S. FELICE DA CANTALICE (1515-1587)

Umile fratello laico cappuccino. Dio predilesse talmente Fra Felice che gli concesse pure il dono di predire il futuro, penetrare nel segreto dei cuori e conoscere le cose lontane. Egli parlò del trionfo dei cristiani contro i Turchi a Lepanto (1571) prima ancora che ne fosse giunta la notizia a Roma; a Sisto V predisse il papato; ad altri la vocazione religiosa; ad altri una morte imminente. Perfetto imitatore del Poverello d\’Assisi, fin dalla culla Fra Felice ebbe in sé e comunicò agli altri il dono della pace.

Quest\’umile fratello laico cappuccino nacque il 18-5-1515 a Cantalice (Rieti) da poveri, ma onesti contadini. Felice aveva appena otto anni quando il padre, costretto dalla necessità, anziché a scuola, lo mandò a custodire gli armenti del nobile Marco Tullio Pichi di Cittaducale. Il predestinato fanciullo s\’impose presto all\’ammirazione del suo padrone, che volle dargli alloggio nel suo stesso sontuoso palazzo affinchè servisse di esempio specialmente ai suoi figli. Gli stessi compagni di lavoro, che in un primo tempo lo derisero per la sua vita di penitenza e preghiera, finirono col seguirne gli ammaestramenti.
Ogni mattina, prima di andare a lavorare nei campi, Felice si recava ad ascoltare la Messa. Un giorno fu visto contemporaneamente in chiesa e nel campo dove il padrone lo aveva mandato. Quali fossero i disegni di Dio su di lui, egli lo ignorava. Fu un angelo a dirgli che il Signore lo chiamava  al suo servizio. Altre volte gli suggerì di andare a trovare i cappuccini di Rieti i quali gli avrebbero detto quello che doveva fare. Felice, invece, fino ai trent\’anni non seppe distaccarsi dalle sue abitudini campagnole. Un giorno, mentre arava, i buoi s\’impigliarono nelle funi. Volle liberarli. Essi, spaventati dall\’arrivo del signor Fichi vestito di nero, lo travolsero sotto i loro piedi, ma non gli fecero alcun male. Il vomere gli passò sul ventre, ma gli lacerò soltanto il vestito. Rialzatesi quasi subito, si buttò in ginocchio, ringraziò Dio della misericordia usatagli e propose di farsi religioso.
Dopo aver fatto distribuire quanto gli apparteneva ai poveri. Felice chiese al P. Guardiano dei Cappuccini, residenti dal 1533 presso il Santuario di Santa Maria del Monte di Cittaducale, di essere accettato nel loro convento. Fu, invece, ammesso al noviziato di Fiuggi (Frosinone) dove in breve tempo divenne modello di virtù per tutti. Rimessosi da una lenta febbre e da un indebolimento generale che lo ridusse in fin di vita, il 18-5-1543 poté consacrarsi a Dio con i tre voti di ubbidienza, povertà e castità. Dopo la professione religiosa dimorò successivamente nel convento di Tivoli, di Viterbo e dell\’Aquila e dal 1547, in quello romano di San Niccolò dei Porci (ora Santa Croce dei Lucchesi), ai piedi del Quirinale.
Nel suo ufficio di cercatore per quarant\’anni edificò i romani con il suo incedere ad occhi bassi e la corona del rosario in mano. Amava chiamarsi "l\’asino dei Cappuccini" e si studiava di essere ritenuto un buono a nulla. Qualcuno lo insultava durante le sue questue? Egli si limitava a rispondergli: "Il Signore si degni fare di te un santo". Affinchè nessuno potesse concepire di lui sentimenti di stima, affermava di essere il più grande peccatore del mondo, indegno del nome di religioso. Ma nessuno gli credeva essendo osservantissimo della regola. Sua massima era: "Io non posso e non debbo avere volontà propria; tutta la mia soddisfazione e contentezza di cuore consiste nell\’operare sempre sotto la direzione dei miei superiori".
La vita di Felice fu una continua penitenza. Se i superiori non si fossero opposti, si sarebbe nutrito soltanto di erbe e radici. Se qualche cibo gli sembrava troppo delicato, lo rendeva sgradevole mescolandovi della cenere. Dal giovedì santo fino a Pasqua non toccava cibo. Digiunava tutte le quaresime e trascorreva a pane e acqua tutti i venerdì e i sabati dell\’anno. Anche nelle stagioni più fredde non si copriva il capo e andava a piedi scalzi, benché gli si coprissero di piaghe. Finché visse usò un solo abito di albagie, rattoppato con cento pezze, che egli chiamava "i miei broccatelli". Per sé volle soltanto lo strettamente necessario: una bisaccia, due fiasche per il vino che questuava, un bastone per appoggiarsi e un coltello con alcuni pozzetti di legno per farne delle crocette. Ebbe sommo orrore per il denaro. Un giorno gli alunni del Collegio Romano gli lasciarono cadere una moneta nella bisaccia. Il santo ne rimase oppresso. Gettandola lungi da sé, esclamò: "Ah, moneta crudele! Ecco perché io non potevo più reggere al peso della mia bisaccia. Ti raccolga chi t\’ama!". Fino alla morte non volle lasciare il penoso ufficio di questuante, nonostante gli fosse sovente successo di cadere sotto il peso delle provviste avute in elemosina. Si flagellava con estrema asprezza e dormiva soltanto tre ore per notte su nudi assi e con un capezzale di legno o di sarmenti. Se qualcuno lo consigliava di mitigare alquanto le sue austerità, rispondeva sorridendo: "Non vi date pena perché le sofferenze sono per me rose e fiori".
Più si mortificava e si umiliava, più Felice era riverito e venerato come un santo da ogni categoria di persone. Sisto V, tutte le volte che lo incontrava, gli chiedeva per carità una pagnottella che mangiava metà a pranzo e metà a cena. Non avendone delle bianche, una volta il santo gliene diede una bigia dicendogli: "Contentatevi, Padre Santo, siete frate anche voi"! S. Filippo Neri per Felice ebbe una venerazione del tutto singolare. Lo riteneva la persona più santa di Roma e quando lo incontrava per via era capace di chiedergli ora la benedizione, ora una fiasca di vino cui s\’attaccava tra le risa bonarie dei passanti. In compenso gli metteva sul capo il suo cappello.
Quando S. Carlo Borromeo chiese a S. Filippo un parere riguardo alla Regola che aveva scritto per i suoi Oblati, questi lo condusse da Felice. Costui si scusò col dire che era analfabeta. "Non importa – gli rispose l\’apostolo di Roma – fattela leggere e quando ritorneremo ci dirai il tuo parere". L\’umile fraticello propose due migliorie che il Borromeo adottò.
Paolo V chiamò Fra Felice "santo di corpo e di spirito". Semplice e puro, egli amava tutte le creature perché in esse vedeva riflesso Dio. Predilesse specialmente i fanciulli, i quali lo riamarono con pari affetto. Appena lo vedevano comparire, a frotte gli andavano incontro per baciargli il cordone, chiedergli la benedizione e cantare con lui il suo abituale Deo gratias. La riconoscenza per le elemosine ricevute costituiva l\’essenza della sua vita. I fanciulli sapevano quanto egli godeva nel pronunciare quella parola, perciò, appena lo scorgevano di lontano si mettevano a gridare: "Deo Gratias, Fra Felice, Deo gratias". E il santo, con gli occhi pieni di lacrime, si avvicinava loro dicendo: "Deo gratias, cari bambini, Deo gratias! Siate benedetti, Deo gratias!". Li radunava quindi attorno a sé e insegnava loro facili canti di sua invenzione o li stimolava a pronunciare sovente il nome di Gesù. Pii benefattori lo introducevano nelle loro famiglie ed egli, riconoscente, improvvisava anche per essi dei cantici spirituali per esortarli al bene.
Fra Felice provò un\’immensa compassione per i particolari bisogni del prossimo. Sono molto numerosi i miracoli da lui operati per ridare ora la vita ai morti, ora la salute agli infermi. In tutta Roma era comunemente chiamato "il medico divino". I poveri malati erano i suoi prediletti. Si recava sovente a visitarli per portare loro ogni specie di conforto e risanarli talora con un semplice segno di croce. Sembrava che il santo potesse impegnare a suo piacimento la potenza divina. All\’occorrenza con le sue preghiere faceva cessare la pioggia, metteva in fuga le febbri, risanava le ferite e faceva sì che le botti vuote dessero vino in abbondanza e le vettine, mondate perfino della morchia, rigurgitassero all\’improvviso di olio finissimo. Per le famiglie cadute in povertà egli era il vero angelo consolatore. Non si vergognava di andare per essi a bussare alla porta dei ricchi ai quali diceva: "Quei poveri stracci a voi tanto inutili in questa vita, nell\’altra saranno per voi broccati con i quali vi presenterete vestiti al convito del gran Re ".
Dio predilesse talmente Fra Felice che gli concesse pure il dono di predire il futuro, penetrare nel segreto dei cuori e conoscere le cose lontane. Egli parlò del trionfo dei cristiani contro i Turchi a Lepanto (1571) prima ancora che ne fosse giunta la notizia a Roma; a Sisto V predisse il papato; ad altri la vocazione religiosa; ad altri una morte imminente. Perfetto imitatore del Poverello d\’Assisi, fin dalla culla Fra Felice ebbe in sé e comunicò agli altri il dono della pace. Quando udiva parole di sdegno esclamava: "Pace! Pace! Solo con il demonio e con il peccato non dobbiamo mai aver pace". In casa degli Orsini Colonna alcuni cavalieri stavano per battersi in duello. Appena lo seppe, il nostro santo accorse, spalancò la porta e gridò: " Deo gratias! Via di qua lo spirito della discordia! E perché mai, cari signori, volete versare gentile sangue romano con queste spade? Orsù, regni nei vostri cuori pace, concordia, amore, perdono".
Gregorio XIII aveva scomunicato e interdetto gli abitanti di Cantalice perché avevano assalito il palazzo vescovile di Cittaducale e percosso il vescovo. Quando lo seppe, Felice digiunò e macerò il suo corpo, poi si recò dal papa per implorare il perdono ai suoi maneschi compaesani. Munito di lettere che concedevano il perdono e la riconciliazione, egli fu accolto nel suo paese natale con vivi segni di riconoscenza. In quell\’occasione i parenti gli prepararono una buona cena, ma egli preferì mangiare delle fave fresche che una sua cognata, dietro sua insistenza, andò a raccogliere nell\’orto nonostante fosse fuori stagione.
Pur non sapendo né leggere né scrivere, Fra Felice possedeva la scienza di Dio, scritta in sei lettere, cinque rosse – le piaghe del crocifisso – e una bianca – la SS. Vergine. Innamorato della croce, se ne stava lunghe ore inginocchiato dinanzi ad essa a meditare la Passione di Gesù e a piangere di compassione i suoi dolori. Passando vicino ad un\’immagine della Madonna la salutava devotamente, sospirando: "Cara Madre, vi sia raccomandato il vostro miserabile Fra Felice!… Beneditemi, Regina mia!… Cara Madre, addio!". Dopo mattutino passava molte ore in chiesa, non disponendo di molto tempo durante la giornata a motivo della questua. Una notte, Frate Dionisio da Paterno lo udì gridare: "Gesù! Gesù!" e poi lo vide sollevarsi alcuni palmi da terra, rapito in estasi. Altra volta fu visto correre dalla porta della chiesa verso l\’altare maggiore, mentre esclamava: "Ah, Dio Mio! Gesù mio! Non partite. Mio tesoro, vengo a voi, aspettatemi!". In realtà il Bambino Gesù stava ritto sulla predella dell\’altare. Appena Felice stese le sue braccia, gli volò al collo, gli asciugò le lacrime e lo ricolmò di baci.
In una notte di Natale la S. Vergine gli fece vedere suo Figlio come nacque nella grotta di Betlemme. Dopo averla ringraziata del favore disse: "Ora non ho più che bramare in questa vita". Nelle sue preghiere ripeteva sovente: "Presto, presto, o Signore, chiamatemi a Voi". Più volte fu udito dire: "Per andarmene a Dio ogni ora mi pare mille anni". L\’ultima malattia lo colse il 30-4-1587.
Morì a Roma il 18 maggio dopo un\’estasi in cui vide la Madonna circondata da angeli. Prima ancora che fosse posto nel sepolcro cominciò a operare miracoli. Un misterioso liquore colore argento scaturì dal suo corpo e servì a guarire una moltitudine di infermi. Urbano VIII beatificò Fra Felice il 1-10-1625 e Clemente XI lo canonizzò il 22-5-1712. Le sue reliquie sono venerate a Roma nella chiesa di Santa Maria della Concezione, dei Cappuccini.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 5, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 223-228.
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