S. PIETRO da VERONA (1206-1252)

II protomartire dell’inquisizione nacque a Verona all’inizio del 1206 da genitori aderenti, almeno segretamente, alla setta dei càtari o manichei, in quel tempo assai diffusi anche nell’Italia settentrionale. Ma questo non impedì che il loro figlio, frequentando le pubbliche scuole, ricevesse una conveniente istruzione religiosa. Un suo zio, avvocato ed eretico, un giorno gli chiese che cosa avesse appreso a scuola. Il nipotino cominciò a recitargli il primo articolo del Credo in cui è affermato, contro l’errore dei manichei, che tutto il creato è opera di un unico, eterno principio, Dio, non di due opposte divinità, l’una identificata con la luce, principio del bene, l’altra identificata con la materia, principio del male.

I progressi di Pietro nello studio dovettero essere consolanti se, a tredici anni, il padre lo mandò a studiare all’università di Bologna, protetta da Innocenzo III. Tra tanta gioventù corrotta il santo si conservò illibato, opponendo alla seduzione del vizio una vita di preghiera e di studio. Due anni dopo, S. Domenico indisse a Bologna (1221) il secondo capitolo generale dell’Ordine dei Frati Predicatori. In quella circostanza egli tenne al popolo uno di quei sermoni che operavano strepitose conversioni. Pietro, presente tra la folla, si sentì chiamato a seguirlo. Il santo fondatore, assicuratesi che la vocazione di lui veniva da Dio, gli diede l’abito religioso.


Il volenteroso novizio, benché dopo soli due mesi avesse perso così prezioso maestro, si diede con tanto ardore alla preghiera, al digiuno, a particolari penitenze da caderne gravemente malato. Dio lo guarì per intercessione di S. Domenico, e per nove anni potè prepararsi al sacerdozio con rinnovato ardore. Avaro del tempo, anche quando andava al parlatorio o altrove per qualche incombenza, lo si vedeva sempre con un libro in mano per leggerlo nei ritagli di tempo. Per poter appagare il desiderio che sentiva di pregare e contemplare, sottraeva diverse ore al sonno. Iddio lo premiò permettendo che le sante martiri Agnese, Cecilia, e Caterina d’Alessandria lo andassero frequentemente a visitare nella sua cella. Ogni volta che prendeva parte alla Messa, al momento della elevazione del calice, egli chiedeva a Dio, con insistenza, la grazia di spargere un giorno il suo sangue per l’estirpazione delle eresie e le conversione dei peccatori.


Dopo l’ordinazione sacerdotale P. Pietro fu destinato al ministero della predicazione a Firenze. Le chiese erano troppo piccole per contenere la folla che accorreva a udirlo. La Signoria dovette persino fare ampliare la piazza di Santa Maria Novella tanto era riuscita angusta ai fedeli accorsi. Lo stesso ministero il santo svolse a Como dove Dio lo sottopose a una prova molto dolorosa per purificarlo dalle imperfezioni. Per la ristrettezza del convento i religiosi erano costretti a dormire in un solo stanzone, separati gli uni dagli altri da tramezzi di legno. Una notte le sante vergini scesero dal Paradiso a conversare familiarmente con lui, ma non ebbero l’avvertenza di parlare sottovoce. Qualche confratello le udì, ne parlò al priore il quale, nel capitolo delle colpe, chiese a Pietro come avesse avuto l’ardire d’introdurre donne in convento di notte. Il santo non ritenne opportuno discolparsi svelando le sue visioni. Fu perciò dichiarato inabile all’ufficio di predicatore e mandato a piedi al convento di lesi (Ancona) perché vi conducesse una vita ritirata. L’umiliazione era stata troppo dura. Una notte, mentre pregava davanti al crocifisso, Pietro non potè fare a meno di sospirare: “Signore, mio Dio, tu conosci la mia innocenza; e come hai permesso che in tale maniera io fossi condannato?”. Il Crocifisso lo consolò dicendogli: “Ed io, Pietro, quale male ho commesso da essere posto in croce come un ladro?”.


L’esemplare vita del recluso indusse i superiori a riesaminare il loro precipitoso operato. Fu riconosciuta la sua innocenza e reintegrato nel compito di predicatore ( 1229). Gregorio IX, venuto a conoscenza della sua scienza e dei meravigliosi frutti di bene che otteneva ovunque predicava, nel 1232 lo mandò come suo inviato a Milano, dove fondò la “Società della fede” e “della Vergine” per la difesa della religione cattolica contro gli eretici. Nel 1240 Pietro fu nominato priore del convento di Asti, e l’anno dopo di quello di Piacenza. In essi fece rifiorire l’osservanza della regola non risparmiando ai sudditi la correzione anche dei minimi difetti, e lo studio soprattutto della Scrittura. Nel biennio 1244-45 predicò ancora a Firenze, esaminò la vita e le regole dei Servi di Maria, fondati nel 1233 da sette mercanti fiorentini, e li difese presso Innocenze IV che era in dubbio se approvarli o no. Predicò anche a Roma, nelle Marche e nella Romagna. Nel 1249 svolse opera di pace a Rimini. Nel 1251 fu mandato in qualità di inviato pontificio a estirpare l’eresia con un sinodo a Cremona, nello stesso anno, fu eletto priore del convento di Como e inquisitore pontificio sia a Como che a Milano.


La mattina prestissimo Pietro da Verona si confessava e celebrava la Messa. Poi trascorreva molte ore nel confessionale, e si adoperava a comporre liti, e consolare gli afflitti e i dubbiosi. Verso sera prendeva la sua unica refezione consistente in legumi conditi con olio. Non beveva quasi mai vino. Di notte, dopo un breve risposo, si dava all’orazione e allo studio per essere in grado di confondere più facilmente gli eretici. Per rendere più fruttuosa la sua predicazione faceva ricorso anche ai più aspri flagelli. Appena in una città si spargeva la notizia che stava per arrivare, magistrati e popolo gli andavano incontro con trombe e tamburi. Il suo arrivo era considerato come una benedizione di Dio, perché aveva il dono di operare miracoli. A Milano, sulla piazza di Sant’Eustorgio, potè raggiungere il palco, da cui doveva parlare, soltanto rinchiuso in una lettiga, portata a spalla da robusti uomini, tant’era la gente desiderosa di toccarlo o di tagliuzzargli un lembo del vestito.


Dai processi canonici risulta che è incalcolabile il numero dei malati che egli guarì con il solo segno della croce, o con il tocco della mano e della cocolla. Rientrando un giorno a Como, trovò davanti alla porta del convento tanti sofferenti afflitti da varie malattie. Passando, egli li benedisse e tutti, all’istante, ricuperarono la salute. A Cesena, la città da lui prediletta, moltiplicò l’olio del parroco che l’ospitava. I cesenati, in riconoscenza dei prodigi operati a loro favore, vollero edificare un convento ai Padri Domenicani. Essendo stata regalata a Pietro della carne salata, egli volle che fosse distribuita agli operai. Benché la provvista non fosse abbondante, essa durò’ finché la costruzione non fu ultimata. A ricordo del miracolo, l’avanzo fu sospeso per molti anni al soffitto della chiesa.


I manichei in quel tempo possedevano, in Lombardia, sedici società, con molte migliaia di adepti. Nella predicazione di Pietro da Verona, e nei miracoli operati da lui, essi videro il principio della loro rovina. Ne fremettero e non lasciarono passare nessuna occasione per denigrarlo chiamandolo fanatico, ipocrita, negromante. Quando lo incontravano per via, lo minacciavano persino, tanto si ritenevano al sicuro da ogni rappresaglia. Il santo continuò a predicare imperterrito, a confutare gli eretici che si presentavano a disputare con lui e, quando fu nominato Inquisitore, non contento di aver pubblicata la bolla di scomunica contro di loro, rimise in vigore tutte le leggi civili già stabilite contro i manichei, che abitualmente si mostravano ribelli alle autorità costituite. Nel 1251 Innocenzo IV si recò a Milano, ed ebbe modo di costatare di persona i copiosi frutti spirituali ottenuti da Pietro con il suo instancabile zelo.


Un giorno condussero al santo un famoso manicheo, considerato come un vescovo della setta. Pietro propose di esaminarlo sulla piazza di Sant’Eustorgio, alla presenza del clero e del popolo. La loro discussione andò per le lunghe di modo che i raggi del sole cominciarono a infastidire la folla accorsa. Il manicheo, per coprire in parte la sua confusione, disse: “Pessimo impostore, se sei tanto santo quanto questo popolo ritiene, perché non chiedi al tuo Dio che mandi una nuvola che ci difenda dai cocenti raggi del sole?”. Gli rispose il taumaturgo: “Lo farò volentieri se tu prometti che abiurerai l’eresia”. Tra gli spettatori chi voleva che accettasse la sfida, chi voleva che continuasse la discussione, ma Pietro, con umile fiducia, dichiarò: “Affinché voi tutti conosciate e confessiate, a una voce, che il nostro Dio, solo onnipotente, è il creatore delle cose visibili e invisibili, io lo prego, in nome di suo Figlio Gesù Cristo, di mandarci una nube che ci ripari dal sole”. Fece quindi un segno di croce.


Nel cielo, fin allora sereno, apparve un nuvola che si pose, come un padiglione, davanti all’astro e vi rimase finché la discussione non ebbe termine.


Nonostante tanti prodigi, c’era chi s’intestardiva nei propri errori. Un manicheo, d’accordo con alcuni suoi matricolati compagni, decise un giorno di fingersi malato per screditare il santo che stava predicando ancora sulla piazza di Sant’Eustorgio. Appena glielo portarono dinanzi affinché lo guarisse, Pietro disse ad alta voce: “Io prego colui che ti ha creato e che vede tutto, che se tu sei davvero infermo, egli ti risani; se, al contrario, ti fingi malato, egli guarisca l’anima tua colpendoti con vera infermità”. A tali parole il preteso malato si sentì invadere da atroci dolori. Trasportato a casa, vedendo che la mano di Dio si appesantiva contro di lui, fece chiamare il taumaturgo e nelle sue mani abiurò l’eresia. Il santo, mosso a compassione lo benedisse e, con la salute dell’anima, gli procurò anche quella del corpo.


Verso il termine della vita, Pietro fu arricchito pure del dono della profezia. All’inizio del 1252 predicò per l’ultima volta a Cesena. “Prima di darvi addio – disse agli uditori- voglio annunciarvi tre cose: 1° che poco dopo la Pasqua di quest’anno io sarò ucciso dagli eretici; 2° che questa provincia della Romagna sarà sconvolta dalla guerra; 3° che per i peccati di molti, il paese sarà invaso da gente di cui non intenderete il linguaggio”. Noi sappiamo che in seguito alle lotte dell’imperatore della Germania, Federico II, sostenitore dei ghibellini contro la Chiesa, le truppe tedesche penetrarono in Romagna per combattere i guelfi, sostenitori del papa. A Como ai suoi religiosi il santo confermò: “Io devo essere ucciso dagli eretici, ma il mio sepolcro sarà a Milano”. La domenica delle Palme, al termine del sermone in Sant’Eustorgio, intimò a un eretico contumace di presentarsi entro quindici giorni al tribunale dell’Inquisizione, pena l’applicazione delle leggi ecclesiastico-civili. Poi disse al popolo: “Io so di certo che gli eretici stanno concertando la mia morte; so che già hanno sborsato il prezzo col quale verranno pagati i sicari. Facciano quello che vogliono, ma sappiano che io farò loro più danno con la mia morte, di quanto non ne abbia fatto con la mia vita”.


La sera antecedente il giorno della morte, Pietro dichiarò ai confratelli di Como che, il giorno dopo, sarebbe andato a Milano perché scadeva il termine perentorio stabilito all’eretico. Tutti lo supplicarono di non effettuare, con Fra Domenico, quel lungo viaggio a piedi. La febbre quartana che lo divorava non gli avrebbe consentito di raggiungere Milano in tempo utile per compiere il suo ufficio d’inquisitore. “Voglio andarmene – rispose loro il priore -. Se non arriverò domani sera a Sant’Eustorgio, mi riposerò a San Simpliciano”. La strada era allora fiancheggiata quasi tutta da boschi e da paesi in cui si annidavano molti eretici. Non fu difficile quindi a Pietro Balsamo, detto Carino, e al suo compagno, assoldati dai manichei e dai ghibellini, assalire lo scomodo inquisitore nella macchia di Farga, del comune di Seveso, verso mezzogiorno. Costretto con la forza a penetrare nel bosco, Pietro, colpito da Carino alla testa con un ferro adunco, cadde a terra con il cranio spaccato. “Padre – esclamò egli allora – nelle tue mani raccomando il mio spirito”. Prese quindi a recitare il Credo, ma ebbe appena il tempo di terminarlo perché fu ucciso con una pugnalata nel petto. Era il 6-4-1252.


I due assassini si diedero subito alla fuga lasciando Fra Domenico gravemente ferito. Pietosi viandanti accorsi lo trasportarono a Meda, dove morì cinque giorni dopo. Pietro da Verona fu portato in processione a Milano. Quando vi giunse era già calata la notte. Trovandosi Sant’Eustorgio nella parte opposta della città, il corpo del santo, come aveva predetto, fu collocato nell’abbazia di San Simpliciano. Trasportato il giorno dopo a Sant’Eustorgio, vi fu seppellito, alla presenza di una grande folla. I miracoli si moltiplicarono sul suo sepolcro. Non piccolo fu certo quello della conversione del suo assassino il quale, fuggito dalla prigione in cui era stato rinchiuso, raggiunse Forlì e ottenne di essere ammesso come fratello laico nel convento dei Domenicani.


Innocenzo IV canonizzò S. Pietro Martire a Perugia il 25-3-1253, neppure un anno dopo la morte. Le reliquie dell’invitto campione della fede sono conservate nella ricchissima arca scolpita da Balduccio da Pisa (1399), e posta nel mezzo della cappella Portinari, gioiello del rinascimento, eretta da Michelozzo a pianta quadrata, sormontata da cupola.



Sac. Guido Pettinati SSP,


I Santi canonizzati del giorno, vol. 4, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 364-369.


http://www.edizionisegno.it/