Perchè si studia la storia della filosofia (Cap. IX)

LA RISCOPERTA DI ARISTOTELE NEL XIII SECOLO E TOMMASO D’AQUINO (VIII)
Di Antonio Livi Tratto da “Dal senso comune alla dialettica. Una storia della filosofia”, Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2004-2005. CAPITOLO NONO. LA RISCOPERTA DI ARISTOTELE NEL XIII SECOLO E TOMMASO D’AQUINO. Dall’etica alla politica. La dottrina del bene comune.

Dall’etica alla politica
Come dice Gilson, «il primato dell’essere lascia una traccia evidente in tutti i discorsi che Tommaso fa su Dio, sulla creazione, sulla creatura e sui rapporti della creatura con il creatore. I problemi relativi alla struttura metafisica dell’essere finito sono tutti legati, più o meno immediatamente, alla nozione metafisica di atto di essere come perfezione della natura. Gli enti finiti sono creati a immagine dell’Essere. Il nesso tra queste nozioni si allenta quando si smette di parlare della natura di Dio e della sua azione specifica (che è il creare) e si passa al problema della bontà degli atti umani, studiata dalla morale. Mentre la metafisica si riferisce sempre, in un modo o nell’altro, alla nozione di essere, la morale parla dell’uomo come immagine di Dio, come ente dotato di libero arbitrio e padrone dei suoi atti; cosicché è l’essenza (quidditas) a essere considerata nella morale più che l’esse. Con questa impostazione infatti, la morale tomista cerca di stabilire quale sia il fine proprio delle azioni di un ente che ha la natura umana, e quali siano i mezzi necessari per raggiungere tale fine. Comunque, anche gli atti morali dell’uomo appartengono alla sfera dell’essere: il soggetto che agisce, il suo potere di agire, il suo libero arbitrio e persino la sua stessa libertà di scelta, insomma, tutto quello che fa dipende da Dio, ossia è un effetto di Dio nella misura in cui è qualcosa di reale. C’è pertanto uno status ontologico anche per l’essere che agisce e per la vita morale; la natura precisa di questo status è assai difficile da comprendere, ma Tommaso è arrivato a farsene un’idea ben chiara»[69]. Il sistema morale di Tommaso è fondato sulla legge naturale, sul fine ultimo e sulla libera volontà; ogni agente razionale, per Tommaso, è sostanziato di questo triplice valore. Triplice valore e triplice fondamento dell’etica, cioè della norma di condotta secondo la natura razionale; la quale costituisce i presupposti essenziali per la morale cristiana, cioè soprannaturale, intesa come elevazione dell’anima dalla propria natura a quella divina a opera della grazia. La legge è definita da Tommaso «una certa regola o norma delle azioni dalla quale si è indotti ad agire o ad astenersi dall’azione. Si chiama legge dal verbo legare, perché obbliga ad agire. Ora, regola e norma delle azioni umane è la ragione che è il principio primo degli atti umani […] Si conclude che la legge è una norma che scaturisce dalla ragione». Come si vede Tommaso si riallaccia al pensiero classico e precisamente al giusnaturalismo di Cicerone, secondo cui ciascun individuo ha, per il senso comune, certezza di una legge eterna, impressagli da Dio, che costituisce la norma universale del suo agire. Quindi «tutta la comunità dell’universo — argomenta l’Aquinate — è retta dalla ragione divina. Perciò il piano ordinato delle cose in Dio ha forza di legge […]; ne segue che è necessario chiamare eterna questa legge». La legge naturale dunque è «la partecipazione della legge eterna nella creatura razionale», nel senso che l’intelletto creato scorge nella creazione l’ordine voluto da Dio creatore: ordine che interpella la libera volontà creata. L’uomo in ogni sua azione ha presente e tende ad attuare questa legge come ideale della perfezione cioè come raggiungimento del sommo bene o della suprema felicità. È per questo che tale ideale costituisce il fine ultimo, il valore che ha la priorità assoluta: tutti i fini contingenti delle singole azioni costituiscono una catena di mezzi diretti al raggiungimento del fine ultimo come pienezza di felicità. Ma in che cosa consiste la felicità? Tommaso, analogamente allo stoicismo della filosofia ellenistica, insegna che oggetto della felicità non sono le ricchezze, la potenza, la gloria, i piaceri sensibili, poiché questi valori sono limitati allo spazio, al tempo e alla finitezza del particolare, sia oggettivo che soggettivo. Infatti il «il corpo è per l’anima come la materia è fatta per la forma e gli strumenti per l’uomo che li adopera, affinché per mezzo di essi eserciti la propria attività, perciò tutti i beni del corpo sono subordinati ai beni dell’anima come al proprio fine».
Il piacere dei sensi dunque, non è la felicità, poiché essendo il corpo la componente inferiore della persona, il senso non può contenere quella perfezione ideale cui l’anima tende come a ultimo fine; il piacere sensibile può costituire solo una qualità accidentale, un mezzo, della vera felicità. Ne consegue anche che la vera felicità non può essere riposta nel desiderio, nella tendenza o nell’atto della volontà; questi possono considerarsi elementi connessi alla felicità; ma non possono costituirne l’essenza. Il piacere dunque, non può essere identificato con la felicità come i mezzi non si identificano col fine e la volontà con l’intelletto; la felicità è valore dell’intelletto non della volontà. «Ora io affermo — insegna Tommaso — che, per quanto riguarda l’essenza della felicità, è impossibile che essa consista in un atto della volontà, perché la volontà o desidera un fine assente, o gode di un fine presente, acquietandosi in esso. Ora è chiaro che il desiderio del fine non coincide col conseguimento del fine, ma è una tendenza verso il fine. Il piacere deriva alla volontà dalla presenza del fine, ma non che il piacere, che la volontà trova in una cosa, renda presente la cosa stessa. Ci deve essere, dunque, una cosa diversa dall’atto di volontà per la quale il fine venga a essere presente alla volontà».
Quindi per Tommaso la felicità si trova nell’attività intellettiva alla quale è connesso il piacere della volontà. Per Aristotele la felicità è la completa attuazione delle potenze perfettive dell’agente, il singolo ente intellettivo l’entelechia; per Tommaso invece, oltre a ciò, è necessario trascendersi, giacché la vera felicità «non può trovarsi che nella visione della essenza divina». L’uomo, infatti, non trova la vera felicità nel suo essere, giacché l’esperienza insegna che nessuno si appaga del bene o dei beni che raggiunge, poiché gli rimane sempre «qualcosa da desiderare e cercare» che è al di fuori e al di sopra dell’agente e che costituisce il termine ad quem cioè oggetto della volontà illuminata e mossa dall’intelletto. Tale oggetto è Dio, inteso come Bene sommo, e quindi solo nell’unione con Dio, secondo Tommaso, consiste l’essenza della vera felicità; l’Aquinate illustra questa dottrina con un esempio: «Se uno vedendo un’eclissi di sole e considerando che ciò procede da una causa, per il fatto che non conosce questa causa, si meraviglia e indaga, né questa indagine ha terminato fin quando non pervenga alla conseguenza della causa. Poiché, dunque, l’intelletto umano, pur conoscendo l’essenza di qualche effetto creato, non conosce di Dio se non che egli esiste, la sua perfezione non ha ancora attinto la causa prima, ma gli rimane tuttora il naturale desiderio di indagare la natura della causa e perciò non è ancora pienamente felice. Infatti, per la perfetta felicità si richiede che l’intelletto attinga l’essenza stessa della causa prima. E così otterrà la sua perfezione mediante l’unione con Dio, come oggetto nel quale soltanto si trova la felicità dell’uomo».
Il pensiero classico, specialmente con Platone e Aristotele, aveva inoltre stabilito una fatale selezione secondo cui solo pochissimi (i sapienti) possono raggiungere e possedere la vera felicità; stabiliva una specie di predestinazione, un privilegio riservato a un’aristocrazia di eletti da cui la maggior parte degli uomini era esclusa. Tommaso espone e approfondisce criticamente la pari dignità degli uomini ragionevoli e pone l’accento sulla libera volontà, metafisicamente uguale per tutti.
La libertà della coscienza morale per Tommaso è innanzitutto un valore metafisico, una proprietà della volontà con cui l’uomo è padrone delle sue azioni e, conseguentemente, responsabile di esse. «Infatti — spiega l’Aquinate — tutto ciò che la ragione può apprendere come bene può essere oggetto della volontà, ma la ragione può apprendere come bene non solo il volere e l’agire, ma anche il non volere e il non agire; può, d’altra parte, considerare in tutti i beni particolari la bontà o la manchevolezza, l’imperfezione, che ha carattere di male e, per conseguenza, può apprendere ognuno di siffatti beni come degno di essere scelto o evitato. Solo il bene perfetto, che è la felicità, non può essere appreso dalla ragione come male o come imperfetto, e perciò l’uomo vuole necessariamente la felicità, mentre non può volere non essere felice. Ora la scelta, poiché non verte sul fine, ma sui mezzi, non ha per oggetto il bene perfetto, che è la felicità, ma altri beni particolari».
Come si vede dal testo citato, oltre alla libertà abbiamo anche il problema del male; infatti, se oggetto dell’intelletto è il vero, se questo vero si identifica col bene quale oggetto della volontà, e se la libera volontà non può volere che il bene, come si spiega l’errore, il peccato, il male? Per Tommaso, analogamente ad Agostino, il male è imperfezione dell’essere, quindi deficienza di bene: «malum ex quocumque defectu» mentre, il bene è pienezza di essere: «bonum ex integra causa». Ora sappiamo che tutte le creature, compreso l’uomo, secondo la loro natura contingente sono perfette o perfettibili, non in senso assoluto, ma secondo i caratteri Imitati al loro essere, giacché solo Dio è pienezza dell’essere, perfezione per essenza, quindi Bene assoluto. L’uomo per tendervi liberamente come a fine ultimo si serve delle creature come mezzi, anzi attua una scala gerarchica di fini, dai valori infimi a quello supremo, in cui i fini inferiori servono di mezzi a quelli superiori e questi al fine ultimo.
L’uomo, essendo libero nella scelta di questi mezzi e nell’attuazione di questi fini particolari, può a suo piacimento scegliere indifferentemente tra essi per il conseguimento del fine ultimo. Accade però che la libera volontà confonda i mezzi col fine, venendo meno così alla norma naturale e fondamentale della ragione, secondo la quale «bonum est faciendum, malum est vitandum»; il male sta proprio nella sostituzione dei beni particolari, che devono servire solo come mezzi, al bene universale, al sommo bene, al fine ultimo. Si ha così l’»aversio a Deo» e la «conversio ad creaturas», cioè la libera sostituzione dei mezzi col fine, e quindi la ricerca del bene sommo, cioè della felicità, in un bene immediato, in un oggetto contingente, privo per natura della vera felicità. In tal modo l’uomo perde liberamente di vista il suo vero oggetto, dà origine al vero e unico male, ponendosi in uno stato di anormalità teleologica che è effetto di deficienza metafisica di quel bene che la volontà può cercare soltanto nell’ultimo fine, cioè in Dio. Per l’attuazione della morale l’uomo si serve della virtù; la virtù per Tommaso è «abito che perfeziona l’uomo nel bene operare»; ora siccome l’operare dipende dall’intelletto e dalla volontà, ne consegue che la virtù può essere speculativa, se perfeziona l’attività intellettiva o pratica, se si riferisce all’attività volitiva, analogamente alle virtù dianoetiche e pratiche dell’etica aristotelica. Dette virtù sono inerenti alle facoltà umane e sono necessarie «al conseguimento della felicità». Ma secondo Tommaso, e conformemente alla dottrina cristiana, la virtù deve essere considerata sotto due aspetti, cioè naturale e soprannaturale: mentre ogni essere ragionevole, infatti, può tendere alla felicità naturale perché proporzionata alla sua natura, la felicità soprannaturale (alla quale di fatto gli uomini sono destinati) è in rapporto alla grazia e richiede di partecipare ai frutti della Redenzione. A tal fine non sono sufficienti le virtù umane, sia speculative che pratiche, ma sono necessarie le virtù teologali; queste non appartengono alla natura dell’uomo, come l’intelligenza, la scienza, ecc. (virtù speculative) o come la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza (virtù pratiche), ma sono abiti soprannaturali, infusi direttamente da Dio come effetto della Redenzione, e sono la fede, la speranza e la carità, intese non in senso umano, ma in funzione esclusivamente soprannaturale: «La felicità dell’uomo — insegna Tommaso — ha due gradi: l’uno è proporzionato alla natura umana […] l’altro poi costituisce la beatitudine che eccede la natura umana e a esso l’uomo può pervenire mediante la virtù divina, per una certa partecipazione alla divinità. Questi princìpi si dicono virtù teologali, sia perché hanno Dio per oggetto, in quanto per mezzo di esse ci dirigiamo sicuramente a Dio, sia perché ci sono infuse solo da Dio, e infine perché ci sono note nelle Sacre Scritture per effetto della divina rivelazione».Come si vede, la morale tommasiana è coerentemente inserita in un sistema ordinato, in cui i valori umani trovano la loro sublimazione in quelli divini; qui l’anima raggiunge il fine ultimo, la felicità piena, il sommo Bene, Dio. Si ha così la sintesi del pensiero morale classico, inteso da Tommaso come necessario fondamento umano, e di quello cristiano, elevazione e deificazione per mezzo delle virtù teologali, delle quali la carità, intesa come dono totale di sé a Dio e al prossimo, è la più importante, perché la sua piena attuazione comprende e presuppone le altre.

La dottrina del bene comune
Intimamente connessa con la concezione morale, nel pensiero di Tommaso, è la dottrina politica intesa come oggettività della morale stessa in armonia con la metafisica e la teologia. La società per Tommaso è fattore indispensabile al completamento del singolo; perciò Aristotele aveva giustamente insegnato che l’uomo è socievole per natura. L’attività di uno, infatti, si riversa nell’intera comunità di cui fa parte. Ma il valore della società è subordinato a quello della persona umana, giacché la stessa società non si può concepire se non come valore necessario per il bene dei singoli. Bene non significa il bene egoistico e particolare di questo o di quell’individuo, di questa o di quella categoria, ma si tratta del bene-fine, cioè del fine a cui ciascun uomo tende; in tale senso Tommaso lo chiama «bonum commune».L’elemento insostituibile della società è la famiglia; tutti hanno il diritto di formarsi una famiglia; a essa presiede lo sposo e padre come monarca nel suo regno, come Cristo nella sua Chiesa. Il matrimonio, oltre che a rappresentare un valore umano di unità inscindibile, è un mezzo efficace di santificazione, è un sacramento, è una unione divina che nessuna umana autorità può sciogliere, neppure gli stessi coniugi; la sua natura è feconda di grazia santificante. I figli sono il frutto dell’amore dei coniugi; al padre spetta il diritto e il dovere di educarli secondo i princìpi umani e cristiani. Pari al diritto della famiglia, è quello della proprietà privata, intesa come mezzo necessario per il conseguimento del bene naturale, sia individuale che comune; il raggiungimento di questo fine costituisce un mezzo necessario per il conseguimento del fine ultimo, sia in ordine alla natura, sia in ordine alla grazia.
Alla società presiede un’autorità costituita, così come la ragione presiede alle altre facoltà, e come la ragione non può presentare se non il bene, come oggetto da appetire, così ufficio dell’autorità è quello di promuovere il bene tra i cittadini. Per attuare questa funzione si serve delle leggi che costruisce, propone e impone per il bene comune. L’efficacia delle leggi è riposta nella fonte donde il legislatore le attinge, cioè nella legge eterna e nella legge naturale, giacché «la prima regola della ragione è la legge naturale — insegna l’Aquinate — sicché ogni legge fatta da un’autorità umana in tanto corrisponde al concetto ideale di legge in quanto è derivata dalla legge naturale; se, al contrario, discorda in qualche punto dalla legge naturale, non sarà legge, ma corruzione della legge».
Circa la forma di governo Tommaso dichiara la convenienza di una monarchia elettiva, in cui il principe diriga la cosa pubblica con la collaborazione e il consiglio dei rappresentanti di tutte le categorie sociali elette dal popolo: «Al popolo spetta l’elezione dei governanti — insegna Tommaso — e questa è una istituzione conforme alla legge divina». Il monarca nei confronti delle società deve essere ciò che l’anima è rispetto al corpo; deve governare analogamente alla Provvidenza divina, che dirige le cose della natura, giacché Dio lo ha posto in sua vece nel governo degli uomini, affinché illumini e diriga, provveda ed elevi il consorzio sociale di cui è capo. Ove il principe non agisse in tal senso, la sua opera sfocerebbe nella tirannide; ma se tale tirannide compromettesse il bene comune, la società avrebbe il diritto di spodestarlo; a questa dottrin si rifarà la filosofia politica del tomismo rinascimentale (vedi vol. II, cap. V). I governanti, dunque, devono possedere un sommo grado le virtù della prudenza, della giustizia, e della saggezza, imitando in un certo senso la Provvidenza divina, ossia impegnandosi a garantire alle comunità loro affidate le condizioni necessarie per il raggiungimento del fine da parte di tutti i cittadini; tali condizioni sono il “bene comune”, che consiste nella pace sociale, nell’incremento dell’istruzione, nel progresso economico e nella sicurezza interna ed esterna.Storicamente connessa all’autorità politica, per il fatto dell’Incarnazione, è la potestà della Chiesa, la cui natura è direttamente divina; la sua funzione è però esclusivamente spirituale; il suo fine è il conseguimento della felicità eterna, un fine soprannaturale per il quale la Chiesa fornisce ai fedeli le verità rivelate, i sacramenti e la guida pastorale. Ma spetta alla Chiesa intervenire anche nelle questioni politiche, quando i reggitori della cosa pubblica abusano del loro potere e attentano all’ordine naturale, che è la necessaria condizione per lo sviluppo della vita soprannaturale; solo per questo il potere ecclesiastico può e deve fare pressione su quello civile. Anche per questi problemi bisogna dire che, se nel Duecento – epoca, come si è detto all’inizio, di aspri scontri tra Impero e papato – la filosofia politica ebbe un notevole sviluppo, ciò non avvenne senza l’apporto fondamentale di Tommaso: sua è infatti la proposta di un’equilibrata terza via o via media tra “guelfi” e “ghibellini”, proposta che sarà poi sviluppata da Dante Alighieri e dal domenicano tomista Jean de Paris nel suo trattato De potestate regia et papali, pubblicato agli inizi del Trecento per contrastare le tendenze teocratiche di Bonifacio VIII.
La pedagogia Il rapporto educativo (docente/discente) è concepito da Tommaso sulla base metafisica della dialettica di potenza e atto: chi educa ha la scienza in atto e la comunica all’educando, cioè a chi ha la scienza ancora in potenza, in modo che questi attualizzi le sue capacità cognitive con l’aiuto del maestro. Si tratta però di un aiuto estrinseco, cioè un mezzo di cui l’educando si serve per realizzare la sua personalità; perciò il maestro costituisce il modello, l’ideale che l’educando si propone di attuare in sé. Ma per Tommaso è necessario distinguere i maestri dal Maestro: i maestri sono coloro che — dal di fuori — mirano in diversi modi allo sviluppo e alla educazione della persona umana; il vero Maestro, invece, l’unico vero maestro interiore, è (come già aveva insegnato Agostino) la Sapienza incarnata, la vera luce della verità e della vita, la fonte inesauribile per il possesso — “dal di dentro” — di tutti i valori. Anche da un punto di vista meramente naturale, comunque, la visione pedagogica di Tommaso è schiettamente teocentrica, opposta cioè a quello che poi sarà il soggettivismo e l’antropocentrismo moderni. L’Aquinate è realista anche nella pedagogia: l’oggetto dell’apprendimento (inventio) è il mondo reale, nella sua complessità e nel suo ordine metafisico, che conduce la mente a Dio come Causa prima dell’essere di ogni cosa; e il soggetto dell’apprendimento è l’uomo dotato di capacità per adeguarsi in qualche modo all’universo in tutta la sua ampiezza («anima, quodammodo omnia»). Il ruolo dell’insegnante è quindi radicalmente ridimensionato, in quanto non vi è vera educazione se non per un personale passaggio dell’anima del discente dalla potenza di apprendere all’atto: atto che viene causato esteriormente, non tanto dall’insegnamento del maestro quanto dalla realtà in atto, cioè dall’intelligibilità del reale. Per Tommaso l’educazione è dunque attivazione da fuori di un processo che si svolge essenzialmente al di dentro: «La causa principale [del processo d’apprendimento] è di natura interiore»; «Col proprio lume interiore intellettuale il maestro non causa il lume dell’intelletto nel discepolo; ma muove il discepolo per mezzo della propria dottrina [del proprio sapere] a questo: che il discepolo medesimo per virtù del proprio intelletto formi concezioni [idee, concetti, conoscenze] intelligibili»: la “causa” essenziale, cioè, è di natura interiore e agisce nell’interiore del soggetto che deve educarsi. Ritroviamo quindi in Tommaso l’aspetto più tipico della filosofia di Socrate, ossia il principio della “maieutica”: non è la levatrice a dare il bambino alla madre, essa soltanto aiuta la madre a mettere al mondo la nuova creatura; il bambino non è opera della levatrice ma della sua genitrice; analogamente, il maestro non dà il sapere (che può essere prodotto soltanto dalla mente dello scolaro): può soltanto stimolare i processi della mente; il vero maestro è soltanto quel lume interiore, che scopre, acquisisce, costruisce il proprio sapere e la propria esperienza intellettuale per via di apprendimento, di inventio (scoperta). Come scrive il celebre pedagogista Aldo Agazzi esponendo la filosofia tomista dell’educazione, l’insegnamento «sarà efficace ed autenticamente educativo dell’intelletto alle proprie funzioni, soltanto se il maestro, ricco della sua doctrina, saprà proporla alla mente investigatrice del suo scolaro al modo come le cose e la realtà del mondo si propongono da sé e si incontrano da parte della mente umana. Apprendimento dunque; e un insegnamento in termini di apprendimento, visto non dalla parte del maestro, ma dalle capacità interiori dello scolaro ad esercitare e conseguire l’abito del pensare»[70].


NOTE
[50] Ossia, “ens” come participio presente del verbo “esse”; qui Tommaso si rifà sempre, nei suoi scritti, a come Dio si è rivelato a Mosè (cfr Libro dell’Esodo, III, 14) dicendo che il suo nome proprio è “Colui che è” (in ebraico “Jahvè”); dai primi filosofi cristiani ai grandi dottori scolastici, la metafisica ha come fulcro speculativo, assolutamente originale rispetto ai Greci, l’autorivelazione di Dio, quella che Étienne Gilson chiama la «metafisica dell’Esodo» (cfr L’esprit de la philosophie médiévale, Ed. Vrin, Parigi 1931; God and Philosophy, Yale University Press, New Haven 1939).
[51] Qui, come nelle altre “viae”, il punto di partenza della dimostrazione non è di tipo “fisico” (in senso moderno, cioè limitato ai corpi materiali e alla loro valutazione in termini di scienza sperimentale) ma di tipo metafisico: il termine “motus”, applicato — come fa Tommaso — a tutti gli enti in generale, indica il “divenire”, il passaggio dalla potenza all’atto, ossia la condizione metafisica di base di ogni ente limitato e contingente, quali sono assolutamente tutti gli enti creati: solo Dio infatti è l’Essere perfetto che non “si muove”, nel senso che non può né perdere né acquistare una sua perfezione entitativa. Fatta questa precisazione si capisce che le obiezioni moderne alla “prima via” che mettono in questione la concezione del “moto” in senso fisico (cioè secondo quello che le scienze fisico-matematiche considerano moto nel tempo e nello spazio) si basano su un fraintendimento: Tommaso non parla solo di moto “fisico”, ma di moto in senso metafisico, che è una evidenza di senso comune, perché tutti si accorgono che le cose cambiano incessantemente, in tutti i sensi. Si tratta insomma dell’evidenza da cui partiva Eraclito quando ricordava che tutti gli enti dell’esperienza subiscono il movimento.
[52] Battista Mondin, Il sistema filosofico di Tommaso d’Aquino, II ed., Ed. Massimo, Milano 1992, p. 195.
[53] Tommaso d’Aquino, Quaestiones disputatae de veritate, q. 21, a. 4.
[54] Tommaso d’Aquino, Quaestiones quodlibetales, q. 9, a. 3.
[55] Raimondo Spiazzi, Natura e grazia: fondamenti dell’antropologia cristiana secondo Tommaso d’Aquino, Ed. Studio Domenicano, Bologna 1992, p. 46.
[56] Angelo Campodonico, Alla scoperta dell’essere: saggio sul pensiero di Tommaso d’Aquino, Jaca Book, Milano 1986, p. 205.
[57] Tommaso d’Aquino, Summa contra gentiles, III, c. 49.
[58] Étienne Gilson, Eléments d’une métaphysique thomiste de l’être, in “Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge”, 1973, p. 33.
[59] Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q. 76, a. 1
[60] Michele Federico Sciacca, Prospettiva sulla metafisica di Tommaso, Il ed., Ed. L’Epos, Palermo 1990, p.118.
[61] Michele Federico Sciacca, op. cit., p. 121.
[62] Tommaso d’Aquino, In III librum Aristotelis “De anima” expositio, lect. 3, n. 175.
[63] Tommaso d’Aquino, Summa contra gentiles, III, c. 67, a. 3.
[64] Cfr Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q. 79, a. 9 e a. 10. Si veda in proposito Juan José Sanguineti, Los principios de la racionalidad en Santo Tomás, in “Espíritu”, 1992, pp. 109-137; Antonio Livi, La ricerca della veritò. Dal senso comune alla dialettica, III ed., Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2005.
[65] Cfr Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q. 12, a. 2. c.
[66] Tommaso d’Aquino, Summa contra gentiles, 1, c. 3; cfr anche In librum “de hebdomadibus”, lect. 2, n. 23; De veritate, q. 10, a. 1.
[67] Eugenio Toccafondi, Valore perenne della gnoseologia tomista, in “Aquinas”, 1960, p. 236.
[68] Tommaso d’Aquino, In librum Aristotelis “De coelo et mundo”, 2, 12, 17.
[69] Étienne Gilson, op. cit., p. 36.
[70] Aldo Agazzi, La promozione umana, in “La scuola e l’uomo”, 1992, p. 235.