Aristotele (IV b)

Di ANTONIO LIVI. Aristotele (IV). PROBLEMI DI INTERPRETAZIONE. Divergenze tra Platone e Aristotele sulla dottrina dei princìpi. Ontologia e teologia nella metafisica di Aristotele

di Antonio Livi,


tratto da


“Dal senso comune alla dialettica. Una storia della filosofia”


Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2004-2005


CAPITOLO TERZO


 


ARISTOTELE


Parte quarta (II)


 


PROBLEMI DI INTERPRETAZIONE


1. Divergenze tra Platone e Aristotele sulla dottrina dei princìpi.


Aristotele modifica sensibilmente l’impostazione data da Platone alla dottrina dei princìpi primi dell’essere; approfondendo questo aspetto è possibile cogliere alcune delle differenze fondamentali tra i sistemi di questi due grandi pensatori, come, ad esempio, le conseguenze che derivano dal diverso atteggiamento conoscitivo con cui si sono rivolti al piano dei fenomeni della natura.


Ingemar Düring, autorevole studioso contemporaneo del pensiero aristotelico, ha scritto un’importante monografia sullo Stagirita, dove viene affrontato anche il tema del confronto della teoria platonica delle idee con i princìpi aristotelici di spiegazione dei processi della natura.


«Nella dottrina dei princìpi viene chiaramente in luce una divergenza fondamentale fra Platone e Aristotele. Essi affrontano infatti il problema da punti di partenza opposti. “Se qualcuno, scrutando in alto a bocca aperta, o guardando in giù con la bocca chiusa, cerca di apprendere qualcosa di ciò che è percepibile con i sensi, io affermo che costui non imparerà mai nulla, poiché niente di questo genere può esser oggetto di una scienza”. Ora però bisogna guardarsi dal giudicare Platone strettamente secondo la lettera: basta soltanto leggere l’inno di lode alla bellezza della terra nel Fedone, la cui efficacia viene ancora accresciuta dal contrasto con ciò che è stato detto in precedenza. Si riconoscerà allora che anche Platone guardava con occhi aperti il mondo come fenomeno, e che sapeva anche apprezzarlo. In realtà, i suoi dialoghi sono molto più ricchi di osservazioni personali in tutti i campi del sapere che le opere di Aristotele. Sennonché egli non voleva riconoscere che questo fosse sapere: esso apparteneva, secondo lui, al mondo delle opinioni, delle doxai. Platone non usa mai il vocabolo episteme per indicare una forma di scienza della natura, quale è quella che costituisce il tema della Fisica di Aristotele. Ed egli distingue espressamente il sapere vero, o puro, da quello non puro, cui non vuole lasciar libero l’accesso.


«Al contrario, Aristotele muove dalle cose della natura e dalle opinioni universalmente riconosciute: “Voler dimostrare che esistono le cose naturali è ridicolo, perché questo lo si vede. Chi cerca di spiegare ciò che è manifestamente esistente per mezzo di qualcosa d’invisibile, dimostra la sua incapacità di distinguere le cose per sé evidenti da ciò che necessita una spiegazione. Allo stesso modo uno che sia cieco dalla nascita potrebbe trarre acute conclusioni a proposito dei colori, e tuttavia simili discorsi dovranno rimanere delle parole, dietro cui non si pensa nulla”.


«L’orizzonte della filosofia aristotelica è dato dai processi naturali, e non, come in Platone, dall’essere. Noi traduciamo il vocabolo kinesis con “movimento” o “cambiamento”, ma esso designa in realtà tutti i processi della natura, compresi la generazione e la corruzione. Quando Aristotele prese ad osservare i processi naturali e a riflettere su di essi, trovò che erano parte di un ciclo biologico e che i processi particolari cooperavano alla realizzazione di un fine. Ogni essere vivente si sviluppa nel senso di un fine particolare, e porta in sé la possibilità di raggiungere una forma e una struttura compiute. La natura è, in sé, qualcosa privo di struttura, tuttavia aspira alla struttura. Ogni cosa naturale (e dunque non soltanto gli animali e le piante, ma anche i corpi elementari, hapla somata) ha in sé un principio di movimento e di quiete che negli esseri viventi produce la crescita e lo sviluppo, e negli elementi invece tutti gli altri processi della natura. Compito dello studioso della natura è di spiegare quali siano i princìpi in conformità dei quali si svolgono questi processi naturali, e soprattutto come è strutturato il mondo dei fenomeni. A buon diritto K. v. Fritz ha posto in rilievo la fondamentale differenza fra l’antica e la moderna concezione della causalità. Aristotele si domanda sempre dia ti (perché?), e questo metodo di ricerca fu appunto indicato, più tardi, con il vocabolo aristotelizein. Con il suo metodo egli intende mettere in luce i fattori che determinano un certo processo e lo conducono a un determinato fine; ma a questo punto il suo interesse vien meno. Egli non pone mai la questione se si possa verificare la teoria con un esperimento, oppure se sulla base di un’analisi sia possibile prevedere l’andamento di un processo. La fondamentale differenza fra l’antica scienza della natura e la scienza naturale dopo Galileo è che – a parte la diversità dei loro sistemi – i pensatori antichi rimasero sempre legati a princìpi statici di invarianza, mentre dopo Galileo tutte le interpretazioni della regolarità della natura sono fondate su princìpi dinamicamente invarianti.


«Attraverso i tre trattati antichi Lambda [come viene chiamato il libro XI della Metafisica], Phys. I e II noi possiamo seguire come la dottrina aristotelica dei princìpi venne formandosi grado a grado. In Lambda Aristotele presenta uno sguardo d’insieme; la concezione di fondo è fissata, soltanto nei particolari qualcosa rimane ancora in sospeso. Vuol dimostrare che l’universo è un’unità funzionale: tutto ciò che esiste nel mondo ed è soggetto a mutamento vuol presentarlo come l’ultimo anello di una struttura al cui vertice è il proton kinoun akineton. Egli opera già mediante i suoi concetti fondamentali, le archai o aitia, la coppia di concetti dynamisenergeia, l’idea del tutto organico e la dottrina del telos. Possiamo osservare con chiarezza come Aristotele proceda a tastoni, e venga creandosi una sua terminologia un passo dopo l’altro.


«Il tema del primo libro della Fisica è indicato da Aristotele come “i princìpi degli accadimenti naturali nella generazione”. Il problema centrale non è però, come nei presocratici, la questione della generazione degli elementi, bensì quello della generazione semplicemente, haple genesis. Liberando il problema della haple genesis dalla dottrina platonica delle idee, e introducendo l’“assenza della forma” come il primo degli opposti, Aristotele trasformò completamente l’impostazione della questione. Il non essere venne ridotto a concetto gnoseologico, e identificato con il non percettibile. Aristotele riconosce pienamente l’efficacia della nuova teoria; noi sentiamo nelle sue parole un tono di trionfo: “Tutto ciò che è armonicamente combinato deve originarsi dal non armonicamente combinato, e ciò che non è armonicamente combinato dall’armonicamente combinato. Ciò che è armonicamente combinato si converte, quando si corrompe, nel non armonicamente combinato; non però in uno qualsiasi, ma nell’opposto”.


«Nel secondo libro della Fisica Aristotele tratta dei quattro fattori che noi possiamo distinguere in ogni processo naturale: materia, forma, causa del movimento e fine del mutamento. Si traduce, tradizionalmente, aitia con “cause”, e si aggiunge ogni volta l’ammonimento che non si tratta di cause nel senso odierno della parola; soltanto il terzo principio sarebbe anche da noi designato con il termine “causa”. Ma Aristotele confonde spesso causa cognoscendi e causa essendi, fondamento e causa. Muove sempre dal fatto che il sapere presuppone la conoscenza del perché, dia ti: “Conduciamo la ricerca in vista della conoscenza; ma non riteniamo di conoscere la singola cosa prima di conoscere per ogni cosa il “perché”, e cioè prima di comprendere il fondamento primo”. Il concetto di privazione, che ha una parte di rilievo in Lambda e nel primo libro della Fisica, perde in seguito importanza.


«Platone aveva sviluppato una dottrina dei princìpi dell’essere, cui si attenne poi con perseverante coerenza. E’ certo probabile che la dottrina delle idee-numeri, che gli diede la possibilità di determinare numericamente le idee, rappresenti un sottile allargamento della classica dottrina delle idee. Ma, comunque si possano intendere le notizie conservate, bisogna riconoscere che le idee-numeri e le idee sono aspetti della medesima “essenzialità”, e dunque fondamentalmente identiche. Anche se distinguiamo con Aristotele due stadi nello sviluppo della dottrina delle idee, la teoria delle idee rimane sostanzialmente immutata.


«Abbiamo indizi del fatto che Aristotele stesso era convinto di presentare in Lambda un’alternativa alla dottrina platonica dei princìpi. Egli intende parlare dell’“essenzialità”, ousia. Soprattutto nell’ultima parte del trattato discute punto per punto i fondamentali concetti della dottrina platonica dei princìpi, il bene, l’Uno, le idee, e la relazione del mondo sensibile con il cosmo delle idee. Ma poiché fin da principio egli ha voltato la schiena alla “scienza universale” e all’ontologia di Platone, la sua impostazione è completamente diversa. È tipico dell’intera sua esposizione il fatto che egli consideri la sua filosofia come il risultato della lotta combattuta dai precedenti pensatori con le medesime questioni fondamentali» (Ingemar Düring, Aristotele, trad. it., Mursia, Milano 1976, pp. 232-235).


 






2. Ontologia e teologia nella metafisica di Aristotele.


Si è visto come da Aristotele derivi la tradizione che intende la metafisica come scienza rigorosa e sistematica, anche se tale nozione non significa affatto negare la complessità del reale e la sua problematicità. Uno degli aspetti sui quali maggiormente si sono soffermati gli interpreti in epoca moderna, a questo proposito, concerne il significato attribuito da Aristotele alla “teologia”, causa prima della realtà, all’interno della scienza metafisica. Enrico Berti, dell’Università di Padova, presenta in questo saggio i termini della questione interpretativa, aggiungendovi il suo autorevole punto di vista; secondo lo storico padovano, è proprio la teologia (individuazione del “principio” in qualcosa che trascende l’esperienza) a mantenere la metafisica di Aristotele nella dimensione “problematica”:


«In questi ultimi anni si sono progressivamente moltiplicati gli studi che non tendono più a presentare la metafisica di Aristotele come dottrina caratterizzata da pretese di sistematicità e di dimostratività, ma piuttosto come una ricerca essenzialmente problematica e dialettica. Quest’interpretazione, come la maggior parte delle interpretazioni moderne di Aristotele, è stata resa possibile dal metodo storico-genetico, inaugurato 45 anni fa da Werner Jaeger; ma essa è andata molto al di là della posizione stessa di Jaeger, fino al punto di non conservare nessuno dei risultati delle sue ricerche. L’illustre specialista tedesco, sviluppando un’indicazione fornita già dai filologi del XIX secolo, in particolare da Natorp, aveva, come si sa, rilevato l’esistenza, all’interno del pensiero aristotelico, di una tensione tra il punto di vista teologico, secondo il quale la metafisica era concepita essenzialmente come una scienza del trascendente, e il punto di vista ontologico, secondo il quale essa si pone come scienza dell’essere in quanto essere, o del trascendentale, e aveva proposto di risolvere “geneticamente” questa tensione, cioè considerando i due punti di vista come momenti successivi dello sviluppo di un pensiero unitario. In seguito molti interpreti del pensiero di Aristotele hanno tentato di superare questa dualità risolvendo uno dei due termini nell’altro, cioè negando l’esistenza di una prospettiva ontologica intesa come metaphysica generalis, e riducendo tutta la metafisica aristotelica alla prospettiva teologica, o metaphysica specialis. Altri, al contrario, hanno negato l’esistenza di una reale tensione tra i due termini, li hanno dichiarati perfettamente compatibili e hanno concepito la metafisica di Aristotele come sostanzialmente articolata in due parti, l’ontologia e la teologia razionale, cioè di nuovo la metaphysica generalis e la metaphysica specialis.


«La discussione ha preso una svolta decisiva solo quando si è cercato di mantenere la tensione messa in luce da Jaeger e di giustificarla non in base a un’ipotesi evolutiva, cioè come una successione cronologica di fatti, ma con un approfondimento teoretico del pensiero di Aristotele, cioè sforzandosi di trovare un rapporto logico-speculativo tra i due punti di vista, quello teologico e quello ontologico. Così, alcuni hanno presentato la teologia come il risultato necessario di un discorso di tipo ontologico, mostrando in questo modo da una parte l’impossibilità di un’ontologia pura, cioè di un discorso generale sull’essere, che non sia destinato a risolversi interamente nella teologia, e dall’altra l’impossibilità di una discussione che abbia fin dall’inizio per oggetto il divino e non giunga a questo solo intendendolo come soluzione del problema dell’essere. Altri, al contrario – e così si è giunti ai risultati più nuovi e più rivoluzionari – hanno considerato la teologia come un effetto illegittimo di una ricerca ontologica che avrebbe dovuto restare eternamente tale, oppure come l’ideale irrealizzabile di una problematica ontologica che, anche contro le intenzioni di Aristotele, resta aperta e senza soluzione.


«Il risultato di tutte queste ricerche sembra essere il seguente: da un lato si è preso coscienza del carattere essenzialmente problematico della metafisica aristotelica, almeno nel suo aspetto ontologico, cioè si è riconosciuto che essa consiste essenzialmente in una ricerca, e, in particolare, in una ricerca che ha l’essere come proprio ambito; d’altro lato si è indicata la soluzione di questa problematica nella posizione del trascendente, sia che questo venga interpretato come una soluzione – legittimamente o illegittimamente – realizzabile, e come tale destinata a mettere fine alla “problematicità”, sia che venga invece interpretato come un ideale irrealizzabile e quindi incapace di risolvere la “problematicità” della metafisica, determinando una situazione di scacco e di naufragio. […] Mi sembra di poter sostenere che la metafisica di Aristotele è effettivamente problematica, cioè che essa non consiste in una dottrina, ma in una ricerca; che questa “problematicità” implica necessariamente come propria soluzione la posizione del trascendente; e che, tuttavia, questa posizione del trascendente non estingue affatto, neanche nell’intenzione di Aristotele, una tale “problematicità”, ma, al contrario, ne costituisce la conferma definitiva.


«Se noi intendiamo per metafisica di Aristotele il discorso che è contenuto nell’opera così intitolata, vediamo che all’inizio di questo scritto tale discorso è definito come “scienza dei princìpi e delle cause prime”. A proposito di questa definizione è necessario precisare che, malgrado tutto ciò che si è recentemente sostenuto, le cause prime si identificano con Dio, cioè col trascendente, e ciò è provato dall’affermazione contenuta nel contesto, secondo cui la scienza delle cause prime è divina, perché essa ha come oggetto Dio, “dato che tutti ammettono che Dio è tra le cause prime, e che è un principio”. Quanto al concetto di scienza, sappiamo che per Aristotele avere scienza significa “conoscere la causa per la quale una cosa esiste, sapere che essa è la causa di quella cosa e che non è possibile che questa cosa sia diversa da quella che è”. Di conseguenza, quando si definisce la metafisica come la scienza delle cause prime, bisogna fare attenzione a non prendere il termine di scienza in senso letterale, cioè come conoscenza delle cause, altrimenti la metafisica diventerebbe la conoscenza delle cause delle cause prime, cioè la conoscenza delle cause di Dio, cosa manifestamente assurda, dato che le cause prime, e quindi anche Dio, proprio per il fatto di essere prime, non possono avere cause. Nella definizione citata sopra, il termine di scienza non può che essere inteso che come conoscenza: per questa ragione la metafisica è la conoscenza delle cause prime. Ma così si è già sottintesa l’esistenza di qualcosa di cui le cause prime sono cause: e, in rapporto a questa cosa, la metafisica, come conoscenza delle sue cause, sarà una scienza nel senso letterale del termine. Infine, per quanto riguarda il modo in cui la metafisica è scienza delle cause prime, si deve osservare che il discorso contenuto nella Metafisica non è mai presentato da Aristotele come una scienza già posseduta, che debba mostrare come le cause prime sono cause dei loro effetti, cioè che debba dimostrare quali sono gli effetti, partendo dalle cause; ma, al contrario, questo discorso è sempre considerato come una ricerca delle cause, cioè come una ricerca della scienza intesa come possesso della conoscenza delle cause. Quindi, o s’intende l’espressione scienza delle cause prime come ricerca delle cause prime, oppure la metafisica non è tale scienza, ma solo la ricerca di essa.


«La definizione successiva dataci da Aristotele è quella di “scienza dell’essere in quanto tale”. […] Le due definizioni illustrano due differenti aspetti della stessa ricerca: l’una, in effetti, indica l’oggetto di cui si cercano le cause, cioè l’essere in quanto essere, e l’altra le cause che si ricercano, cioè la cause prime. Infatti è evidente che le cause dell’essere in quanto essere, cioè le cause della totalità, non possono essere che le cause prime, cioè quelle che sono cause dell’intera serie, per il fatto stesso che non dipendono da cause superiori.


«E si comprende allo stesso modo il rapporto tra il primato della metafisica, detta filosofia prima in quanto scienza delle cause prime, e la sua universalità, che risulta dall’universalità dell’essere in quanto essere. In conclusione, quindi, la metafisica è la ricerca delle cause prime dell’intera realtà; ora, dato che ricercare le cause di una cosa, significa ridurla allo stato di problema, la metafisica riduce allo stato di problema tutta la realtà, e di conseguenza si può dire che essa ne è la problematizzazione integrale.


«La ragione in virtù della quale la metafisica si pone, almeno come problema, è dovuta al fatto che la stessa realtà è problematica. La problematizzazione integrale della realtà, realizzata dalla metafisica, non è dunque arbitraria, ma è imposta dalla stessa “problematicità” del reale. Questa risulta, in Aristotele, dal fatto che l’essere ha molti sensi, cioè dal fatto che esso è costituito da una molteplicità che non è riducibile a un genere unico. Ogni forma di molteplicità, per essere intelligibile, cioè per poter essere enunciata in maniera sensata, deve possedere una certa unità. Infatti, come afferma Aristotele, “una parola che non possiede una sua unità, non significa niente, e se le parole non significano niente, nessun discorso è possibile, né dal punto di vista della verità, né in rapporto a sé stesso: dato che, se non si pensa un’unità, non si pensa niente”. Di conseguenza, una molteplicità del tutto priva di unità, cioè quella che Aristotele chiama una omonimia totale, o dovuta semplicemente al caso, non è suscettibile di essere ricondotta ad una causa comune, e quindi non pone nessun problema che riguardi la causa; in effetti, essa non è per nulla problematica. D’altra parte, una molteplicità che sia fornita di quella particolare unità che è l’unità del genere, cioè una molteplicità costituita da cose che sono dette tutte nello stesso senso, o che sono, in linguaggio aristotelico, sinonime, può essere ricondotta, al contrario, ad una causa comune, che è costituita dal genere stesso, e che, per ciò stesso, è immanente a ciascuna delle molte cose di cui si cerca la causa. Una tale molteplicità è problematica, cioè ha bisogno di una causa, finché non si è trovata questa causa; essa è problematica per noi, ma non lo è in sé stessa, dato che contiene già la sua causa. Nel momento in cui noi veniamo a conoscenza di questa causa, la sua “problematicità” sparisce.


«Ma la molteplicità costituita dall’essere non è né del primo, né del secondo tipo; in effetti, l’essere non ha unità generica, dato che si dice in molte accezioni, ed ha, tuttavia, una certa unità, più precisamente una unità costituita dal fatto che le differenti categorie che lo compongono, sono chiamate essere in virtù di una certa relazione che esse hanno con una tra esse, cioè con la sostanza sensibile. È questa che rende intelligibile l’essere e permette, quindi, di ricondurlo ad una causa comune. La causa comune a tutte le categorie è costituita proprio da questa sostanza, che conferisce unità a tutte le altre; essa è infatti principio delle categorie. In questo modo, tuttavia, non si è ancora trovata una soluzione soddisfacente alla “problematicità” dell’essere: la sostanza sensibile, nella misura in cui fa parte dell’insieme delle categorie che danno origine alla molteplicità dei sensi dell’essere, e nella misura in cui, addirittura, è presente in ciascuna di queste come soggetto, è affetta a sua volta dalla molteplicità. Questo risulta dal fatto che essa non riesce ad identificarsi coi suoi predicati, e non solo con quelli che sono costituiti dalle sue categorie, che le appartengono accidentalmente, ma anche con quelli che le appartengono essenzialmente, come il genere, la specie e la sua stessa definizione. Di conseguenza, la sostanza ha bisogno, a sua volta, di essere ricondotta ad una certa unità, che non potrà essere costituita che da una sostanza immune da ogni molteplicità, da una sostanza non sensibile e che non appartenga, quindi, al genere delle altre sostanze, cioè alla molteplicità che esse costituiscono. Ecco perché, come dice Aristotele, il problema di ricercare l’unità dell’essere, cioè di quella determinata realtà alla quale sia possibile ricondurlo, resta sempre senza soluzione, e si trasforma, anzi, in un nuovo problema, che è quello di ricercare l’unità dell’ousia, cioè quella particolare ousia alla quale sia possibile ricondurre tutte le altre.


«Secondo specialisti del pensiero di Aristotele, egli avrebbe risolto il problema dell’unità dell’ousia, e quindi il problema dell’unità dell’essere, ritrovando tra i vari generi di ousiai la stessa relazione […] che in precedenza egli aveva individuato tra la sostanza e le altre categorie, ed il punto di riferimento unitario di questa relazione sarebbe la sostanza immobile, atto puro, Dio. Ora, è certo che Dio costituisce l’unità suprema alla quale Aristotele riconduce l’intero essere, il principio capace di rendere intelligibile tutta la realtà; ma il rapporto stabilito da Aristotele tra Dio e le altre sostanze è diverso da quello da lui stabilito tra la sostanza sensibile e le altre categorie. Infatti, mentre la sostanza sensibile fa parte della molteplicità dei sensi dell’essere, e contribuisce, con le altre categorie, a determinare una situazione di “problematicità” – e perciò la soluzione che essa offre a questa “problematicità” non è definitiva – Dio non fa parte della molteplicità che rende problematiche le sostanze, ma è un principio che trascende completamente qualsiasi molteplicità e, di conseguenza, offre un’unità veramente definitiva. In breve, mentre la sostanza è uno dei numerosi sensi dell’essere che possono essere rilevati in un discorso, cioè inclusi nell’esperienza, Dio non è uno dei sensi della sostanza inclusi nell’esperienza. In effetti, la molteplicità ci è data sempre nell’esperienza e non nel confronto tra l’esperienza e ciò che la trascende; al contrario, Dio è una unità assoluta proprio in quanto trascende l’esperienza. Di conseguenza, l’esistenza di Dio è necessaria per garantire l’intelligibilità dell’essere, per assicurare una soluzione alla “problematicità” del reale; ma, dato che Dio trascende il quadro nel quale questa “problematicità” viene rilevata, cioè il quadro dell’esperienza, la realtà resta ugualmente spoglia di un principio intrinseco d’intelligibilità, e conserva intatta, dunque, la sua “problematicità”. La “problematicità” del reale, in definitiva, ha una soluzione, altrimenti essa non sarebbe; per questo la metafisica non giunge ad uno scacco, a un naufragio; ma, dato che questa soluzione supera il quadro dell’esperienza, e quindi anche quello del discorso sull’essere, essa non è mai oggetto di scienza, e quindi la metafisica resta problematica; per questa ragione Aristotele dichiara che la scienza delle cause prima, cioè di Dio, intesa come possesso, è al di là delle capacità umane, mentre è propria dell’uomo solo la ricerca di questa scienza.


«Il discorso che lascia apparire la “problematicità” della sostanza e attraverso cui quindi si afferma la necessità di una sostanza immobile, atto puro, Dio, è contenuto nei libri della Metafisica, cioè i libri VII-VIII-IX, e attinge il suo vertice nel famoso libro XII, che costituisce il culmine dell’intera opera. Tuttavia, fin dal IV libro, subito dopo aver ricondotto la molteplicità delle altre categorie all’unità della sostanza e dopo aver affermato la necessità di problematizzare la sostanza stessa, Aristotele sviluppa degli argomenti che, per un’altra via, danno in anticipo i risultati dei libri centrali e dei libri conclusivi, e costituiscono una sorta di riassunto di tutta la sua metafisica. Si tratta della famosa difesa del principio di non-contraddizione, contenuta nei capitoli 3-8 del libro IV della Metafisica, cioè del libro che, dal punto di vista cronologico, sembra essere il più maturo dell’intera opera, e che presenta l’espressione più avanzata del pensiero dell’autore. In questo libro Aristotele attribuisce alla metafisica il compito di discutere gli assiomi, cioè i princìpi comuni a tutte le dimostrazioni. Così egli afferma di nuovo il carattere di problematizzazione integrale proprio della metafisica: in effetti, nessun’altra scienza spinge le sue ricerche fino al punto di mettere in causa i propri princìpi, mentre la metafisica giunge fino a domandarsi se i princìpi comuni a tutte le scienze e a tutti i generi di discorso sono veri o falsi. È da notarsi che la problematizzazione del principio di non-contraddizione abbraccia l’intero essere e non è altro che la sua espressione in termini logici.


«Si ottiene così un discorso che non può, in nessun modo, essere considerato come una dimostrazione: infatti non è possibile dimostrare il principio di non-contraddizione, che è principio di ogni dimostrazione, né fare una dimostrazione che abbia per oggetto l’essere in quanto essere, dato che, come si sa, la dimostrazione deve effettuarsi in un ambito omogeneo, mentre l’essere in quanto essere è costituito da molteplicità di generi. Aristotele dichiara che si tratta di un “dimostrare per via di confutazione”, cioè di un procedimento essenzialmente dialettico, il quale suppone che il principio di non-contraddizione sia negato, e consiste nel rifiutare questa negazione, mostrando che essa è fondata sullo stesso principio che intende negare, e quindi che essa non riesce nemmeno a porsi come negazione. È quindi certo che, almeno nella problematizzazione del principio di non-contraddizione, che è un compito essenzialmente metafisico, la metafisica si presenta come basata su un procedimento dialettico. Ma questa problematizzazione contiene già in sé stessa, come ho tentato di dimostrare altrove, tutto il discorso metafisico; infatti, nel corso della discussione dialettica contenuta nel IV libro della Metafisica, Aristotele indica tre volte la posizione di una sostanza immobile, che trascende il divenire dell’esperienza, come fine necessario della difesa del principio di non-contraddizione. In effetti, la totale immobilità del reale, affermata da Parmenide, e la sua totale mobilità, affermata da Eraclito, che sono le due negazioni opposte della distinzione tra realtà mobile e realtà immobile, o trascendenza, sono entrambe contraddittorie. La “nuova” metafisica di Aristotele, metafisica essenzialmente problematica, trova così la sua espressione più avanzata e più rigorosa nella discussione dialettica che difende il principio di non-contraddizione» (Enrico Berti, Studi aristotelici, Japadre, L’Aquila 1975, pp. 135-142).