Libro III Cap. 19 – La riunificazione italiana (I)

Prof. A. Torresani. 19. 1  Cavour, Garibaldi, Vittorio Emanuele II, Mazzini – 19. 2  La politica piemontese fino alla pace di Parigi.

Dopo gli avvenimenti del 1848-49, la situazione italiana co­nobbe un periodo di stanchezza e di delusione che angustiò non poco i protagonisti di quelle vicende.  Nel Lombardo-Veneto, fino al 1857, il Radetzky rimase come governatore generale, munito di pieni poteri per bloccare ogni tentativo rivo­luzionario. Sulla forza  militare austriaca fondavano ogni speranza di sopravvivenza i ducati di Parma e di Modena, troppo piccoli per opporsi a una rivoluzione, e il granducato di Toscana. Lo Stato della Chiesa doveva la sopravvivenza alle truppe francesi stanziate a Civitavecchia e ad alcune migliaia di soldati svizzeri. Il governo francese raccomandava il mantenimento dello Statuto, ma il pontefice Pio IX e il segretario di Stato cardinal Antonelli sapevano che la presenza di un governo rappre­sentativo avrebbe riportato il disordine.  Nel regno delle Due Sicilie, Ferdinando II lasciò cadere ogni tentativo costitu­zionale, rassegnato all’isolamento politico, ma anche fiero di aver ristabilito l’ordine senza l’intervento austriaco.  Nel regno di Sardegna, il re Vittorio Emanuele II non cedette al­la tentazione di abolire lo Statuto albertino e permise all’opi­nione pubblica di manifestarsi in Parlamento. Tra i deputati eletti c’era un personaggio di notevoli capacità politi­che, Camillo Benso conte di Cavour, che, divenuto primo ministro, impresse al Piemonte una deci­sa svolta politica ed economica. Il Mazzini riprese i consueti schemi per giungere alla sollevazione e alla rivoluzione po­litica, ma i suoi metodi apparivano invecchiati.  Giuseppe Gari­baldi si staccò dal Mazzini quando comprese che c’era posto per un partito d’azione che, senza la pregiudiziale repubblicana,  poteva ricevere aiuti dal governo piemontese.  L’attività del Cavour doveva rafforzare la struttura di po­tere del Piemonte per avere l’appoggio dell’opinione pub­blica internazionale; sconfiggere le forze conservatrici all’in­terno, identificate con la Chiesa cattolica; conquistare la fidu­cia dei patrioti del resto d’Italia e, infine, guidare una guerra di liberazione contro l’Austria, ma senza lasciare spazio alla rivoluzione sociale.  Il Cavour ricorse a compromessi pericolosi, ma fu fortunato.  La guerra del 1859 fu il suo capolavoro, perché aprì la strada alle annessioni delle regioni centrali della penisola e alla conquista del sud operata da Garibaldi, un evento che appare prodigioso solo se si dimentica l’isolamento internazionale del regno delle Due Sicilie.
  
 19. 1  Cavour, Garibaldi, Vittorio Emanuele II, Mazzini
       Nel decennio decisivo per le sorti della riunificazione ita­liana quattro personaggi primeggiano fra tutti per il contributo offerto alla formazione del regno d’Italia: Camillo Benso conte di Cavour, Giuseppe Garibal­di, Vittorio Emanuele II e Giuseppe Mazzini.
 Cavour Camillo Benso conte di Cavour nacque nel 1810.  Il padre era uno dei maggiori proprietari terrieri del Piemonte e aveva saputo ben destreggiarsi durante l’occupazione francese. Camillo era il secondogenito: co­me era consuetudine, fu inviato a corte per fare servizio nel corpo dei paggi.  La divisa rossa, tuttavia, sembrò al giovane Cavour una livrea degna di un lacchè, piuttosto che un distintivo d’onore. In seguito, il Cavour frequentò l’accademia militare e divenne ufficiale del genio. Quando nel 1830 scoppiò la rivoluzione a Parigi, il Cavour dimostrò troppo interesse agli avvenimenti e perciò i superiori lo inviarono nell’alta val d’Aosta, per guarire il giovane ufficiale dall’ec­cessivo interesse per la politica. Il Cavour, invece, dette le dimissioni dall’esercito e tornò alla vita borghese, divenuto fonte di preoccupazione per i genitori. Tuttavia, se la vita del Cavour appariva irregolare, non era scioperata o dissoluta, perché si applicò con impegno al com­pito di migliorare la conduzione del vasto patrimonio fami­gliare, trasformato in fattorie modello.
 Formazione europea del Cavour Conosceva bene Ginevra, la città della madre; si recò spesso  a Parigi e Londra, attirato dalle vivaci discussioni parlamentari, seguite  sulla stampa anche in patria.  Se si cerca per il Cavour  un mo­dello di uomo politico che egli avrebbe imitato, si potrebbe pen­sare al Palmerston, le cui spregiudicate manovre politiche rimasero impresse nella sua memoria.
 Disagio del Cavour La politica del re­gno di Sardegna, per un personaggio di formazione euro­pea, appariva limitata, bigotta, provinciale e perciò il Cavour si tenne a lungo appartato, anche perché il padre Michele e il fratello maggiore Gustavo, non avrebbero approvato che egli ve­nisse allo scoperto in modo contrario alla tradizione famigliare: per di più, il padre fu capo della polizia piemontese fino al 1847.
 La religione secondo il Cavour Per i conservatori estremi, la religione era un fattore di stabilità sociale e perciò andava di­fesa e sostenuta con tutte le forze a disposizione dello Stato.  Anche il Cavour attribuiva alla religione cattolica la stessa funzione, ma pensava che essa fosse opportuna solo per le classi sociali inferiori. Ma la religione per le classi elevate, secondo il Cavour, diveniva una specie di freno allo sviluppo economico e politico. Al massimo, egli era disposto ad accettare il cristianesimo nella forma calvinista, come era pra­ticato a Ginevra dagli abitanti di quella città, abituati a lavorar sodo e a non permettere alcun intervento nei loro affari, riducendo il calvinismo a codice morale, a tradizione, ma senza alcuna interferenza nelle scelte politiche ed economiche. Questa concezione della religione, più tardi espressa dal Cavour nello slogan “libera Chiesa in libero Stato”, affonda le sue radici nella persuasione che la religione sia un fatto di co­scienza individuale, mentre gli atti esterni dell’uomo devono es­sere regolati solo dalle leggi dello Stato.
 La Società agraria subalpina Nel 1843, in Piemonte fu fondata la Società agraria subalpina. In un paese privo di attività poli­tica, senza Parlamento, partiti politici, elezioni, giornali li­beri, la Società agraria divenne l’occasione di accesi dibattiti politici. Il Cavour vi impegnò la sua competenza, le energie compresse da tanti anni, per far trionfare i principi dell’effi­cienza, della libertà di mercato che, se non è turbato da interventi esterni, ha il merito di stabili­re il giusto prezzo delle merci che vi affluiscono. 
 Orientamento liberista del Cavour In quegli anni, il Cavour guardava ai modelli francese e inglese, ma per attuarli occorreva irrobustire la struttura economica del paese, soprattutto median­te lo sviluppo della produzione agraria che doveva mirare non tanto all’autosufficienza, quanto alla produzione di derrate da vendere all’estero per acquistare i macchinari e i prodotti indu­striali che in Piemonte mancavano. Lo Stato doveva provvedere alla creazione di infrastrutture come porti, canali, strade, fer­rovie che i privati non possono realizzare da soli. Il magro bi­lancio statale del Piemonte non poteva coprire tutte quelle spe­se. Perciò si dovevano accendere prestiti internazionali, pagan­do gli interessi con maggiori tasse prelevate dai cittadini, i quali a loro volta dovevano imprimere alle loro attività un ca­rattere aggressivo, senza lasciar intentata alcuna possibilità di arricchimento da reinvestire nella loro azienda. Per difendere gli interessi delle categorie sociali che operavano a rischio, occorreva una costituzione e un governo in grado di proteggere i loro interessi, gli unici vitali per lo Stato, mediante un gover­no da loro espresso. Per realizzare tutti questi progetti occor­reva, infine, una stampa libera da ogni impedimento per far trionfare i principi che avrebbero assicurato il successo dei più capaci e dei più industriosi.  
 Necessità di una rivoluzione liberale L’esame dei numerosi ten­tativi di rivoluzione operati dal Mazzini convinse il Cavour che non si poteva più attendere: o la rivoluzione era decisa dall’alto per togliere l’iniziativa ai democratici, oppure si do­veva subire la loro rivoluzione che aveva il torto di essere an­che una rivoluzione sociale, ossia un tentativo di operare il trapasso della proprietà privata verso categorie sociali ritenute incapaci di guidare il progresso economico.
 Inizio dell’attività politica del Cavour  Nel biennio tra il 1846 e il 1848, il Cavour non fu sfiorato dai progetti neo­guelfi e dall’entusiasmo per Pio IX. Egli sosteneva un programma orientato verso obiettivi più concreti: aveva partecipato alla fondazione del Banco di Torino e alla sua successiva fusione col Banco di Genova; era intervenuto in un comitato per la creazione di asili infantili perché la gente che lavorava potesse affidare i figli a istituti che li sorvegliassero; aveva investito notevoli somme di denaro nella costruzione di ferrovie ben sa­pendo che i trasporti celeri valorizzano i prodotti agricoli; aveva fatto manovre politiche per assicurare al suo gruppo la presidenza della Società agraria, contendendola ai democratici; e, infine, aveva finanziato un nuo­vo giornale politico, il “Risorgimento”, per guidare l’opinione pubblica nella direzione da lui desiderata.
 Cavour deputato Cavour si presentò candidato alle elezioni dell’aprile 1848: fu eletto solo alle votazioni suppletive di giugno. Dopo l’armistizio Sala­sco, il Cavour, ostile all’avventurismo militare dei democratici, si sbilanciò in senso conservatore, ritenendo la ripresa della guerra una follia.  Nel luglio 1849, ancora una volta eletto deputato, divenne uno dei maggiori sostenitori di Massimo d’Azeglio che, nell’autunno del 1850, de­cise di proporre Cavour come ministro di a­gricoltura, commercio e marina.
 Cavour ministro dell’agricoltura Poiché il d’Azeglio era spesso malato e incapace di guidare le  sfibranti di­scussioni parlamentari, un poco alla volta il Cavour finì per rappresentare il governo davanti al Parlamento. Spesso, tutta­via, le decisioni del Cavour non erano concordate con gli al­tri ministri.  Sorsero non pochi attriti tra il governo e il troppo intraprendente ministro dell’agricoltura che mostrava fretta di divenire primo ministro.
 Svolta liberista del Piemonte Appena entrato in carica, il Ca­vour fece approvare un nuovo trattato di commercio con la Fran­cia, poco vantaggioso per il Piemonte.  Nei mesi successivi, con i trattati di commercio con Gran Bretagna e Belgio, il Cavour fece trionfare  le sue vedute liberiste.  Furono accesi prestiti internazio­nali per far fronte alla difficile situazione finanziaria: fu prescelta la Banca Hambro, inglese, per non favorire troppo la Banca dei Rothschild di Parigi. Quei prestiti rende­vano i governi di Parigi e di Londra attenti alle mosse politiche del Piemonte.  Il Cavour fece aumentare le tasse dirette sui fab­bricati e sui terreni agricoli, sulla ricchezza mobile e un’impo­sta sulle successioni.  Infine, il governo approvò una legge che riordinava in modo più razionale le finan­ze del Piemonte.
 Isolamento della destra La maggior parte di quei provvedimenti fu approvata col voto favorevole delle forze di centro-sinistra e qualche volta anche di sinistra: contraria la destra conservatri­ce. Il Cavour mirava a un gruppo di centro, escludendo ogni con­dizionamento sia da destra sia da sinistra. Nel  1850 la destra era stata battuta con l’approvazione delle leggi Siccardi, così chiamate dal nome del guardasigilli proponente: abolizione del diritto d’asilo nelle chiese e del foro ecclesiastico.  Inoltre erano ridotte a sei le feste religiose oltre le domeniche. Infine fu stabilito l’obbligo agli enti ecclesiastici di autorizzazione statale per ricevere donazioni. 
 Le leggi Siccardi Le leggi Siccardi ebbero il compito politico di fiaccare la destra conservatrice, giudicata troppo forte in Piemonte, e che utilizzava la Chiesa cattolica a supporto del­la propria azione politica.  Pur essendo in se stessi giustifica­bili, quei provvedimenti avevano il torto di procedere a una de­cisa laicizzazione dello Stato in contrasto col sentimento reli­gioso della maggioranza dei cittadini, ma per un altro verso re­sero possibile l’operazione che più tardi ricevette il nome di connubio.
 Il connubio Appena entrato nel ministero d’Azeglio, il Cavour comprese che gli occorreva un gruppo parlamentare a lui devoto per attuare i piani che aveva in mente.  Gli fu offerta la possibilità di unire il gruppo di centro-destra, da lui dominato, col centro-sinistra di Urbano Rattazzi, spingendo all’opposi­zione sia l’estrema destra sia l’estrema sinistra: il prezzo po­litico richiesto dal Rattazzi era una decisa sterzata anticleri­cale che costava poco e che accontentava un certo radicalismo verbale.
 Crisi di governo L’operazione del connubio fu concordata nel corso di un incontro privato tra il Cavour e il suo fedelissimo Michelangelo Castelli da una parte, il Rattazzi e il Buffa dall’altra. Il programma fu compendiato in quattro principi: monarchia, statuto, indipendenza, progresso. Ormai si attendeva la prima occasione per far cadere il governo del d’Aze­glio. Molti storici hanno rimproverato al Cavour il carattere extraparlamentare di quella crisi, che fu anche la prima manife­stazione di una prassi di governo chiamata “trasformismo”, consi­stente nel chiedere il voto agli elettori schierandosi dietro principi considerati intoccabili, lasciando poi liberi i parla­mentari di individuare gli interessi in grado di coagulare de­putati provenienti dai più disparati gruppi politici, col proposito di rimanere uniti fino al conseguimento dell’o­biettivo.
 Rattazzi presidente della Camera Il Rattazzi fu eletto Presi­dente della Camera dei deputati. La sua candidatura fu soste­nuta dal Cavour in opposizione ad altri membri del governo.  Il Cavour dovette dare le dimissioni da ministro, e il d’Azeglio formò un nuovo ministero senza il Cavour.
 Cavour primo ministro Il governo d’Azeglio, tuttavia, aveva per­duto il motore e per di più si era ingolfato in un af­fare spinoso, il progetto di introdurre il matrimonio civile (l’obbligo di celebrare il matrimonio in municipio, davanti al sindaco, prima che davanti al parroco in chiesa).  Il 21 ottobre il d’Azeglio si dimise e consigliò al re di affidare l’incarico di primo ministro al Cavour, entrato in carica il 4 novembre 1852. Il progetto di matrimonio civile fu ritirato per non inasprire i rapporti col re.
 Gli altri protagonisti del Risorgimento Nel corso dei tre anni seguiti al 1849, il Cavour aveva avuto modo di delineare, almeno nelle linee essenziali, il suo progetto. Gli altri protagonisti del Risorgimento italiano, invece, erano stati dispersi dagli av­venimenti di quell’anno.
 Garibaldi Il Garibaldi, dopo la fine della Repubblica romana e la fallita marcia su Venezia, era tornato in America e solo nel 1854 aveva fatto ritorno in Europa, stabilendosi a Caprera, in attesa degli avvenimenti.
 Vittorio Emanuele II Il re Vittorio Emanuele II (1820-1878) era stato educato secondo i vecchi criteri della corte di Savoia, che prevedevano per l’erede al trono una severa educazione militare e un forte senso dell’obbedienza. Si era distinto nel corso delle battaglie di Goito, in cui fu ferito, e di Custoza dove rimase al comando della retroguardia.  Dopo l’abdicazione di Carlo Alberto a Novara, fu ricevuto dal Radetzky e si racconta che il vecchio feldmaresciallo gli abbia offerto la possibilità di allargare il territorio piemontese se avesse revocato lo Sta­tuto del 1848. Il giovane re rifiutò e perciò dovette subire l’occupazione austriaca della cittadella di Alessandria, con l’obbligo di sciogliere i corpi di volontari e di ritirare la flotta dalle acque dell’Adriatico.
 Il re galantuomo Di qui nacque la leggenda del “re galantuomo” che ebbe un peso non indifferente per le successive fortune del Piemonte. Il Parlamento rifiutò di accettare quelle condizioni di pace e il re lo sciolse, appellandosi agli elettori col pro­clama di Moncalieri.  La nuova camera rati­ficò il trattato di pace il 9 gennaio 1850.  Nello stesso anno il re accettò di nominare il Cavour ministro dell’agricoltura pas­sando sopra la personale antipatia verso un personaggio opposto alla sua indole. Infatti, Vittorio Emanuele II aveva una scadente formazione intellettuale, non capiva gran par­te delle discussioni parlamentari, ma soprattutto insisteva per fare una politica personale prendendo accordi diretti col Papa e con gli altri sovrani, passando sopra la volontà politica del suo governo. 
 Rapporto difficile tra il re e il Cavour Spesso i rapporti col Cavour furono tempestosi e fu necessaria a quest’ultimo molta abilità diplomatica per piegare il re alle sue vedute.  Il re di­veniva intrattabile quando si trattava della dinastia: l’unità d’Italia era presa in considerazione solo quando si prevedeva l’estensione dell’autorità della sua famiglia su tutta la peniso­la.  L’altra grande preoccupazione del re era l’esercito per il quale non si dovevano lesinare gli stanziamenti. Fino al 1859 i propositi del re collimavano con quelli del suo geniale ministro che aveva bisogno di una guerra vittoriosa contro l’Austria e perciò la collaborazione tra due uomini così diversi risultò fruttuosa.
 Mazzini Il Mazzini, all’indomani della caduta della Repubblica romana, tornò in Gran Bretagna e riprese a tessere le sue cospirazioni, senza rendersi conto che i suoi metodi erano invecchiati.  La funzione svolta dal rivoluzionario genovese per­dette importanza, anche se rimase in grado di creare fastidi ai governi più deboli come quelli di Toscana o di Napoli, paraliz­zando i tentativi di riforme interne. Infatti, lo spettro della rivoluzione impedì investimenti di denaro in opere pubbli­che nel timore di costruire per altri, e soprattutto perché i de­nari erano spesi per rafforzare esercito e polizia che poi, alla prova dei fatti, non ressero all’urto di un manipolo di volontari.
 
 19. 2  La politica piemontese fino alla pace di Parigi
         La struttura amministrativa dello Stato piemontese, dopo le riforme del d’Azeglio, rimaneva ancora quella ereditata dai tempi dell’assolutismo: il senato era in mano ai conservatori che dif­fidavano dell’avventurismo del Cavour.
 Il problema degli emigrati lombardi I problemi di politica este­ra, tuttavia, passarono subito in posizione di primo piano. Nel Lombardo-Veneto il governo austriaco aveva promulgato nel 1853 una legge che ordinava il sequestro dei beni di co­loro che erano stati coinvolti dalle vicende delle Cinque giorna­te in posizioni di comando come Gabrio Casati, Francesco Arese, Antonio Litta, Giorgio Pallavicini e altri.  Costoro appartenevano a famiglie pa­trizie, in qualche caso ricchissime, e quasi tutti si erano tra­sferiti in Piemonte, ricevendo la cittadinanza piemontese. La decisione del governo austriaco reagiva all’assunzione del gover­no da parte del Cavour, noto alle autorità austriache come l’uni­co in grado di guidare una nuova guerra contro l’Au­stria. Questa crisi dette la possibilità al Cavour di far votare una legge che stanziava 400.000 lire (di allora) a sussidio dei danneggiati dai sequestri austriaci: una nota diplomatica, indirizzata ai governi di Francia e Gran Bretagna, indicava nell’Austria la perturbatrice dell’ordine internazionale col sequestro dei beni di cittadini di un altro Stato.
 La guerra di Crimea Nel 1854 l’attenzione internazionale fu ri­volta quasi esclusivamente alla questione d’Oriente dove il conflitto assumeva un’entità non prevista. Nel marzo 1854, Francia e Gran Bretagna dichiararono guerra alla Russia, affermando di proporsi solo la difesa dell’impero turco. Il 10 aprile i governi di Francia e Gran Bretagna  pubblicarono un trattato di alleanza che all’art. 5 diceva: “Le loro maestà l’im­peratore dei francesi e la regina del Regno Unito di Gran Breta­gna e Irlanda accoglieranno con premura nella loro alleanza, per cooperare al fine prefisso, le altre potenze d’Europa che deside­reranno entrarvi”.  La potenza invitata era l’Austria che tutta­via non aveva alcun desiderio di aderirvi, perché aveva preoccupazioni per l’egemonia sulla Germania e sull’Italia, dove potevano avvenire rivolte dall’esito imprevedibile se l’esercito austriaco fosse finito in Crimea.  Napoleone III fece sapere che fin quando Au­stria e Francia fossero state alleate in Oriente, nessuno poteva ardire di sollevare l’Italia: l’accenno al Piemonte era chiaro.  A giugno l’Austria fece avanzare il suo esercito in Moldavia e Valacchia, con l’assenso del sultano, costringendo la Russia a ritirare le sue truppe dai principati danubiani. In conseguenza di questo fatto le truppe franco-inglesi poterono sbarcare in Crimea (settembre 1854), iniziando l’assedio di Sebastopoli. L’azione dell’Austria scontentò tutti, russi e alleati perché aveva un carattere neutrale, volto a radunare un congresso inter­nazionale di pace, prima che una delle parti in conflitto risul­tasse perdente.
 Valutazione politica della guerra di Crimea In Italia la valuta­zione politica della guerra di Crimea era controversa. Cavour e i liberali, seguendo i governi di Londra e Parigi, assicuravano che era una guerra della civiltà contro le barbarie, della liber­tà contro la tirannide. I radicali di sinistra, invece, negavano che Napoleone III potesse guidare una guerra del genere, e che in ogni caso l’impero turco era peggiore di quello russo.  Il Cavour decise di far sapere all’ambasciatore britannico che il suo governo avrebbe gradito un invito di alleanza militare con Gran Bretagna e Francia, nella speranza che la guerra scop­piasse anche in Italia.  Il passo successivo fu di far chiedere anche all’Austria che si affrettasse a inviare un corpo di spedizione in Crimea, come si accingeva a fare il Piemonte, a garanzia reciproca di non belligeranza in Italia.  La propo­sta inglese di accettare truppe piemontesi mercenarie, fu respin­ta a Torino. Il ministro degli esteri Dabormida accettò, invece, un prestito britannico a condizioni di favore, ma chiese anche il diritto di partecipare alla pari a future trattative di pace.  Inoltre fu chiesto di obbligare l’Austria a ritirare il sequestro dei beni degli immigrati lombardi, divenuti cittadini pie­montesi. Queste condizioni non furono accettate dagli alleati, che intimarono al governo piemontese di accettare o rifiutare senza condizioni l’alleanza militare. Il re Vittorio Emanuele II era favorevole all’ingresso in guerra e perciò il Cavour fece  dimettere il Dabormida, assumendo anche il ministero degli esteri.
 La soppressione degli Enti ecclesiastici Negli stessi giorni si discuteva  in Parlamento una proposta di legge per sopprimere nu­merosi conventi, confiscandone il patrimonio. Infatti, coi beni confiscati sarebbe  stata istituita una cassa in grado di erogare agli enti di culto conservati l’aiuto necessario al loro sosten­tamento, senza aggravio del bilancio statale.  La discussione fu interrotta nel gennaio 1855 per la morte della moglie, del­la madre e del fratello del re Vittorio Emanuele II, il quale ri­teneva quelle morti come una punizione divina.  Pio IX aveva cri­ticato la politica ecclesiastica del Piemonte, annunciando che chi approvava quella legge incorreva nelle censure previste dal diritto canonico. Il vescovo di Casale, Nazari di Calabiana, se­natore del Regno, propose che le diocesi del Piemonte pagassero allo Stato la somma che il governo cercava di risparmiare sul bi­lancio, purché fosse ritirata la legge che sopprimeva i conven­ti.  Il re, ingenuamente, pensava davvero che il ministero avesse problemi di bilancio e non questioni di principio.  Il Ca­vour minacciò di dimettersi, e la spuntò.  Il re dovette respin­gere le dimissioni, e la proposta Calabiana decadde. La legge tolse personalità giuridica a 34 ordini religiosi, sopprimendo 331 case religiose con circa 4500 religiosi, più della metà di quelli esistenti in Piemonte.  La vicenda costrinse  il re ad astenersi da ogni politica personale, e a sottomettersi all’azio­ne del ministero.
 I piemontesi in Crimea Nei primi giorni del maggio 1855 il corpo di spedizione piemontese sbarcava in Crimea (circa 18.000 soldati al comando di Alfonso La Marmora). Sul fiume Cernaia, il 16 agosto, i piemontesi partecipa­rono alla difesa di un ponte, meritando un encomio: ci furono  14 morti e 170 feriti, in patria proclamati eroi mediante una campagna propagandistica, promossa per scopi politici. A ottobre cominciarono trattative di pace.
 Schermaglie diplomatiche Cominciarono i maneggi diplomatici per presentare alla pace di Parigi richieste territoriali in Italia, per esempio i ducati padani o le legazioni pontificie di Romagna. Questi tentativi furono bloccati dall’Austria, e il Cavour, al­la fine dei lavori del congresso, ottenne solo una seduta suppletiva, l’8 aprile 1856, in cui fu affrontata la questione italiana, perché poteva pregiudicare la pace europea appena ristabilita.  I rappresentanti francese e britannico de­nunciarono la situazione di Napoli e di Roma, bollandola con ter­mini di fuoco, mentre i rappresentanti di Prussia e Russia affer­marono di non avere istruzioni da parte dei loro governi per di­scutere l’argomento: sul piano pratico, non accadde nulla. Il Ca­vour non poté far altro che associarsi a Francia e Gran Bretagna nel deplorare i metodi di governo di Ferdinando II e nell’esigere  riforme a Roma.
 Bilancio politico della guerra di Crimea A conti fatti, il ri­sultato più importante della partecipazione piemontese alla guer­ra di Crimea fu il dissidio sorto tra Russia e Austria, tale da infrangere una collaborazione durata fin dal 1815 indebolendo  l’Austria, contro la quale il Piemonte preparava la guerra. L’altro risultato importante fu la simpatia di Francia e Gran Bretagna verso il Piemonte e la politica adottata dal suo gover­no. A partire dal 1856, l’attenzione del Cavour fu rivolta alla guerra contro l’Austria per sostituire nella penisola l’egemonia piemontese a quella austriaca.
 Progresso agricolo del Piemonte Lo Stato piemontese si presenta­va a questo appuntamento rafforzato sotto ogni aspetto. L’agricoltura aveva superato la crisi degli anni precedenti e specialmente in pianura la produzione era aumentata. I vini pie­montesi furono venduti a condizioni più vantaggiose; in Liguria aumentò la produzione dell’olio.  Il nuovo catasto riduceva le sperequazioni fiscali e si stava scavando un grande canale per irrigare la pianura piemontese.
 Produzione tessile Anche l’industria aumentò il giro dei suoi affari, specialmente la trattura e la torcitura della seta.  La tessitura della lana e del cotone, invece, subì la concorrenza dei tessuti inglesi a causa della riduzione delle tariffe dogana­li, una conseguenza del liberismo che premia chi produce la mi­gliore qualità al minor prezzo.
 Industria meccanica Vistosi, invece, furono i progressi in campo siderurgico e meccanico, a causa delle costruzioni ferroviarie. A Sampierdarena, le officine Ansaldo divennero la più importante impresa siderurgico-meccanica italiana (locomoti­ve, motori per navi, cannoni, costruzioni navali).
 Finanza La Banca Nazionale divenne la base del sistema crediti­zio del paese.  La fondazione delle Borse di Torino e di Genova stimolò l’attività speculativa.
 Ferrovie Le costruzioni ferroviarie conobbero uno sviluppo impe­tuoso.  Nel 1848, in Piemonte c’erano solo 8 chilometri di ferro­via in esercizio.  Al principio del 1859, le linee erano lunghe 850 chilometri e altri 250 erano in fase avanzata di costruzione.  Nel 1857 iniziò il traforo del Fréjus.  Negli stessi anni furono costruite strade statali per circa 450 chilometri e strade pro­vinciali per oltre 1000 chilometri, di cui 300 in Sardegna.  Il telegrafo estese la rete a 1200 chilometri.
 Indebitamento pubblico La situazione finanziaria dello Stato, dati gli investimenti necessari per far fronte a tanti lavori pubblici, era deficitaria, ma il Cavour riteneva che quei debiti fossero più utili di un bilancio in pareggio.  Nel 1859 il debito pubblico era salito a circa 725 milioni (di allora): l’unico ram­marico è che gli interessi passivi su quella somma furono pagati dall’Italia riunificata, mentre le opere pubbliche rimanevano in Piemonte.
 Sviluppo sociale Lo sviluppo sociale del Piemonte, paragonato al resto d’Italia, appariva imponente, perché lo Statuto garantiva la formazione di società operaie di mutuo soccorso e altre forme associative che rendono più giusta la vita sociale.  Le importa­zioni e le esportazioni dal Piemonte assunsero un ritmo crescen­te, mentre negli altri Stati italiani il movimento delle merci languiva a causa di una politica ottusa, dettata dal timore di sollevare movimenti sociali impossibili da contenere. Il maggiore dinamismo economico-politico del Piemonte chiarì agli occhi dei patrioti che solo il Piemonte poteva condurre a termine la riunificazione d’Italia.
 L’ultimo Gioberti Il Gioberti, finito  il breve periodo di go­verno, si recò in Francia dove visse fino alla morte, avvenuta nel 1852.  Nell’ultima opera, Del rinnovamento civile d’Italia, il Gioberti rimpianse l’occasione perduta nel 1848, affermando che in quell’anno avrebbe trionfato  una concezione municipali­stica, quella militare di un Piemonte retrivo, incapace di impri­mere una carica ideale al moto di riunificazione italiana: dunque si ebbe solo un rinnovamento, non il risorgimento d’Italia.  
 Adesione di Garibaldi alla Società nazionale Al programma monarchico e piemontese aderirono molti protagonisti del primo tentativo, sfortunato, di riunificazione italiana, la maggior parte dei quali abbandonarono le simpatie repubblicane. L’ac­quisto più importante alla causa fu Garibaldi: di passaggio per Londra, aveva incontrato il Mazzini, entrando in disaccordo con lui, perché giudicava privo di reali possibilità un partito repubblicano.
 La Farina Poi aderì anche Giuseppe La Farina, che dopo la rivo­luzione di Palermo del 1848 era esulato in Francia rimanendovi fino al 1854. Il 13 agosto 1856 il Cavour ricevette Garibaldi, e più tardi, il La Farina al quale raccomandò di estendere la Società Nazionale, anche se gli chiese di non com­prometterlo. A partire da quel giorno, il La Farina, divenuto segretario della Società Nazionale, incontrò il Cavour quasi giornalmente, senza che nes­suno lo sapesse.  Abbiamo qui l’inizio della politica cavouriana del doppio binario: quello ufficiale a capo del governo piemonte­se e quello ufficioso a capo di un movimento rivoluzionario che, in caso di insuccesso, si poteva abbandonare al suo destino.
 Successo della Società Nazionale La Società Nazionale reclutava i suoi membri soprattutto tra i numerosi immigrati in Piemonte (forse 30.000) alcuni dei quali avevano ricevuto incarichi e po­sti di lavoro.  Il successo della Società Nazionale fu sancito dall’insuccesso clamoroso di un ennesimo tentativo rivoluziona­rio, la spedizione di Sapri guidata da Carlo Pisacane e tragica­mente conclusa. Il Mazzini, di fronte alla situazione nuova  creata nell’Italia settentrionale dalla politica ca­vouriana, si era convinto che un movimento insurrezionale nel sud d’Italia avrebbe avuto notevoli probabilità di successo. In Sicilia e a Napoli era cominciato un lavoro di preparazione che sembrava ben avviato. 
 Pisacane e la spedizione di Sapri Il piano della spedizione nel Mezzogiorno fu fissato nel corso di una riunione tenuta a Genova, presente il Mazzini, nel 1857: prevedeva per il 10 giugno, l’imbarco del Pisacane con una ventina di compagni su un piroscafo di linea, di cui si sarebbero impadroniti.  Rosolino Pilo e altri quattro patrioti dovevano imbarcare armi e munizioni su una goletta e attendere il piroscafo per trasbordare le armi.  Il piroscafo così rifornito doveva dirigersi verso le isole di Ponza e Ventote­ne per liberare i detenuti. Il gruppo ingrossato doveva sbarcare a Sapri per unirsi ai patrioti della Basi­licata, per marciare su Napoli.
 Difficoltà logistiche La partenza del Pisacane da Genova avvenne il 25 giugno sul piroscafo Cagliari, con 24 compagni.  Poche ore dopo si impadronirono della nave, rinchiusero il capitano nella sua cabina, trovando nella stiva una buona quantità di armi. Giunti a Ponza, i rivoltosi si impadronirono dell’isola dopo un breve scontro con i soldati borbonici.  Circa 300 detenuti – quasi tutti condannati per delitti comuni – furono liberati e subito imbarcati con altre armi trovate a Ponza.  Il 28 giugno il piroscafo giunse a Sapri, ma ormai la polizia borbonica sapeva quasi tutto sulla spedizione.  A Sapri, il Pisacane non trovò i previsti collegamenti e la popolazione era ostile, anche perché i braccianti agricoli erano impegnati dalla mietitura lontano da casa. Al Pisacane fu suggerito di dirigersi in Basilica­ta, in luogo di Napoli. 
 Morte del Pisacane Il 1° luglio avvenne lo scontro con l’eserci­to regolare borbonico: la schiera dei ribelli fu battu­ta, perdendo circa 150 uomini.  Il giorno dopo, il Pisacane ve­dendosi circondato senza possibilità di scampo, si uccise e altri 25 uomini rimasero sul terreno.  Anche le sollevazioni previste a Genova e Livorno, in concomitanza con quella di Sapri, fallirono. 
 Insuccesso della spedizione Il Mazzini rimase nascosto per il mese di luglio, riuscendo infine a partire per Londra. Il falli­mento della spedizione di Sapri sollevò enorme scalpore, gettando discredito sul partito repubblicano e democratico, mentre aumen­tavano i consensi al programma della Società nazionale che aveva saputo stringere col governo piemontese una più proficua unità d’azione.
 Elezioni in Piemonte Nel novembre 1857 in Piemonte si tennero nuove elezioni che segnarono una notevole sconfitta per la poli­tica del connubio: infatti, la maggioranza governativa scese da 140 a 95 deputati. Il Cavour, pur con qualche problema in più,  rimase al governo perché non esisteva alternativa alla sua po­litica.  Il Cavour divenne più cauto, spostando a destra il bari­centro del nuovo governo: ne fece le spese il Rattazzi, costretto alle dimissioni.  Il Cavour assunse anche il ministero degli in­terni dando al programma antiaustriaco la precedenza.