L’amore ed il rispetto di sè (10)

…PARTE II. DOVERI DELL’UOMO VERSO SE STESSO. L’amore ed il rispetto di sè. Il rispetto di sè. Il rispetto di sè e l’umiltà. I peccati contrari al retto amore di sè. L’egoismo. La superbia….

Trattato di Teologia morale


PARTE II.


DOVERI DELL’UOMO VERSO SE STESSO




L’uomo si appartiene, ma non in maniera assoluta. Egli è anzitutto di Dio, vive per lui. Per questo non può disporre di sé a suo talento, ma è vincolato da particolari doveri relativamente alla sua vita fisica, alla sua vita sessuale ed alla sua vita soprannaturale: doveri che si riannodano tutti all’amore ed al rispetto di sé.



1. L’AMORE ED IL RISPETTO DI SE’ (351)



I. L’AMORE DI SÉ.


L’uomo si ama naturalmente. Nessun sentimento è spontaneo come questo: esso è nascosto anche nel folle gesto di chi si toglie la vita od impreca alla sua esistenza: alla base di codesto insano atteggiamento sta l’insoddisfatto desiderio della propria felicità. In questo senso, molto largo e generico, l’amore di sé non può essere soggetto ne di una proibizione ne di un comando: esso è necessario.


Ma può esservi un amore retto ed un amore disordinato, un amore che tenga conto della verità dell’essere e della gerarchia dei valori, ed un amore menzognero e fallace che questa medesima gerarchia modifichi od anche capovolga. In quest’altro senso si può parlare e si parla di fatti, di amore proibito e di amore comandato, di un amore di sé che può scendere al livello del vizio e di un amore che può assurgere al grado di virtù.


Tuttavia anche l’amore ordinato di se stesso può avere diverse forme e diversi gradi: ci si può infatti amare di amore naturale e di amore soprannaturale, e nel piano soprannaturale l’amore può essere o di semplice concupiscenza o di benevolenza, Nel primo caso amiamo come nostri i doni che Dio ci ha gratuitamente elargiti; nel secondo caso amiamo in noi stessi Dio. Anche qui il dogma della nostra incorporazione in Cristo facilita codesta forma di amore, componendo in mirabile armonia l’amore di sé con l’amore di Dio.



II. IL RISPETTO DI SÉ.


Scaturisce dall’ordine dell’amore e dalla natura stessa della carità. Rispettare se stessi vuoi dire essere praticamente consapevoli del valore della propria vita e dei doni di cui essa risulta, rispettando la loro finalità ed il loro ordine.


Falsare codesta finalità e sconvolgere quest’ordine vuol dire necessariamente depauperare la propria esistenza e profanare i propri talenti. Nel piano soprannaturale ciò vuole dire, per di più, macchiare o addirittura sconsacrare la propria anima, già santificata dalla grazia. Il sapere che lo Spirito Santo abita in coloro che vivono in grazia (352), non può non costituire un motivo di più per rispettare noi stessi, e per esigere che anche gli altri rispettino la nostra dignità.



III. IL RISPETTO DI SÉ E L’UMILTÀ (353).


Ad uno spirito superficiale questi due sentimenti potrebbero sembrare dissonanti tra di loro o addirittura antitetici. In realtà essi sono del tutto concordi, perché poggiano sul medesimo fondamento, sulla verità dell’essere ed hanno una comune radice: il rispetto di Dio.


L’umiltà infatti non va confusa né con la pusillanimità, né con l’avvilimento, ma consiste essenzialmente nell’oggettiva consapevolezza del posto che noi occupiamo di fronte a Dio ed agli uomini, e nella sapiente moderazione dei nostri desideri di gloria.


L’umiltà non ci vieta né di prendere coscienza dei talenti ricevuti, né di sfruttarli appieno con fiducioso ardimento; ma solo ci proibisce di menarne vanto e di presumere di noi stessi: essa sa che tutto, sia nell’ordine della natura come in quello della grazia, noi abbiamo ricevuto da Dio, che suo è il volere ed il fare, mentre nostra è soltanto la deficienza ed il peccato, e che solo in Lui la nostra miseria può tramutarsi in onnipotenza. In tal modo l’uomo di fronte a Dio rimane sempre nell’atteggiamento di debitore.


Parimenti l’umiltà non sdegna il giudizio altrui, né ne rifiuta la stima; solo non li sopravaluta e ne modera il desiderio: essa sa difatti che al di sopra dei giudizi degli uomini, incompleti e spesso fallaci, sta il giudizio di Dio, sovranamente giusto ed infallibile, che non valuta solo l’atto, ma misura l’intenzione e la responsabilità. Per questo anche di fronte alle creature più vili, l’umile non osa fare dei farisaici confronti, ma compatisce e si umilia, pienamente consapevole delle grazie ricevute e delle responsabilità contratte, ma completamente ignaro del grado della responsabilità altrui. Per questo egli, senza né fingere né esagerare, può giungere al più basso sentire di sé, anche quando riconosce che la grazia ha molto operato in lui.


Questa medesima divina luce di verità gli rivela la vera natura della sua specifica funzione sociale, intesa sempre, anche e soprattutto quando è più alta e più universale, come servizio reso agli altri ed in loro a Dio.



IV. I PECCATI CONTRARI AL RETTO AMORE DI SÉ.


Oltre alle diverse colpe che contrastano con i particolari doveri inerenti a questa virtù, e delle quali si parlerà in seguito, al retto amore di sé si oppongono tanto l’egoismo come la superbia, intesi il primo come esclusivo riferimento a sé delle persone e delle cose, e la seconda come falsa valutazione delle proprie qualità e disordinato desiderio della propria gloria.


1. Egoismo (354) da ” ego “, l’io, è l’amore falso ed esagerato di se stesso, che porta ad una vera idolatria dell’ ” io “, eretto ad una unica misura per le relazioni con tutte le altre persone e cose, unica meta di tutti i propri sforzi. Fine di ogni azione umana non è che l’interesse individuale dell’agente, più o meno velato. Perciò non è un vizio speciale, ma è in generale uno squilibrio nell’ordinamento generale voluto da Dio, un elemento latente almeno inizialmente in ogni peccato (355), in quanto è avversione da Dio e conversione alle creature (l’io creato), un corrosivo della carità, in quanto virtù specifica ed in quanto è informatrice di tutte le altre virtù.


L’eccessiva compiacenza di se stesso o incensamento del proprio io, crea invece un disordine nella sfera dell’amore e con il miraggio della felicità propria, esclusiva e temporale, pone l’io in primo piano, imprigionato nelle tenebre della propria personalità, con la conseguente detronizzazione di Dio dal posto che gli compete, come fine di tutte le cose, e col sacrificio delle persone con cui ha rapporto, considerate esclusivamente alla stregua di strumento da utilizzare. D’altra parte l’egoista neppure con se stesso è equanime, perché pone i propri interessi temporali al di sopra di quelli eterni e non è mai per il proprio bene spirituale che sfrutta il prossimo e detronizza Dio, essendo ciò incompatibile. Perciò stesso è assurdo dire che l’ascetica fomenti l’egoismo; nulla vi è di egoistico nella ricerca della propria santificazione che non sussista senza la ricerca di Dio e la carità verso il prossimo. L’egoismo invece suppone non una semplice pianificazione di valori, ma un completo rovesciamento. Tutto ciò che esiste, non ha alcun pregio e senso per l’egoista, se non in quanto tutto si riferisce a lui e favorisce i suoi progetti ed interessi personali. L’uomo dominato dall’egoismo è dimentico della sua genesi e della funzione che ha nei riguardi del suo Creatore e di compiti che ha in seno alla società umana, si fa centro dell’universo; tutto valorizza ad esclusivo vantaggio della propria egemonia: l’amore di sé fino al disprezzo di Dio (amor sui usque ad contemptum Dei), dice incisivamente S. Agostino (356). L’egoismo appare, da quanto è stato detto, negligenza o disprezzo della virtù di religione, della giustizia, ma soprattutto della carità integrale. È il tarlo roditore, l’eliminazione dell’amore verso Dio, verso gli uomini, ed anche come si è detto verso se stesso, perché non è il suo vero bene che l’egoista persegue in quanto una volta riconosciuto se stesso punto di convergenza di tutto l’universo diventa ottuso e miope nel riconoscere le sue manchevolezze. Questo egocentrismo, se spinto all’eccesso, può essere anche fonte di malattie psichiche, ma più spesso è effetto anziché causa di queste anormalità, Caratteristico, ad es., è l’egoismo soprattutto nell’isteria.



2. L’egoismo ha un necessario nesso con la superbia, anzi difficile è in concreto determinare, dove cessi l’egoismo ed abbia inizio la superbia. Quest’ultima è in genere riguardata come la radice, in quanto è l’esaltazione dell’io, a cui segue l’ordinamento di tutte le cose verso di sé. Si tratta evidentemente di un appetito disordinato della propria eccellenza, perché la ricerca di quest’ultima è di per sé indifferente e potrebbe essere anche buona, se fosse fatta nel modo dovuto e per un retto fine.


Il disordine può verificarsi (357) o ritenendo prodotto da sé ciò che ci viene dato da Dio o presumendo di aver ottenuto qualche dono da Dio per meriti propri (si ha qui la superbia completa, che include il disprezzo di Dio) o arrogandosi delle qualità che non si hanno o volendo emergere a qualunque costo sugli altri (sono le forme minori; la superbia incompleta).


Una delle manifestazioni della superbia è l’ambizione (358), che è la brama smodata di onori e dignità; un’altra la vana gloria (359), che è disordinato desiderio di fama e di stima; un’altra ancora la presunzione che spinge a tentare opere superiori alle proprie forze (360).


Dopo uno sguardo panoramico, è opportuno scendere al dettaglio, per vedere qual è la valutazione che l’uomo deve fare dei beni che possiede.



NOTE


351     Cfr. J. LECLERCQ, Leçons de droit naturel, IV: Les droits et devoirs individuels, Prem. part.: Vie, dispositions de soi, Namur 1937.


352     Rm 5,5; 1 Cor 6,19.


353     Ctr. S, BERNARDO, De gradibus humilitatis et superbiae, PL 182,941-972; 5. Theol. 2-2, q. 161 con i commenti del Gaetano nell’edizione leonina; De imitatione Christi, 1, 1, c. 2-7, 9-22; 1. 2, c. 2; 1. 3, c. 3, 4, 8, 13, 19, 20, 40, 56; ET. HYGUENY, Humilité, in DAFC, II, 519-528; B. DOLHAGARAY, Humilité, in DTC, VII, 321-329; L. BEAUDENOM, Formazione all’umiltà , Torino 1934; P. CANICE, Humility. The foundations of spiritual Life, Westminster 1951; P, ADNÈS, L’Humilité… d’après S. Augustin, in Rev. asc. myst., 28 (1952) 208-223.


354     Cfr. A. TANQUEREY, Compendio di teologia ascetica e mistica, Roma 1927, n. 43; P. PALAZZINI, Egoismo, in EC, V, 183-184; C, ANTOINE, Egoìsme, in DTC, IV, 2224-2230.


355     S. Theol. 1-2, q. 77, a. 4.


356     De Civ. Dei, 14,28,


357     Cfr. S, GREGORIO MAGNO, Moralia XXIII, cap, 6; PL 76,256-259, S. Theol. 2-2 q. 162, a. 4; A. TANQUEREY, Compendio di teologia ascetica e mistica7, Roma 1928, n. 820-43; ST. CARTON DE WIART, Tractatus de peccatis et vitiis, Malines 1932, 157-60; A. MEYNARD, Trattato della vita interiore. I, Torino 1936, n. 45-46; R. GARRIGOU-LAGRANGE, Les trois ages de la vie intérìeure, I, Paris 1938, 514-26; J. LECLERQ, La vie en ordre, Bruxelles 1938, 171-78; E. JANVIER, Esposizione della morale cattolica, X, Torino 1938, 177-203; XII, Torino 1939, 189-205.


358     S. Theol. 2-2, q. 131, a. 1.


359     S. Theol. 2-2, q. 132, a. 3.


360     S. Theol. 2-2, p, 130, a. 1, Questa forma di presunzione, che va direttamente contro la virtù della magnanimità è diversa dalla presunzione, che va contro la speranza.