S. ANTONIO MARIA PUCCI (1818-1892)

L’esercizio della presenza di Dio costituiva per lui quasi un’idea fissa. “È mai possibile – esclamava – che la presenza di un Dio onnipotente, eterno, infinito, che tutto vede e sente, non serva di sprone all’uomo per operare rettamente e tenerlo nel suo dovere e non gli faccia concepire venerazione e rispetto?” Un fratello converso, che visse molti anni con lui, affermò:”Tutte le volte che ebbi occasione, per ragioni del mio ufficio, di entrare nella sua cella lo trovai sempre in preghiera”.

12 gennaio
Eustachio Pucci, secondo di otto figli, nacque da poveri contadini il 16-4-1818 a Poggiolo di Vernio, piccolo villaggio dell’alta Valle del Bisenzio, nella diocesi di Pistola. Siccome suo padre era anche sacrestano, fin da piccino Eustachio imparò a seguirlo in chiesa e a frequentare la canonica, dove Don Luigi Diddi impartiva lezione ai bambini della frazione priva di scuola comunale. Di carattere docile e mite, proclive alla pietà, il Pucci era piuttosto alieno dal far brigata con i suoi coetanei. Dopo la scuola, anziché trastullarsi nei prati, preferiva sedersi accanto alle sorelle e maneggiare con loro la rocca e il fuso. Suo svago preferito era aiutare il babbo nel curare il decoro della chiesa, prendere parte alle funzioni, accostarsi alla Comunione e nutrire una tenera devozione alla SS. Vergine.
La sua strada quindi non era quella comune. Un giorno, di ritorno dal Santuario di Boccadirio, a dodici chilometri circa da Poggiole, confidò a Don Luigi: “Io sono deciso di abbandonare il mondo e di entrare in convento…Lei non mi abbandoni; continui ad essere il mio sostegno e la mia guida. .. Però le confido di voler entrare in un Ordine che in un modo o in una altro sia consacrato alla Madonna. Voglio dare a lei la mia anima e tutto me stesso”. Il cappellano conosceva l’Ordine dei Servi di Maria fondato nel 1233 da sette pii mercanti fiorentini sul Monte Senario. Quando lo volle accompagnare al convento della SS. Annunziata a Firenze (1837) il padre si oppose perché il suo diciottenne figliuolo era già in grado di condividere con lui le fatiche dei campi. Da buon cristiano, però, si arrese ai disegni che Iddio aveva sopra il suo Eustachio.
Al termine del noviziato Fra’ Pellegrino Romaggi attestò del Pucci: “Non solamente è stato sempre irreprensibile, ma anzi molto edificante, poiché ha sempre dimostrato un carattere docile, schietto e sereno; ha dato molte prove della costante sua ubbidienza, umiltà e soda pietà; come pure ha dimostrato un grande impegno nello studio e nell’adempimento di tutti i suoi doveri, per cui non ho avuto mai occasione di dubitare della sua vocazione allo stato religioso”. Il Pucci poté così per cinque anni, continuare gli studi nel convento di Monte Senario, dove nel 1843 fece la professione solenne col nome di Antonio. Lo stesso anno fu ordinato sacerdote a Firenze, nella chiesa di San Salvatore, annessa al palazzo arcivescovile. Oppresso da tanta dignità, inginocchiato ai piedi del Crocifisso esclamò: “Signore, non sono degno! Signore, non sono degno!”.
I superiori nel 1844 mandarono P. Antonio Pucci a Viareggio, in diocesi di Lucca, nel nuovo convento, a disimpegnare le mansioni di viceparroco. Fino all’ultimo giorno di vita egli fu nella parrocchia di Sant’Andrea un miracolo vivente di attività e di risorse apostoliche. Nel 1847, benché non avesse che ventotto anni e non ambisse cariche, le autorità diocesane lo nominarono esaminatore prosinodale, e i superiori dell’Ordine gli affidarono la cura della parrocchia; nel 1859 lo elessero Priore della sua comunità; nel 1883 lo nominarono Priore Provinciale per la Toscana, e quindi Definitore generale.
Il P. Pucci restò quel che era sempre stato, umile con tutti e fratello dei suoi fratelli ai quali non fece mai sentire il peso della sua autorità, pur sapendoli richiamare alla scrupolosa osservanza delle regole e dei voti, allo spirito di rinuncia e di mortificazione proprio dell’Ordine.
Il periodo del suo provincialato fu definito il regno della dolcezza, benché nelle visite che regolarmente faceva, riprendesse con santo coraggio quello che riteneva necessario riprendere. Nessuno poteva dolersene perché praticava quanto insegnava ed esigeva.
L’esercizio della presenza di Dio costituiva per lui quasi un’idea fissa. “È mai possibile – esclamava – che la presenza di un Dio onnipotente, eterno, infinito, che tutto vede e sente, non serva di sprone all’uomo per operare rettamente e tenerlo nel suo dovere e non gli faccia concepire venerazione e rispetto?” Un fratello converso, che visse molti anni con lui, affermò: “Tutte le volte che ebbi occasione, per ragioni del mio ufficio, di entrare nella sua cella lo trovai sempre in preghiera”. Certa Rosa Lunardini, entrando nell’Archivio parrocchiale, lo trovò davanti ad un crocifisso addirittura fuori dei sensi. I parrocchiani lo sorpresero in rapimento davanti a Gesù Sacramentato nelle ore in cui di solito il divino Prigioniero è lasciato solo; lo videro assorto in preghiera dinanzi all’altare della Deposizione per tutta la notte fra il Giovedì e il Venerdì Santo; lo ammirarono durante le processioni del Corpus Domini fissare con occhi velati dalle lacrime l’Ostia Santa che portava alta tra le mani; lo contemplarono stupiti sollevarsi un palmo da terra al momento della consacrazione nella Messa, o camminare senza posare i piedi sul suolo mentre si recava a far visita agli infermi. Dal suo volto traspariva inoltre tale candore che, al solo vederlo, i viareggini esclamavano: “Pare un angelo!”.
Per questo i parrocchiani s’entusiasmarono subito di colui che chiamavano “il Curatino” perché, piccolo di statura e di corporatura, anche se non possedeva quelle doti oratorie che fanno colpo sul popolo minuto; se camminava col capo un po’ inclinato a terra; se era scosso da brividi improvvisi e quasi convulsi e aveva una voce inarcatamente nasale motivo per cui la sua Messa si snodava in cantilena monotona. Quando i Servi di Maria giunsero a Viareggio (1841), v’instaurarono il culto alla Madonna Addolorata. Appena “il Curatino” ebbe preso possesso della parrocchia (1847), la pose sotto la protezione di lei e fece della “Compagnia di Maria SS. Addolorata” il suo centro d’azione. Fu tale l’ondata di fede e di devozione da lui suscitata che non si varava più nessuna imbarcazione senza una solenne funzione alla Vergine SS. e la benedizione del P. Pucci.
A quei tempi la popolazione di Viareggio era costituita in gran parte da pescatori, e non erano pochi i ragazzi che dovevano seguire il babbo sul mare per aiutarlo e imparare il mestiere. Eppure al ritorno delle barche sul far della sera “il Curatino” trovava il modo di andare loro incontro per istruirli nelle verità della fede, radunarli attorno a sé la domenica per prepararli meticolosamente alla prima Comunione, con l’ausilio della “Congregazione della Dottrina Cristiana” da lui fondata nel 1849. Le fanciulle che frequentavano il catechismo, le ragazze da marito bisognose di comprensione e di consiglio, le iscritte al Terz’Ordine dell’Addolorata, furono da lui affidate a Caterina Lenci (+1895), respinta a causa della salute dal convento delle Mantellate di San Niccolò di Lucca. Il P. Pucci con il suo aiuto diede inizio all’Istituto delle Mantellate di Viareggio, che nel 1853 ricevettero la cura di un piccolo ospedale per gli ammalati poveri, e nel 1869 la direzione del grande Ospizio Marino costruito per i bambini affetti da scrofola. Nel 1910 le Mantellate di Viareggio si unirono con quelle di Pistola.
La prima Comunione dei bambini non rappresentava una meta definitiva per lo zelante pastore, ma solo una tappa nel cammino della vita. Infatti, abile organizzatore qual era, fondò per i giovani la “Congregazione di San Luigi” per avere dei cooperatori che arrivassero dove non poteva arrivare lui. Per mantenere salda la fede nelle famiglie e nella società fondò la “Pia Unione dei Figli di San Giuseppe” con proprio Oratorio. Al patrocinio di San Giuseppe raccomandava gli ammalati della parrocchia, al capezzale dei quali si recava dopo aver pregato a lungo davanti a Gesù Sacramentato, senza aspettare che fossero gravi. Entrava nelle famiglie di tutti, ma preferiva le stamberghe dei poveri nelle quali portava pane e carne, brodo e latte, lenzuola e coperte e persino i materassi, se di questi c’era bisogno. Come religioso non possedeva nulla. Ed allora eccolo una volta dare ad un povero vecchio il suo mantello e ad un altro persino i suoi calzoni. Molti testimoni deposero che “se si potessero contare i denari che in quarantacinque anni passarono per le mani del P. Antonio, ci sarebbe da mettere insieme un vistoso patrimonio”.
“Il Curatino”, arso dalla fiamma di carità, senti pure il bisogno di accendere attorno a sé un gran fuoco di amore per i bisognosi. Vero servo e padre dei poveri, volle che nella sua parrocchia sorgesse la “Conferenza di San Vincenzo de’ Paoli” conforme alle norme stabilite dal fondatore Federico Ozanam, di cui condivideva perfettamente le idee. Non contento di spronare i congregati al sollievo dei poveri con la parola, li precedette con l’esempio andando di porta in porta a chiedere per gl’indigenti denari, viveri, biancheria, scarpe. I confratelli, vedendolo sovente arrivare ansante, pallido, gli dicevano: “Lei si strapazza troppo! Se va avanti di questo passo morirà presto!” Il Santo rispondeva loro con un filo di voce: “Non è necessario aver vita lunga, ma è necessario approfittare dell’ora che Dio ci dà per fare il proprio dovere”.
Durante il colera 1854-56 non si concesse un attimo di riposo. Passava infaticabilmente da una casa all’altra. Di notte dormiva vestito sopra una branda che aveva fatto mettere in archivio per essere pronto ad ogni chiamata. Quando i colpiti dal morbo cadevano per terra all’improvviso, sulle piazze e per le strade, mentre tutti se la davano a gambe inorriditi il “Curatino” si avvicinava premuroso, se li caricava sulle spalle, vivi o morti che fossero, e li portava al coperto per le cure del caso. “Lei vuoi morire per forza!” gli dicevano. “La morte! – sospirava lui. – Oh! sia la benvenuta se mi sorprenderà sulla breccia e se mi farà cadere nella fossa insieme con il mio fratello!” I viareggini esclamavano allora stupiti: “Se non va in Paradiso lui, non ci va nessuno!” Al suo passaggio anche i massoni, i garibaldini e gli anticlericali si onoravano di fargli tanto di cappello.
Al tempo in cui il P. Pucci andava conquistandosi il cuore dei parrocchiani con l’esercizio eroico della carità, il Curato d’Ars attirava al suo confessionale moltitudini di penitenti da tutte le parti della Francia. La fama del “Curatino Santo” di Viareggio ebbe una risonanza molto più limitata. Ciò nonostante, specialmente in certe solennità, il suo confessionale era inverosimilmente affollato. La gente lo preferiva agli altri, benché fosse di manica stretta a motivo dell’orrore che provava per il peccato. Sono innumerevoli le anime che egli strappò all’inferno. Era logico che Satana lo odiasse a morte e invogliasse qualche libertino a percuoterlo mentre di notte si recava a confortare i moribondi. A chi lo consigliava di sporgere querela rispondeva: “No, no, io non faccio nomi! Ben altre furono le percosse che ricevette Gesù; e lui non le meritava davvero; mentre io, povero peccatore, merito questo e peggio”.
Il P. Pucci che aveva amore per i nemici, conforto per gli afflitti, pane per gli affamati, aveva sempre anche un dono di pace da offrire alle anime dilaniate dalla discordia o in preda alla disperazione. Quando veniva a sapere che in una famiglia regnava la discordia era lui a non avere più pace. E andava, ascoltava in silenzio, lasciava che le parti in contrasto dicessero ognuna le proprie ragioni e poi faceva risuonare lui la parola giusta che arrivava diritta al cuore.
All’inizio del 1892 il santo contrasse una polmonite fulminante mentre cantava la messa solenne dell’Epifania. Nel delirio farneticò di infermi da assistere, di poveri da soccorrere, di peccatori da confessare, di fedeli da comunicare. Morì il 12-1-1892. Pio XII lo beatificò il 22-6-1952 e Giovanni XXIII lo canonizzò il 9-12-1962, II suo corpo riposa a Viareggio nella chiesa di Sant’Andrea.

 Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 1, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 174-177.
http://www.edizionisegno.it/