi. Dopo averlo offeso tante volte, tutte le creature dovrebbero rivoltarsi contro di noi”.
Quando fu più avanti negli anni, Madre M. Teresa avrebbe voluto rinunciare alla carica di superiora generale, ma sia il vescovo che l’abate Habets (+1876), non ne vollero sapere. Soltanto nell’ultimo anno di vita, non riuscendo più a spiccicare le parole, affidò la direzione della sua famiglia religiosa all’Assistente e al suo consiglio. Benché fosse sovente malata e passasse buona parte della notte insonne, mai si lasciava sfuggire una parola d’impazienza.
L’unico conforto di cui non poteva fare a meno era il crocifisso che baciava con trasporto e al quale rivolgeva dolci colloqui. Il gran timore che aveva di perdere Dio, le strappava queste parole dalle labbra: “Ah, il cielo, il cielo, il cielo! Credo che mi avvicino al cielo. Non pregate per la mia salute, pregate piuttosto che io non mi perda”. E soggiungeva pensando alle responsabilità che pesavano su di lei; “Pregate per me perché i giudizi di Dio sono terribili”.
Morì il 7-01-1876 e fu sepolta nel cimitero di Chènée, presso Liegi. Pio XII il 9-02-1941 riconobbe l’eroicità delle virtù, e .Giovanni Paolo II la beatificò il 21-4-1991.

 Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 1, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 120-124.
http://www.edizionisegno.it/