Non si può mai scegliere il male minore.

Saggio del dott. Giacomo Samek Lodovici tratto da “Il Timone”  (http://www.iltimone.org/) numero 52, aprile 2006. Non si può scegliere il male minore: il principio del duplice effetto. Non si può scegliere il male minore, ma solo tollerarlo. I criteri da seguire quando le nostre azioni hanno un effetto moralmente positivo ma anche uno negativo.

È giusto seguire la logica del male minore? È moralmente giusto compiere un’azione che ha un effetto moralmente buono e un effetto moralmente cattivo, come, per es.: somministrare ad un malato terminale dei farmaci che leniscono il suo dolore ma gli accorciano la vita? O bombardare degli obiettivi militari provocando la morte di alcuni civili?
Per rispondere bisogna partire dalla differenza tra gli effetti diretti delle nostre azioni e quelli indiretti-collaterali. Gli effetti diretti sono quelli voluti direttamente, e volere direttamente una cosa significa volerla o come fine in se stessa, o come mezzo in vista di un fine ulteriore. Al contrario, un effetto collaterale è quello che non è voluto né come fine, né come mezzo, anche se deriva da ciò che viene invece voluto.
Consideriamo per es. una chemioterapia antitumorale: quando mi sottopongo ad essa sperimento dei duri effetti negativi, che sono collaterali perché:  a) non sono voluti né come fine, in quanto il fine voluto è la guarigione, b) né come mezzi per produrre la guarigione. Pensiamo ancora agli effetti collaterali dell’assunzione di una medicina, oppure a ciò che fa Dio, che tollera gli atti malvagi degli uomini come conseguenza collaterale del dono della libertà che fa loro. Similmente: chi offre la propria vita per salvare quella del proprio figlio, non vuole la propria morte, bensì la salvezza del figlio; chi circola per strada non vuole respirare l’aria inquinata nociva per la sua salute, pur sapendo che la respirerà, bensì vuole andare al lavoro, trovarsi con gli amici, ecc.
Ebbene, il principio del duplice effetto (PDE) dice che è lecito compiere degli atti da cui conseguono una conseguenza (che può essere uno stato del mondo o un’azione/omissione altrui) buona ed una conseguenza cattiva, alle seguenti condizioni, che devono essere rispettate tutte insieme:
1) se l’atto è in se stesso buono o moralmente neutrale;
2) se la conseguenza cattiva non è voluta come fine;
3) se la conseguenza cattiva non è voluta nemmeno come mezzo per la produzione della conseguenza buona, ovvero se è una conseguenza collaterale.
4) se c’è una proporzionalità tra la conseguenza buona e quella cattiva.
Così, quando mi sottopongo ad una chemioterapia antitumorale è lecito sperimentare i suoi duri effetti perché:
1) l’atto medico in sé è moralmente buono;
2) gli effetti collaterali non sono voluti come fine, perché il fine è la guarigione dal tumore;
3) gli effetti collaterali non sono voluti come mezzo per conseguire il fine della guarigione, bensì sono un effetto indiretto della chemioterapia;
4) c’è una proporzione tra gli effetti collaterali negativi e gli effetti direttamente ricercati (la guarigione dal tumore)
Precisamente, la quarta condizione del PDE dice che:
4.1.1. l’atto che ha un duplice effetto deve essere l’unico che ho a disposizione per ottenere il fine;
4.1.2. lo devo compiere senza eccedere, cioè quanto basta per conseguire il fine.
Per es., non è moralmente ammissibile tollerare i duri effetti collaterali di una chemioterapia se è disponibile una terapia per guarire dal tumore altrettanto efficace che non li provoca (4.1.1.), né ricorrere ad una terapia che provoca effetti collaterali più di quanto serva per guarire (4.1.2.);
4.2. deve esserci un bilanciamento (cosa spesso difficilissima da calcolare) tra l’effetto negativo e quello positivo. Nell’esempio, la salute del paziente (effetto buono) è proporzionalmente superiore ai duri effetti collaterali (effetto cattivo) della chemioterapia.
Alla luce del PDE c’è dunque una differenza morale tra un medico che pratica un’iniezione letale ad un paziente per alleviargli la sofferenza (atto eutanasico) e un medico che gli somministra un analgesico che allevia il dolore sapendo di accorciargli la vita (atto non eutanasico). C’è differenza perché il primo medico vuole la morte del malato come mezzo, la vuole a malincuore, ma la vuole, mentre il secondo non la vuole né come fine, né come mezzo, ed essa scaturisce come conseguenza collaterale della somministrazione dell’analgesico o della sospensione delle terapie invasive.
Ora, noi, a volte, in una situazione di scelta diciamo che bisogna scegliere il male minore, ma in realtà il male non lo si può mai scegliere, non lo si può mai volere; lo si può solo tollerare come conseguenza collaterale delle nostre azioni, perciò l’atto del primo medico è malvagio.
I critici del PDE ritengono che ci sia sempre un’equivalenza tra provocare consapevolmentevolere, e quindi negano l’esistenza di conseguenze collaterali dell’agire, dicono che noi vogliamo direttamente tutto ciò che provochiamo consapevolmente.
Ma questa equiparazione è sbagliata perché comporta esiti masochistici, in quanto implica che chi prevede che le sue azioni provocheranno delle conseguenze negative per se stesso voglia queste conseguenze negative: implica che (negli esempi fatti) l’agente voglia le nefaste conseguenze della chemioterapia, la propria morte e respirare l’aria inquinata.
L’esempio classico di applicazione del  PDE è quello dell’isterectomia, praticata su una donna che ha un tumore è che è incinta, che ha il duplice effetto di salvare la vita della madre (effetto positivo), ma, a causa dell’asportazione dell’utero, di certo comporta anche la morte del feto (effetto negativo). Prevedo tra i lettori qualche perplessità, ma posso rimandare ad un pronunciamento esplicito di Pio XII al riguardo e ai testi di molti autorevoli eticisti cattolici (cfr. bibliografia). In effetti, l’eccellenza morale sarebbe proseguire la gravidanza e sacrificare la propria vita per quella del feto, ma è moralmente buono anche sottoporsi all’isterectomia, perché: 1) l’atto chirurgico di asportazione interviene direttamente sulla madre e di per sé è buono; 2) la morte del feto non è voluta come fine (cosa che dipende dall’intenzione interiore); 3) la morte del feto non è voluta nemmeno come mezzo (non è infatti un anello causale intermedio che produce la salvezza della madre); 4) c’è una proporzione tra la vita della madre e quella del feto (supposto che non ci sia modo di salvare la madre senza provocare la morte del figlio).
Diverso è il caso illecito e drammatico (ormai rarissimo, ma ci serve per capire il discorso) della craniotomia, in cui bisogna uccidere il feto per salvare la madre, in cui dunque la morte del feto non è una conseguenza collaterale, perché è voluta, sia pure molto a malincuore, come mezzo per ottenere la salvezza della vita della madre.
Un’altra obiezione dice che è impossibile distinguere i mezzi in vista di un fine dalle conseguenze collaterali certe dell’agire: la morte del feto è inevitabilmente connessa all’asportazione dell’utero gravido, dunque è il mezzo in vista del fine della salvezza della madre, quindi, secondo questa obiezione, per es., non ci sarebbe differenza morale tra isterectomia e craniotomia.
Ma mentre una conseguenza collaterale avviene sempre simultaneamente o dopo la produzione dell’effetto positivo, viceversa un mezzo è ciò che esiste previamente al suo effetto, quindi c’è differenza tra i mezzi in vista di un fine e le conseguenze collaterali certe dell’agire.
Il PDE non elimina la nostra responsabilità rispetto alle conseguenze collaterali del nostro agire: dice solo che questa responsabilità è minore rispetto a quella che concerne le conseguenze dirette. Così, se nel corso di una guerra io bombardo una fabbrica di armi che si trova in una città senza voler uccidere i civili, la morte sicuramente prevista di alcuni civili è un effetto collaterale non voluto. Ma questo non toglie la mia responsabilità per la morte dei civili, tanto che per poterla tollerare deve sussistere una proporzione tra essa e l’importanza strategica della distruzione della fabbrica.
 
Bibliografia
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