S. POMPILIO MARIA PIRROTTI (1710-1766)

Nato a Montecalvo, in Campania, entrò, diciottenne, nell'ordine degli Scolopi. Da Napoli fu inviato a Chieti e poi fu trasferito a Melfi (Potenza) dove proseguì con successo gli studi sacri e profani. Secondo il carisma dei figli di san Giuseppe Calasanzio esercitò l'apostolato nelle Scuole Pie in diverse Regioni d'Italia. La sua attività educativa verso il popolo dava fastidio, perciò venne calunniato ed espulso dal Regno di Napoli. Ritornò comunque in città, dove era amatissimo soprattutto dai bisognosi. Instancabile predicatore e uomo di carità, nutriva una fervente devozione mariana. Morì nel 1766 ed è santo dal 1934.

Montecalvo Irpino (Avellino) è la fortunata patria di questo discepolo di S. Giuseppe Calasanzio (fl648), fondatore a Roma (1597) dei Chierici Regolari Poveri della Madre di Dio delle scuole Pie. Egli vi nacque il 29-9-1710, sesto tra gli 11 figli di Girolamo, dottore in legge, e di antica nobiltà. Al fonte battesimale gli fu imposto il nome di Domenico. Il piccolino crebbe con nell'animo tre grandi amori: la Madonna che chiamava con vezzo filiale "Mamma bella"; il SS. Sacramento in cui trovava, diceva, l'Amante bello"; ed i poveri, ai quali era portato a fare elemosine. Con un campanello raccoglieva attorno a un altarino i suoi coetanei per farli pregare, e ripetere alla loro presenza le cerimonie che aveva visto compiere dal sacerdote in parrocchia.
La storia è stata avara di notizie riguardanti i primi studi compiuti dal Santo . Sappiamo però che quando mostrò il desiderio di ritirarsi in un chiostro, i genitori si opposero. Nel 1726 a Montecalvo Irpino predicò la quaresima P. Nicolo delle Scuole Pie. Il Pirrotti, andando ad ascoltarlo, si persuase che Dio lo voleva nella vita religiosa. Per ubbidire a quella chiamata non gli restava che una sola via, quella della fuga. Sul fare della sera scrisse un biglietto per il padre, e poi partì a piedi alla volta del collegio degli Scolopi di Benevento, risoluto di farsi santo. Il sospirato consenso di entrare nel noviziato, annesso alla chiesa di Caravaggio in Napoli, gli venne soltanto dopo alcuni mesi. Perché in sé non restasse vestigia alcuna dell'"uomo vecchio", mutò il nome di battesimo, Domenico, con quello di Pompilio portato da suo fratello, morto nel seminario di Benevento.
Il Pirrotti raggiunse presto una grande perfezione meditando sovente i novissimi. Dopo la professione religiosa fece gli studi di retorica e di filosofia a Chieti, e quindi a Melfi (Potenza). Al termine della teologia fece le prime prove nell'insegnamento a Turi (Bari). L'inizio della sua vita di educatore segnò la totale consumazione del sacrificio di sé. Il 13-3-1733 scrisse difatti al padre: "Io attendo a farmi la scuola mia, la quale è un poco faticosa, con grandissimo decoro e rispetto in casa e fuori tra i secolari, essendo nemico delle ciarle e amico della cella, dello studio e dell'orazione". Ricevette l'ordinazione sacerdotale a Brindisi (1734), e iniziò il ministero a Francavilla Fontana (Brindisi), dov'era stato destinato come maestro di retorica, con il compito di prefetto della Confraternita della Buona Morte. Si diede pure alla predicazione, per volere del capitolo provinciale (1736) benché i dolori di stomaco e gli espettorati sanguigni gli procurassero continue molestie. P. Pompilio si diede a tale ministero soprattutto dopo che si era dato per tredici anni all'insegnamento. Si verificava così quanto aveva scritto al padre, il 6-12-1736, da Ortona a Mare (Chieti), dov'era stato trasferito per la fondazione di un Collegio degli Scolopi: "Ogni giorno sperimento che il Signore mi va disponendo per altissimi ministeri".
I primi a beneficiare dell'opera missionaria del P. Pompilio furono gli abruzzesi. Nei paesi in cui giungeva, da Ortona (1736-41), da Chieti (1742-43), da Lanciano (1743-47) la gente accorreva in massa ad ascoltarlo e a confessargli i propri peccati. Il santo, pur di strappare qualche anima al demonio, non si curava né dell'asprezza delle strade, né delle piogge dirotte, né del cibo, né del sonno, né della stanchezza. Aveva stabilito come programma: "La gloria di Dio e l'onore suo devono preferirsi ad ogni comodo nostro. Comodo mio non sarà certo che la gloria di Dio. Ecco le mie piume delicatissime, ecco il mio vero agire e dormire e mangiare: Gloria di Dio, gloria di Dio e niente più". La sua predicazione al popolo, al clero, ai religiosi, non aveva pregi di stile e di lingua, eppure convertiva e santificava le anime perché tutto il tempo che gli avanzava dalla predicazione e dalle confessioni in chiesa, negli ospedali e nelle carceri, lo dedicava alla preghiera e alla contemplazione. I confratelli lo udivano sovente esclamare: "Ridiamoci del visibile", oppure, "Paradiso, paradiso! Oh, che bella cosa è il paradiso".
Per guadagnarselo e per condurvi tante anime imboccò la regale via della croce. La sua refezione consisteva difatti in un solo piatto di legumi, non conditi, mescolati sovente a cenere o a erbe amare. Non fu mai visto bere vino, ne mangiare carne. Un anno, il primo giorno di quaresima, raccomandò al cuoco che gli conservasse in uno stipo alcune sardelle fresche. Le mangiò soltanto a Pasqua putrefatte e piene di vermi. Vestiva panni grossolani e rappezzati; usava cilici; si flagellava di frequente; portava sul petto un cuore di legno armato di quindici punte; durante i quaresimali andava a piedi scalzi per muovere a pentimento i peccatori.
Ad Ancona preparò a ben morire una tisica assicurandole che avrebbe pregato Iddio affinchè facesse soffrire a lui le pene del purgatorio dovute a lei. Quando la donna morì egli ritornò in convento, si distese sopra due banchi e vi rimase digiuno per quaranta giorni soffrendo per tutto il corpo lancinanti dolori simili a punture di chiodi. Passava d'ordinario gran parte della notte pregando, preparando le prediche e fabbricando corone del rosario da distribuire ai devoti della Madonna. Quando si sentiva oppresso dal sonno, se si trovava in chiesa, dormiva sulla predella dell'altare, se si trovava in camera, si coricava sovente per terra sopra una stuoia o un mantello. Prima dell'alba tornava a fare orazione davanti al SS. Sacramento oppure all'aria aperta nell'orto di casa. Anche d'inverno non si copriva il capo per rispetto della presenza di Dio. Si preparava alla Messa con la meditazione sulla Passione di Gesù e la celebrava con scuotimenti e sussulti in tutta la persona. Più volte fu visto illividito e graffiato nelle mani e nel volto. A chi lo interrogava, rispondeva: "Questa notte mi sono battuto con farfarello". Oppure: "Questa notte ho fatto fracasso col demonio e gli ho spezzato le corna".
Nella sua vita P. Pompilio fu continuamente trasferito da una casa all'altra dell'ordine senza che ne muovesse il minimo lamento, sempre deciso a nulla cercare e a nulla rifiutare. Nel 1747 fu mandato a Napoli nel collegio annesso alla chiesa di Caravaggio. Ebbe così modo di estendere giorno e notte il suo ministero a tutte le categorie sociali della città. Tra i napoletani era molto diffuso il culto dei morti. Per suscitare, specialmente negli uomini, maggiore frequenza ai sacramenti istituì il sodalizio della "Carità di Dio e di Maria SS del Suffragio". Carlo II, re delle due Sicilie, l'approvò nel 1754. Il santo conduceva sovente i congregati a pregare tra le tombe dei defunti seppelliti nella cripta della loro chiesa. Passando davanti ad alcuni teschi sovente si udiva esclamare: "Oh, questo in verità ha bisogno". Nel dire così cavava di tasca una fettolina di pane e gliela poneva tra i denti. Quando i presenti, rifacendo il cammino, ripassavano davanti ad essa, costatavano con sorpresa che la fettolina era scomparsa. Anche di notte P. Pompilio era là tra i sepolcri a pregare per i morti. Per dimostrargli la loro riconoscenza sovente, appena cominciava il rosario, circondato da un nembo di luce, essi rispondevano in coro alle sue preghiere. Ogni volta che passava davanti al cimitero, a vista di tutti recitava un Pater, Ave e Requiem. Appena diceva: "Sia lodato il nome di Gesù e di Maria" i teschi si piegavano in segno di riverenza e rispondevano: "Oggi e sempre".
I napoletani chiamavano il Pirrotti "il Padre Santo" per la cura che si prendeva dei peccatori, dei poveri e dei malati e soprattutto per i miracoli che compiva. Ad una mamma disperata restituì vivo il figlio che era annegato in un pozzo. Una domenica, durante una gita in campagna, un marito ubriacone e geloso afferrò per i capelli la propria moglie e, con un coltello, tentò di colpirla al cuore. La poveretta, penitente del santo, piena di fede gridò: "P. Pompilio, aiutatemi voi". In quello stesso istante il santo, che stava predicando nella chiesa di Caravaggio, apparve dinanzi a loro minaccioso in volto, strappò di mano al brutale marito il coltello e disparve. Il 1-11-1756, mentre annunziava nella stessa chiesa le verità eterne, d'improvviso si coprì il volto e poggiò il gomito destro sull'orlo del pulpito. Credendo che si sentisse male, l'uditorio cominciò a bisbigliare, ma il predicatore, tornato in sé, alzò il capo e disse: "Recitiamo un Requiem per l'anima della mia povera mamma che, in questo istante, si presenta al tribunale di Dio".
Nonostante tanti prodigi e tanto zelo, P. Pompilio non andò esente dalle persecuzioni. Le anime incapaci di grandi cose trovano sempre modo di denigrare chi s'innalza al di sopra del comune modo di agire. I superiori trovarono da ridire per la fondazione della Confraternita, e i preti secolari, infetti ancora di giansenismo, mal sopportavano la sua larghezza di idee. Accusato di rilassamento, di faciloneria nell'assolvere, di mitezza nell'imporre le penitenze, fu sospeso dalle confessioni dall'arcivescovo di Napoli. In seguito fu allontanato dal regno perché era dipinto agli occhi del re Carlo II come un uomo pericoloso, avverso alle nuove leggi. Alle imposizioni dei superiori P. Pompilio disse senza scomporsi: "Non mi ricresce di partire; solo mi dispiace che chi fu causa della mia partenza sia già bell'e andato".
A Lugo (Ravenna) e ad Ancona, P. Pompilio riprese la predicazione (1759-1763). Ovunque egli raccolse grandi frutti facendosi in Italia l'araldo della devozione al Sacro Cuore di Gesù e della Comunione frequente. I napoletani, appena era partito, lo avevano reclamato e il re, nel supplicare il Rettore di Ancona di rimandarlo alla casa di Caravaggio, aveva scritto: "Se codesto Padre fosse meno santo, non ci avrebbe dato tanto da fare". P. Pompilio ritornò a Napoli soltanto al principio del 1763, ma i suoi avversari non si dettero pace finché non riuscirono a farlo trasferire di nuovo a Manfredonia (Foggia) e ad Ancona. Grandi furono i disagi che subì in quel viaggio. Così ne scrisse al fratello Michele il 12-4-1764: "Perdei a causa della neve tutto l'equipaggio e, per miracolo, salvai la vita. Viva Gesù".
L'andare di continuo pellegrinando per luoghi diversi serviva al santo per distaccarsi sempre da tutto. Finché rimase di sede ad Ancona venne chiamato a predicare da tutte le parti delle Marche e dell'Emilia. La stima che il governatore della città aveva concepito per lui era tanto grande che ordinò alla guardia militare del suo palazzo di rendergli gli onori, ogni volta che ne varcava la soglia. Il santo ne fece le rimostranze e, quando si avvide che non servivano a nulla, estraeva il crocifisso e lo alzava davanti ai propri occhi.
Il terreno pellegrinaggio di P. Pompilio non era ancora terminato. Nel 1765 ricevette dal suo Proposito generale l'ordine di trasferirsi a Campi Salentina (Lecce). Quel viaggio aveva tutto il sapore di un premio. Ne approfittò il santo per visitare ancora una volta Loreto, Roma e gli altri luoghi del suo primo apostolato. Per circa un mese si fermò pure a predicare a Montecalvo Irpino dove aveva scritto in precedenza la novena al S. Cuore di Gesù e stabilito una pia associazione in suo onore. Questa volta ebbe in animo di celebrare la festa del Sacro Cuore con grande solennità, e di invitare a pranzo gli esponenti del paese. Ne parlò alla cognata, ma ella gli obiettò di non esser in grado di procurarsi l'occorrente per trentadue persone. Le rispose il santo che sarebbero bastati: una pagnotta di pane, una caraffa di vino, una pignatta di erba, un rotolo di maccheroni e un piatto di carne perché Iddio avrebbe mandato un angelo a benedire la tavola. La predizione si avverò alla lettera. Difatti, di mano in mano che i commensali si servivano delle varietà delle pietanze, la quantità dei cibi non diminuì.
Il giorno stabilito per la partenza, Michele entrò nella stanza del fratello e lo trovò sollevato da terra e con le braccia levate al ciclo. La folla lo accompagnò fuori del paese e, mentre alcuni gli baciavano le mani e altri gli recidevano l'abito, il santo ripeteva: "Arrivederci in Paradiso!".
A Campi Salentina S. Pompilio fu eletto Rettore del Collegio. Egli ne approfittò per introdurre nella chiesa l'esercizio quotidiano della Via Crucis e l'esposizione del SS. Sacramento. Il popolo corrispose alle sue cure. Nei giorni di festa cinque padri non bastavano per udire le confessioni dei fedeli. Tutte le domeniche praticava pure l'esercizio della preparazione alla morte. Una sera lo interruppe improvvisamente per andare a benedire e risanare il bue malato di un povero contadino. La carestia che nel 1765 imperversò nell'Italia meridionale gli diede molte molestie. Egli estese allora la sua carità a tutti i bisognosi, specialmente ai fanciulli che quasi tutte le mattine accorrevano a lui per ricevere fave o fettine di pane abbrustolito, che aveva ottenuto dalla carità dei ricchi e che, talora, moltiplicava con il dono che Dio gli aveva concesso di fare miracoli.
P. Pompilio fu vittima del confessionale. Tredici giorni prima della morte fu assalito da febbre, ma egli non ci badò. Continuò a predicare e a confessare finché svenne. Morì, come gli era stato predetto, il 15-7-1766, sopra un seggiolone da lui preferito al letto, dopo avere più volte esclamato: "Oh, Mamma bella!".
Leone XIII lo beatificò il 26-1-1890 e Pio XI lo canonizzò il 19-3-1934.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 7, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 165-171
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