S. GIACINTA MARESCOTTI (1585-1640).

Un suo fratello aveva la buona abitudine di spendere forti somme di denaro in suffragio dei defunti della propria famiglia. Suor Giacinta un giorno gli disse: “Dammi, te ne prego, ora che sono in vita, quella somma che vorresti impiegare per Messe in mio suffragio dopo la mia morte. Per amore di tanti poveri io sarei contenta di stare in Purgatorio qualche tempo di più”. Per consolare un carcerato una volta nascose nel ventre di un grosso pesce che aveva fatto cuocere una letterina piena di salutari ammonimenti e glielo mandò. Dei naviganti, sorpresi in alto mare da una furiosa burrasca, le si raccomandarono, esclamando: “Oh, Suor Giacinta, se è vero che sei così Santa, come tutti dicono, vieni ad aiutarci!”, ed ella apparve loro sulla nave, li condusse in porto e poi scomparve.

Questa straordinaria penitente del Terz’Ordine Francescano nacque nel 1585 da Marcantonio Marescotti e dalla principessa romana Ottavia Orsini nel castello di Vignanello (Viterbo). Al fonte battesimale le fu dato il nome di Clarice. Fin dall’infanzia ricevette un’educazione profondamente cristiana ma, contrariamente ai due fratelli e alle due sorelle, crebbe altera e vanitosa, insofferente di disciplina. I genitori, preoccupati del suo avvenire, decisero di affidarla all’educazione della clarisse di San Bernardino in Viterbo, dove aveva già abbracciato la vita religiosa la sua sorella maggiore, ma rimasero delusi. Sdegnata perché il padre aveva provveduto a maritare prima di lei la sorella minore, per ripicca, a diciannove anni decise di farsi monaca.
La Santa vesti l’abito delle clarisse nel monastero di San Bernardino il 9-1-1604 e prese il nome di Suor Giaciuta con il fermo proposito di vivere a modo suo, come conveniva a persona ricca e nobile quale ella era. Per 10 anni, sorda alle ammonizioni della sorella e del confessore, condusse una vita contraria ai consigli evangelici. Nel monastero si era fatta costruire a proprie spese un appartamento che arredò di tavoli, tappeti e quadri di gran lusso. Divorata dall’ambizione non faceva uso che di vasi di finissima maiolica, di posate d’argento e di stoffe di gran pregio.
A trent’anni la Santa fu tormentata da una lunga malattia. Un giorno fu visitata dal P. Antonio Bianchetti, OFM, confessore straordinario del monastero. Alla vista del lusso dell’appartamento della malata, egli si sentì acceso da cosi vivo sdegno che non esitò a dirle: “A nulla gioverà il confessarvi. Il Paradiso non è fatto per quelle monache che si lasciano trascinare dalla superbia e dalla vanità come voi!” Alla severa riprensione Suor Giacinta si sentì come stordita, mentre una vivissima luce squarciava le tenebre in cui era immersa l’anima sua. “Dunque – esclamò terrorizzata – non ci sarà per me una via di salvezza? Avrò lasciato il mondo e mi sarò fatta monaca per andare all’inferno?” P. Antonio fu molto categorico con la dissipata: “Per chi abusa della grazia divina, per chi nel chiostro conduce una vita secolaresca, non c’è via di salvezza. Se non volete dannarvi eternamente, affrettatevi a cambiare vita”.
In un istante Suor Giaciuta comprese il disordine che esisteva nella sua vita. Si alzò da letto, si vestì di una rozza tonaca, calzò due zoccoli e fece la sua confessione generale. Poi si recò in refettorio, s’inginocchiò davanti alle consorelle e, flagellandosi, domandò loro perdono degli scandali dati e promise di ripararli con la più rigorosa povertà e le più aspre penitenze. Sua prima preoccupazione fu di privarsi non soltanto delle cose superflue, ma anche di quelle necessarie. Consegnò alla Madre Badessa gli oggetti preziosi di cui si era fin allora servita, l’annuo assegno che riceveva dalla famiglia, e nella cella non volle altro ornamento che una grossa croce che dal suolo arrivasse fino al soffitto. Da essa pendeva una lunga catena con la quale la Santa si legava, durante il breve riposo, ora le mani, ora il collo, ora un piede. Sul suo giaciglio formato da tre tavole, aveva steso un materasso di sarmenti e posto un sasso che le serviva da cuscino. Il suo vitto, ridotto ad un pasto al giorno, consisteva in pane duro al quale aggiungeva erbe senza condimento, mescolate sovente a foglie di assenzio. Quando la fame faceva sentire i suoi morsi, Suor Giaciuta contemplava a lungo qualche cibo più saporito, e quando si sentiva morire dalla voglia di mangiarlo, diceva a se stessa: “Quando mai ti sei meritata un cibo cosi gustoso?”. E lo lasciava alle consorelle o ne faceva dono ai poveri. Anche del denaro concepì un cosi vivo orrore che, quando dovette maneggiarlo perché vicaria o maestra delle novizie e delle postulanti, lo gettava in un angolo della cella come fosse spazzatura.
Per espiare l’amore alle comodità, ogni venerdì si percuoteva per un’ora, fino allo spargimento del sangue, con un fascetto di pungitopo. Nel cuore dell’inverno scendeva talora nell’orto e immergeva a lungo i piedi nell’acqua gelata meditando la passione del Signore. Di notte, sovente s’alzava dal duro giaciglio, prendeva sulle spalle la pesante croce e poi saliva e scendeva, genuflessa, una lunga scala del monastero flagellandosi a sangue. Tutti i venerdì meditava per molte ore di seguito i dolori del Figlio di Dio esclamando in lacrime: “L’amore mio è stato crocifisso”. Di notte faceva pure d’ordinario la Via Crucis con una catena al collo, una corona di spine in capo e una croce in spalla. Nel dirigersi verso una piccola altura dell’orto, che immaginava fosse il calvario, per rassomigliare a Gesù si schiaffeggiava, si flagellava, si premeva fortemente sul capo la corona di spine, cadeva sotto la croce e, finalmente, vi si stendeva sopra battendo fortemente le mani e i piedi in memoria dei dolori sofferti dal Signore nella crocifissione.
La Santa perseverò in tale tenore di vita per 24 anni. In conseguenza delle sue privazioni e digiuni, per 16 anni andò soggetta a frequenti coliche che sopportò con gioia, spiacente solo di incomodare quante dovevano assisterla. Al tormento del corpo si aggiungeva quello dell’anima. Il suo singolare ed eroico genere di vita non poteva andare a genio alle monache più rilassate. Talune presero a trattarla da “pazza” e altre da “ipocrita”. A certe religiose non piacevano le raccomandazioni che faceva loro nel monastero, e alle persone che andavano a visitarla per raccomandarsi alle sue preghiere. La beffeggiavano chiamandola la “predicatrice”. Se i superiori ecclesiastici punivano qualche monaca rilassata, le altre colpevoli, inviperite, sfogavano contro Giacinta il loro sdegno accusandola di essere una “spia”. La Santa, anziché sgomentarsi, pregava: “Oh mio Signore, quando vi domando perfezione spirituale, che altro io desidero se non patire di più? Purché mi rendiate perfetta, scaricale sopra di me quanto vi è di più molesto nel mondo”. Per un certo tempo Iddio permise che anche il demonio la tentasse di scoraggiamento o le ingenerasse nell’animo dubbi contro la fede. Suor Giacinta piangeva a dirotto prostrata davanti alla croce, e pregava:
“Oh mio Signore, se è vostra volontà che io debba essere dannata, fatemi almeno la grazia che prima di morire io possa compiere qualche cosa di vostro gradimento. Sì, andrò all’inferno, ma concedetemi che per quanto durerà la mia vita in questo mondo, io vi adori e vi serva!”.
Suor Giaciuta, oltre Dio, amò i poveri. Trovò, difatti, il modo di soccorrerli donando loro il suo cibo, le sue vesti, la coperta del suo letto, il denaro che i familiari le regalavano, i doni che gli amici le facevano. Non potendo recarsi per le piazze e per le vie a predicare ai ricchi il dovere della carità verso i bisognosi, incaricò alcune signore di andare a cercare gl’indigenti e di mandarli alla grata del monastero perché voleva dar loro cibo e vestito. Quando si ammalavano, mandava persone di sua conoscenza ad assisterli, lavava i loro panni, provvedeva loro le medicine con l’aiuto dei benefattori, preparava per loro dolci e ciambelle. Un suo fratello aveva la buona abitudine di spendere forti somme di denaro in suffragio dei defunti della propria famiglia. Suor Giaciuta un giorno gli disse: “Dammi, te ne prego, ora che sono in vita, quella somma che vorresti impiegare per Messe in mio suffragio dopo la mia morte. Per amore di tanti poveri io sarei contenta di stare in Purgatorio qualche tempo di più”. Per consolare un carcerato una volta nascose nel ventre di un grosso pesce che aveva fatto cuocere una letterina piena di salutari ammonimenti e glielo mandò. Dei naviganti, sorpresi in alto mare da una furiosa burrasca, le si raccomandarono, esclamando: “Oh, Suor Giacinta, se è vero che sei così Santa, come tutti dicono, vieni ad aiutarci!”, ed ella apparve loro sulla nave, li condusse in porto e poi scomparve.
Oltre che dei bisognosi, la Santa clarissa ebbe una straordinaria cura dei peccatori. Con l’aiuto di un corto Simonetti cercava di attirarli alla grata del monastero per indurli a piangere le loro colpe e quando non vi riusciva, scriveva loro delle lettere pervase di così commoventi sentimenti da costringerli a cambiare vita. Fra le numerose conversioni da lei operate è rimasta famosa quella di Francesco Pacini, un soldato pistoiese, che ottenne dopo 40 giorni di preghiere, di flagellazioni e digiuni.
Di lui si servì per stabilire, con opportune regole, due importanti opere di carità: La Confraternita dei Sacconi, per l’assistenza degli infermi, alla quale il cardinale Tiberio Muti, vescovo di Viterbo assegnò la chiesa di Santa Maria delle Rose e la Confraternita degli Oblati di Maria, per l’assistenza ai vecchi e agli invalidi. Perché un ospizio fosse cretto per loro presso la chiesa di San Carlo in Piano Ascarano, cita chiese denari ai vicini e ai lontani e quando, per le incomprensioni dei buoni e le calunnie dei malvagi, l’opera correva il pericolo di perire, ella saliva al piano superiore del monastero da cui si poteva scorgere la chiesa di San Carlo e con le braccia distese in forma di croce e ritta in piedi, pregava: “Ecco, oh Maria, i vostri Oblati in angustie! Deh, soccorreteli, proteggeteli, sono vostri figli, sono vostri servi! Tocca a voi aiutarli in questo estremo bisogno!”. Per farla desistere da quelle opere di misericordia il demonio cercava, ma inutilmente, di metterle in cuore suggestioni che avevano tutta l’apparenza di verità: “Che hai tu a fare, povera monaca di clausura, con la vita attiva degli uomini? Hai tu forse la capacità di Teresa d’Avila per fondare e dirigere Confraternite? Tuo compito è la vita contemplativa. Faresti meglio, perciò, a restartene in cella anziché andare alla grata per conversare con le persone del mondo con grande scontento delle tue consorelle e meraviglia dei secolari. Perché mandarle a chiamare? Perché provvederle di vitto e vestito? Perché perdere la parte migliore del tuo tempo in quello che non ti riguarda?”.
A rasserenare l’animo angustiato della clarissa intervenne un fatto prodigioso. Francesco Pacini, dopo il consolidamento delle due Confraternite, si era ritirato a fare vita eremitica nell’Isola d’Elba. Dopo un certo tempo egli senti d’improvviso e fortissimo l’impulso a ritornare a Viterbo. Che era successo? Suor Giaciuta, bisognosa della presenza di lui, per impedire che la Confraternita degli Oblati di Maria si sfasciasse, aveva supplicato il proprio confessore di richiamarlo al Momento della Messa. Nella stessa ora la Santa, che non conosceva il luogo dove il penitente era andato a nascondersi, prostrata davanti al crocifisso, pregò tra le lacrime; “In virtù del prezioso corpo e sangue di Cristo, che ora si offre sull’altare, ti supplico, o Francesco, di tornare”. La Confraternita sotto la direzione di lui prese novella vita e fu riconosciuta dal cardinale Francesco Brancacci, vescovo della città.
Non bisogna credere che Suor Giaciuta, perché tutta protesa al sollievo dei miseri, trascurasse l’osservanza della vita claustrale. Ella praticava in sommo grado tutte le virtù, specialmente quella dell’umiltà. Pur essendo nobile, si riteneva l’ultima del monastero e non rifuggiva dall’aiutare le converse negli uffici più gravosi. Sovente compariva davanti alle consorelle con una corda al collo e senza velo, il che costituiva allora una grande umiliazione. Talvolta s’inginocchiava davanti a loro e baciava ad esse i piedi chiedendo perdono delle proprie mancanze. Altre volte si distendeva per terra davanti alla porta del refettorio per obbligare, specialmente le novizie, a passare sul suo corpo, a costo di essere male giudicata da qualche consorella.
Devotissima dello Spirito Santo, Suor Giaciuta chiedeva incessantemente l’amore divino. Per ottenerlo più facilmente si preparava alla festa di Pentecoste con un digiuno di 40 giorni, durante i quali rinunciava a qualsiasi ricreazione e anche dal frequentare il parlatorio. Una volta, in tale festività, le s’infiammò talmente il cuore che, venuta la sera, non potendo più contenere l’ardore, spalancò la finestra della cella e gridò forte: “Amore, amore, amore dolcissimo, vieni a me!”. La stessa esclamazione le usciva dal labbro, quando, verso mezzanotte, si recava in coro con una consorella, e si tratteneva un’ora intera prostrata sul pavimento dinanzi all’altare del SS. Sacramento. Rialzandosi con il viso in fiamme, diceva a chi l’accompagnava: “Vogliamo aiutare tante anime infelici, che in queste ore notturne sono deviate dal vero amore?” E appena giungeva in cella, si flagellava sospirando: “Oh mio dolce e caro amore, come potrò vivere se non mi sazio appieno di amarti?” Scrisse in una lettera: “Peno di non trovare ancora modo di amare Dio, tanto che pare alle volte che il cuore mi si schianti, non trovando strada per progredire nell’amore, e pur sento voci interne che mi richiamano a mutare vita, e a passare le notti in pianti e gemiti”.
Uguale amore la Santa nutriva per Maria SS. Dal giorno della sua conversione non volle più chiamarsi e firmarsi Marescotti, ma soltanto Giaciuta di Maria Vergine. Talvolta le consorelle la udivano cantare: “Maria, Maria, tu ben lo sai quanto ti ho pregata di farmi buona, e ora mi trovo peggiore che mai”. Amava tanto la Madonna da volerne impresso il nome o l’immagine sugli oggetti di suo uso: la scrivania, i libri, la conocchia, il cuscino di lavoro, la sedia, le forbici, i piatti, le posate, e persino il cilicio.
Pensando alla vita eroica di questa clarissa saremmo tentati di ritenere che fosse costantemente immersa nelle dolcezze spirituali. Invece anche per lei furono frequenti le aridità di spirito. Un giorno confidò ad una consorella: “Se sapeste l’aridità nella quale mi trovo, ne stupireste, ma Iddio mi dà, per sua bontà, tanta forza e non mi abbandona, volendomi attrarre a sé per questa unica strada, che Egli giudica a me profittevole”. Ad una persona che le manifestava il rammarico che provava di non poterle rendere un servizio a lei gradito, rispose; “Non bisogna turbarsi per me, perché vi faccio sapere che io cammino con la croce, sempre, in ogni mia occorrenza; ne ricevo la minima consolazione sia di anima, sia di corpo, che non l’abbia condita con grande disgusto e amarezza… Bramo che il Signore mi faccia degna di patire e mi dia fortezza perché sono assai debole”.
A chi le chiedeva un giudizio sulle consolazioni spirituali rispondeva: “Io ritengo che una persona ami di più il Signore senza gusti e attrattive giacché nella croce e nel patimento consiste la perfezione maggiore. Io stimo la via della croce sicurissima… Preferisco gente umile e disprezzata e priva di tenerezze e di dolcezze. Croci, croci; patire, patire; e, senza alcuna attrattiva stare forti: qui sì che veramente c’è Dio”.
L’appassionato amore alle croci meritarono alla Santa un’intima e continua unione con Dio, che giunse fino all’estasi. Un giorno diverse consorelle la videro sollevata quasi un metro dal suolo davanti alla croce del noviziato. Dopo la comunione, che faceva tutte le volte che poteva, cadeva sovente in deliqui durante i quali riceveva interne illustrazioni, il dono della profezia e il discernimento degli spiriti. Predisse la sua morte al cardinale Brancacci e a una nipote prima che si manifestassero in lei i sintomi della malattia.
Morì il 30-1-1640 tra atrocissimi dolori cagionatili da occlusione intestinale, dopo avere ripetutamente baciato il crocifisso e detto: “Aiutami, Gesù mio, sposo dell’anima mia”. Come aveva predetto 10 anni prima, fu assistita dal P. Pacifico Romano, Guardiano del convento del Paradiso di Viterbo.
I funerali di Suor Giacinta furono un trionfo. L’entusiasmo dei fedeli raggiunse il parossismo dopo che uno storpio, a contatto della salma di lei, riacquistò l’uso della gambe. Benedetto XIII la beatificò il 7-8-1726 e Pio VII la canonizzò il 24-5-1807. Il suo corpo mummificato è venerato in Viterbo nella chiesa del monastero di San Bernardino.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 1, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 380-384.
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