Italia e Spagna nel secolo XVIII


Prof. A. Torresani. 8. 1 Il regno di Napoli – 8. 2 La Lombardia austriaca – 8. 3 Il granducato di Toscana – 8. 4 Il regno di Sardegna – 8. 5 La Spagna da Filippo V a Carlo III – 8. 6 La politica coloniale spagnola – 8. 7 Cronologia essenziale – 8. 8 Il documento storico – 8. 9 In biblioteca


Cap. 8 Italia e Spagna nel secolo XVIII



Con la morte di Carlo II d’Absburgo re di Spagna, avvenuta nel 1700, l’Europa precipitò in una delle sue periodiche crisi. Il conflitto, terminato con le paci di Utrecht (1713) e Rastatt (1714), segnò la vittoria apparente della Francia che impose il proprio candidato al trono spagnolo, Filippo V di Borbone, ma a prezzo della cessione dei territori esterni alla penisola iberica (Paesi Bassi, Milano, Napoli, Sicilia e Sardegna) in gran parte ceduti a Carlo VI d’Absburgo.


Nel Mediterraneo, il declino della potenza turca fu stabilito dalle paci di Carlowitz (1699) e di Passarowitz (1718) che sancirono la ripresa dell’impero absburgico nei Balcani. In Italia, il dominio diretto della Spagna fu sostituito da quello austriaco in Lombardia, nel regno di Napoli e in Sicilia. A seguito della guerra di successione polacca scoppiata nel 1733, l’Austria dovette cedere il regno di Napoli e la Sicilia, di cui divenne re Carlo di Borbone, il giovane figlio di Filippo V e di Elisabetta Farnese.


Alla morte di Gian Gastone de’ Medici, il granducato di Toscana fu assegnato al duca di Lorena per ricompensarlo della perdita del suo territorio, assegnato alla Francia. Quando il duca Francesco Stefano di Lorena divenne marito di Maria Teresa d’Absburgo, gran parte dell’Italia settentrionale si trovò sotto il dominio diretto o indiretto dell’Austria.


Le repubbliche aristocratiche di Genova e Venezia, invece, rimasero prigioniere del loro passato. Venezia in particolare divenne una città che viveva della rendita di ciò che era stato accumulato nel suo passato. Più grave la situazione dello Stato della Chiesa, specie a partire dal 1730 quando il relativo dinamismo degli altri Stati della penisola poneva in luce l’antiquata amministrazione pontificia.


Attenzione particolare si deve riservare al regno di Sardegna sotto la dinastia dei Savoia, periferico rispetto agli Stati della penisola, ma che, a causa della sua posizione geografica, era il solo in grado di sostenere una parte attiva nella politica internazionale.


Anche la Spagna sotto il regno di Filippo V e poi, a partire dal 1759, sotto quello di Carlo III di Borbone, che dal regno di Napoli passò a quello di Spagna, sperimentò una ventata di rinnovamento.



8. 1 Il regno di Napoli



La guerra di successione spagnola pose fine al periodo della preponderanza francese in Europa anche se un principe della casa di Borbone riuscì a salire sul trono di Spagna. Quel risultato, infatti, costò alla Spagna la perdita dei suoi domini in Italia e nei Paesi Bassi, a favore degli Absburgo d’Austria.


Perdura il criterio dell’equilibrio La situazione di equilibrio europeo non fu modificata dai trattati di Vienna (1738) e di Aquisgrana (1748) che posero fine alle guerre di successione polacca e austriaca. In Italia, tuttavia, quei trattati modificarono l’assetto territoriale e dinastico dei vari Stati: il dominio diretto austriaco fu ridotto alla Lombardia, rimpicciolita a ovest perché il Piemonte raggiunse la riva del Ticino. I figli di Filippo V e di Elisabetta Farnese, Carlo e Filippo di Borbone, divennero il primo re di Napoli e di Sicilia nel 1734, e l’altro duca di Parma nel 1748. L’Austria riuscì, a sua volta, a impedire che il granducato di Toscana passasse dopo la morte di Gian Gastone de’ Medici (1737) a Filippo di Borbone, facendolo assegnare a Francesco Stefano di Lorena, marito di Maria Teresa. Tutti questi mutamenti avvennero per volontà delle grandi potenze, nessuna delle quali desiderava che alcuno degli Stati italiani fosse tanto forte da unificare la penisola.


Migliora la situazione politica italiana I mutamenti avvenuti tra gli Stati italiani risultarono vantaggiosi per gli abitanti della penisola. Il dominio dell’Austria a Milano fece riscoprire a quella città la sua vocazione industriale e commerciale; i Lorenesi a Firenze rianimarono nei toscani il gusto dell’azione intelligente; i Borbone nel sud e in Sicilia ebbero il merito di promuovere alcune riforme urgenti.


Il rovesciamento delle alleanze in Italia A partire dal rovesciamento delle alleanze (1756), l’antagonismo tra Francia e Austria venne meno e la conseguenza fu un lungo periodo di pace in Italia, durato dal 1748 al 1792, permettendo alla penisola un certo sviluppo.


Le vie di comunicazione La penetrazione austriaca in Italia fu agevolata dalla costruzione di alcune importanti strade carrozzabili: la strada del Brennero, tra Innsbruck e Bolzano, e la strada dell’Abetone tra Firenze e Modena. Più tardi le due strade furono collegate tra loro. Mantova divenne così il perno di un sistema di comunicazioni rimasto vitale fino al 1859. Importante anche la strada del Semmering che permise a Vienna di congiungersi con l’Adriatico, determinando il futuro di Trieste e, per simmetria, la fine dello sviluppo di Venezia.


Il dominio austriaco a Napoli Gli Austriaci entrarono in Napoli nel 1707. Per qualche anno vendettero titoli di nobiltà, cercando di penetrare nel ginepraio del diritto feudale vigente a Napoli. Nel 1734 un esercito spagnolo, sbarcato in Italia per attaccare da sud l’Austria nel corso della guerra di successione polacca, aiutò Carlo di Borbone a impadronirsi del regno di Napoli.


Carlo di Borbone Il nuovo re di Napoli obbediva ai genitori che dalla Spagna guidavano i suoi passi. Poiché la pirateria turca diminuì sensibilmente dopo il 1718, il regno di Napoli poté esportare le sue materie prime in Francia, soprattutto seta greggia, olio, vino e grano duro. Dalla Francia erano importati prodotti di lusso e macchinari.


Permanenza del regime feudale Nel sud d’Italia il regime feudale era ancora in pieno sviluppo. Ciò significava che la terra era posseduta, a vario titolo, da poche migliaia di nobili o dalla Chiesa o dal re (demanio). Spesso quelle terre erano sottoposte agli usi civici, ossia i contadini avevano il diritto di pascolo e di raccolta della legna, ossia i proprietari non avevano il diritto di recintarle, modificando il tradizionale metodo di sfruttamento. Ciò significa che se i nobili o gli enti ecclesiastici avessero avuto somme da investire in migliorie delle terre per aumentarne la produttività, non avrebbero potuto farlo perché su questa materia vigilavano i famosi avvocati del foro di Napoli.


La Chiesa perde il potere politico Il fatto nuovo del XVIII secolo era la debolezza della Chiesa come fattore politico: la cultura illuminista, anticlericale e antiecclesiastica, operò la saldatura tra monarchia e nobiltà uniti per attaccare la proprietà ecclesiastica. In questo contesto si inserì il caso clamoroso della soppressione dell’Ordine dei Gesuiti.


Scioglimento della Compagnia di Gesù Le corti borboniche fecero scattare gli accordi del patto di famiglia e insieme assediarono con le loro rimostranze il papa Clemente XIV, che nel 1773 decretò lo scioglimento dell’Ordine e la confisca dei beni immobili.


Giurisdizionalismo di Giuseppe II Su questa via si posero gli Absburgo d’Austria al tempo di Giuseppe II (1780-1790): il processo va sotto il nome di giurisdizionalismo, che significa la fine di ogni autonomia della Chiesa all’interno di ogni Stato. Sempre in questo contesto si spiega la soppressione del tribunale dell’Inquisizione e del privilegio del foro ecclesiastico, ossia un tribunale non statale per giudicare i crimini compiuti da ecclesiastici.


Nuovo concordato a Napoli Al tempo di Carlo di Borbone, nel 1741, fu firmato un concordato tra la Chiesa e lo Stato napoletano che toglieva l’immunità fiscale ai beni ecclesiastici, limitava il diritto d’asilo e l’estensione del privilegio di manomorta. Molti monasteri furono soppressi e il loro beni furono incamerati dallo Stato.


Fine del feudalesimo in Sicilia Carlo di Borbone promosse anche un’attiva politica antifeudale volta a sottrarre ai nobili il potere di amministrare la giustizia nel loro feudo e la facoltà di imporre pedaggi per chi vi transitava. Fu limitata anche la facoltà di armare truppe feudali e fu incoraggiata la possibilità di intentare cause legali contro i baroni da parte dei subordinati. Anche in Sicilia furono estesi questi provvedimenti, nonostante l’opposizione dei nobili.


Catasto e aumento della spesa pubblica Nel 1741 Carlo di Borbone ordinò il catasto dei beni immobili nel tentativo di mettere ordine nelle questioni finanziarie. Il catasto non fu rigoroso come quello di Milano perché fu effettuato sulla base di dichiarazioni dei proprietari. Nel complesso, nonostante l’aumento delle entrate statali, la situazione finanziaria rimase difficile per l’aumento delle spese pubbliche. Carlo di Borbone, infatti, ordinò la costruzione della reggia di Caserta, del palazzo di Capodimonte e del teatro San Carlo di Napoli che assorbirono molto denaro. Inoltre, lo Stato istituì esercito e marina che accrebbero il debito pubblico.


Carlo III di Spagna Nel 1759, in seguito alla morte del fratellastro Ferdinando VI, Carlo di Borbone fu elevato al trono di Spagna. A Napoli lasciò il secondogenito Ferdinando IV sotto la tutela di Bernardo Tanucci, un illuminista rimasto al potere fino al 1772 quando fu messo da parte dalla regina Maria Carolina. Dotata di temperamento straripante, fece compiere una rapida carriera al suo favorito lord Acton, stabilendo con gli illuministi di Napoli una feconda collaborazione.


Antonio Genovesi Tra i principali rappresentanti della cultura illuminista napoletana ci fu Antonio Genovesi (1712-1769), un filosofo ed economista cui si devono attribuire le riforme del regno di Napoli. Nel 1753 il Genovesi pubblicò il suo Discorso sopra alcuni trattati di agricoltura, che gli procurò la prima cattedra di economia politica eretta in Europa. Nella sua opera più importante di economia politica, Delle lezioni di commercio, del 1765, compare un’ottima analisi del meccanismo della domanda per la formazione dei prezzi e la comprensione della centralità del lavoro umano per produrre le merci da immettere sul mercato. Il suo pensiero è ancora mercantilistico, ma con ampie aperture sulla necessità di frenare il protezionismo statale, stimolando la libera concorrenza col compito di far migliorare la qualità delle merci e di limitare i prezzi.


Ferdinando Galiani Grande fama internazionale si guadagnò Ferdinando Galiani (1728-1787), dotato di eccezionale cultura umanista. Andò a Parigi come segretario d’ambasciata, accolto nei più importanti salotti letterari della città. Nel 1750 pubblicò il trattato Della moneta che ebbe il merito di sviluppare la teoria del valore di ogni merce adottando come parametri l’utilità e la rarità. In francese pubblicò i Dialogues sur le commerce des blés, in polemica con i fisiocratici, affermando che il commercio dei grani non poteva essere completamente libero, dovendo lo Stato, anche per motivi di ordine pubblico, assicurare ai poveri almeno il cibo essenziale.


Gaetano Filangieri Fama internazionale di teorico del diritto si guadagnò Gaetano Filangieri (1752-1788) che con la sua opera rese urgenti le riforme in campo economico, giuridico e religioso.


La scienza della legislazione Intorno al 1780, coi primi due libri della Scienza della legislazione, affrontò il problema di delimitare il campo d’azione del diritto e i principi dell’economia politica. In quei due volumi si rivelò un ardente riformatore e un deciso critico degli abusi del suo tempo. Notevole l’insistenza con cui chiede la libertà di commercio e l’abolizione del diritto feudale che impediva la creazione di nuovi beni.


Immobilismo napoletano Eppure, poche riforme furono effettuate perché il peso della tradizione e la resistenza passiva di tanti che avrebbero dovuto mutare le loro abitudini mentali furono più forti del manipolo di intelligenti teorici illusi di poter saltare le tappe intermedie di sviluppo della società meridionale.



8. 2 La Lombardia austriaca



Il più evoluto Stato italiano nel XVIII secolo era la Lombardia, ridotta dal trattato di Aquisgrana alle province di Milano, Como, Varese, Cremona (senza Crema ancora veneziana), Mantova e Pavia (senza l’Oltrepò e la Lomellina).


Ripresa dell’agricoltura lombarda Nel corso del secolo precedente erano decadute le attività commerciali e industriali: i capitali furono investiti nell’agricoltura rimasta immobile fin dai tempi dei Visconti e degli Sforza, a causa del forte prelievo fiscale e di una politica economica che inceppava la libera concorrenza. La dominazione austriaca, soprattutto nella seconda metà del secolo XVIII, contribuì, mediante l’efficienza e l’onestà della sua burocrazia, a rianimare lo spirito di intrapresa economica.


Caratteristiche della Lombardia La Lombardia si può dividere in tre fasce: la zona montana – abbastanza povera, con la proprietà della terra molto frazionata – produceva latticini, sfruttando d’estate l’alpeggio e d’inverno il fieno raccolti nei prati di fondovalle. Poi viene la fascia collinare formata da brughiere (Brianza) dove avvenivano crescenti investimenti di denaro per l’acquisto di piccoli poderi da parte di artigiani e liberi professionisti di Milano perché la produzione di bachi da seta era tornata remunerativa. Infine la pianura tra i bassi corsi dell’Adda e del Ticino, irrigata mediante l’acqua di quei due fiumi. Nella pianura prevaleva la grande proprietà, ossia fattorie (le cascine) abitate da famiglie di braccianti. Spesso le cascine erano prese in affitto da impresari agricoli che, con capitali propri o presi a prestito, praticavano l’agricoltura intensiva con produzione di derrate destinate al mercato. Si produceva soprattutto riso, frumento e granturco, e si allevava molto bestiame.


Aumenta la popolazione La richiesta di cibo da parte di una popolazione, che nel secolo XVIII non fu decimata da pestilenze, tenne alti i prezzi con beneficio di proprietari e affittuari. Si moltiplicarono le manifatture di lana e cotone, protette dal governo per favorire l’autosufficienza interna.


La politica economica di Maria Teresa Le corporazioni di arti e mestieri furono abolite nel 1787, quando minacciavano di soffocare il dinamismo dell’economia lombarda. Questo risultato non si doveva alla cultura illuminista, bensì all’intelligente politica economica di Maria Teresa che, per far fronte alle necessità finanziarie, non aumentò il prelievo fiscale, bensì stimolò la produzione mediante nuove aziende.


Le riforme di Giuseppe II Al tempo di Giuseppe II (1780-1790) prevalsero, invece, le riforme di struttura in senso autoritario e burocratico suscitando resistenze: questo fatto spiega perché ci furono tanti lombardi disposti ad accogliere le novità rivoluzionarie della Francia, e ad acclamare Napoleone come liberatore nel corso della campagna del 1796-97, seguita peraltro da disillusione perché Napoleone fece incetta di denaro, viveri e opere d’arte da spedire in Francia per tamponare le falle aperte nell’economia francese dagli sperperi rivoluzionari.


Il catasto di Maria Teresa La riforma più importante compiuta in Lombardia fu certamente il Censimento generale, ossia il catasto delle proprietà immobiliari, iniziato nel 1718, ma condotto a termine solo nel 1759 sotto la direzione del toscano Pompeo Neri. Il risultato più importante di quel catasto fu la rilevazione e la stima dei beni compiuta da un gruppo di tecnici onesti e competenti che indicarono il reddito effettivo dei terreni, fissando l’ammontare delle tasse. I proprietari furono invogliati a operare migliorie fondiarie per aumentare il reddito delle terre, perché le tasse non sarebbero aumentate.


Riforma fiscale Lo Stato recuperò anche i servizi di raccolta delle tasse. Al tempo del governo spagnolo le impellenti necessità di denaro avevano condotto alla vendita di uffici del dazio, di pedaggi di transito, di riscossione delle tasse indirette. Lo Stato riscattò quei servizi, li unificò semplificandoli, rendendo più spedita la circolazione interna delle merci.


Riduzione della proprietà ecclesiastica Anche in Lombardia la proprietà ecclesiastica fu ridotta, molti monasteri furono aboliti e alcuni ordini religiosi disciolti.


Riordino amministrativo Lo Stato fu diviso in province e comuni, considerati organi periferici dell’amministrazione centrale unitaria che risiedeva in Milano, città equiparata al resto del territorio perdendo molti privilegi.


Le riforme religiose Più complesso il discorso sulle riforme religiose. Maria Teresa non era propensa a misure punitive nei confronti della Chiesa cattolica, riconoscendole un’importante funzione sociale e culturale. Si rendeva conto che alcuni rami secchi dovevano cadere e che lo Stato stava acquistando le funzioni di mediatore di servizi sociali tra i vari gruppi di cittadini. Ciò comportava il dovere di assumere molte funzioni assistenziali come ospedali, scuole, ospizi fino a quel momento istituiti dalla Chiesa. Il problema in discussione era se solo lo Stato avesse il diritto-dovere di promuovere l’assistenza o se anche la Chiesa e altri gruppi sociali avessero quel diritto. Nel primo caso si doveva togliere alla Chiesa tutto il patrimonio – radunato nel corso di secoli mediante donazioni e affidamenti da parte dei fedeli – per promuovere scuole pubbliche a conduzione statale, ospedali ecc.


Le riforme religiose di Giuseppe II Maria Teresa non intendeva percorrere questa strada perché sarebbe stato compromesso il fondamento ideologico per giustificare l’espansione del suo impero nella Germania protestante, in Italia e nei Balcani liberati dal dominio turco. Quando nel 1780 Giuseppe II rimase da solo al potere cominciò a emanare una serie di provvedimenti contro la Chiesa, volti a sradicare non solo ogni influenza economica o culturale della Chiesa in seno alla società, ma anche a riformare la vita interna della Chiesa, la disciplina e l’organizzazione ecclesiastica, le cerimonie e i riti. Tali riforme furono sostenute da un gruppo di giansenisti presenti nell’università di Pavia; e in Toscana dove il vescovo di Pistoia Scipione de’ Ricci tentò di far approvare da una parte dell’episcopato toscano una serie di provvedimenti che alla lunga avrebbero distrutto l’unità della Chiesa cattolica.


Il Caffè La politica delle riforme in Lombardia incontrò l’approvazione e l’appoggio di un gruppo di illuministi, che per un paio d’anni pubblicarono una rivista battagliera, “Il Caffè”, e poi proseguirono l’attività di pubblicisti fino alla rivoluzione francese. Essi sono i fratelli Pietro e Alessandro Verri, Cesare Beccaria, Pompeo Neri, Gian Rinaldo Carli e qualche altro dei quali è opportuno tracciare un breve profilo.


Pietro Verri Il più noto e anche guida del gruppo fu Pietro Verri (1726-1797). Nel 1760, a Vienna, pubblicò gli Elementi di commercio proponendo la formazione di un mercato nazionale chiuso con libertà di movimento delle merci al suo interno. Tornato a Milano, Verri pubblicò una relazione Sul tributo del sale e un Saggio sulla grandezza e decadenza del commercio in Milano, opere con le quali si proponeva di rivitalizzare lo spirito di intrapresa commerciale che in altri tempi aveva fatto la grandezza della Lombardia. Nel 1761 fondò col fratello Alessandro, col Beccaria e con altri l’Accademia dei pugni, un centro di cultura cosmopolita e illuminista in polemica col classicismo dei letterati puristi che combattevano l’introduzione di parole nuove. Dal 1764 al 1766 uscì “Il Caffè”, un giornale che a ogni numero proponeva progetti di riforma, o conduceva battaglie contro le istituzioni del passato. Nel 1771 Pietro Verri pubblicò le Meditazioni sull’economia politica per combattere la tesi dei fisiocratici che i proprietari terrieri fossero una classe sterile perché non producevano direttamente alcun tipo di merce: in Lombardia, infatti, i proprietari terrieri conducevano la battaglia dei nuovi metodi di coltivazione della terra e accumulavano rendite da investire nella creazione di industrie. In quel momento occorreva la libertà di commercio per collocare nel modo più rapido i prodotti agricoli.


Il Verri filosofo Il Verri non ebbe le cariche politiche che s’aspettava e perciò riprese le sue pubblicazioni filosofiche: nell‘Indole del piacere sostenne che il piacere consiste nella mera cessazione del dolore; nelle Osservazioni sulla tortura sostenne l’inutilità di quel sistema di indagine criminale; nei Ricordi a mia figlia affermò la necessità di credere in Dio e nella Chiesa pur combattendo ciò che egli riteneva eccessi superstiziosi. Nel 1791 fu eletto decurione di Milano e l’arrivo di Napoleone sembrò ridare senso alle sue battaglie. Morì nel corso di una seduta municipale nel 1797.


Alessandro Verri Il fratello Alessandro Verri (1741-1816) fu più propriamente un letterato. Collaborò con le iniziative di Pietro fino a quando compì un viaggio a Londra e Parigi nel 1776, dopo il quale si stabilì a Roma.


Cesare Beccaria Il più noto degli illuministi lombardi fu Cesare Beccaria (1732-1794). Dopo il dottorato in diritto a Pavia, entrò in contatto con gli orientamenti culturali nuovi, accettando le idee degli enciclopedisti, di Montesquieu e di Rousseau. Fu uno dei fondatori dell’Accademia dei pugni, pubblicando articoli sul “Caffè”. Il suo scritto maggiore, letto in tutta Europa, ha per titolo Dei delitti e delle pene e fu composto nel giro di pochi mesi tra il 1763 e il 1764. Il diritto penale, alla metà del XVIII secolo, appariva barbaro e arretrato. Infatti non esisteva un vero e proprio codice penale, i magistrati avevano un ampio potere discrezionale, ricorrendo in misura eccessiva alla pena di morte, ma soprattutto non si comprendeva più a che cosa servisse la pena di morte. Se si toglie una funzione deterrente nei confronti dei potenziali criminali, la morte del reo, dice il Beccaria, non è utile alla società: più vantaggiosa, al contrario, la condanna ai lavori forzati che fornisce alla società lavoro gratuito di pubblica utilità. Il successo strepitoso dell’opera produsse l’invito a Parigi dell’autore, accolto trionfalmente, ma distrusse il sodalizio milanese perché Pietro Verri riteneva quell’opera frutto dello studio di tutti.


Gian Rinaldo Carli L’istriano Gian Rinaldo Carli (1720-1795), professore d’astronomia a Padova, giunse nel 1764 a Milano, accolto nel gruppo del “Caffè”. Esperto di problemi monetari, pubblicò un volume Delle monete e dell’istituzione delle zecche in Italia che non ha perduto tutto il suo valore.



8. 3 Il granducato di Toscana



Fino alla caduta dei Medici la Toscana aveva conosciuto un processo di conversione ad attività agricole della borghesia mercantile e bancaria, comune al resto d’Italia.


Primato dell’agricoltura All’inizio del XVIII secolo, la maggior parte delle terre coltivate in Toscana appartenevano ai nobili, alla famiglia dei Medici, all’Ordine religioso-cavalleresco di Santo Stefano, istituito da Cosimo I per difendere le coste toscane dai pirati. Le proprietà fondiarie di contadini e borghesi erano ridotte. La Toscana conobbe il grande sviluppo dell’istituto della mezzadria, un contratto agrario che prevede un proprietario che cede in uso un podere con la casa colonica, dividendo a metà col contadino le scorte vive, le spese di conduzione e il raccolto finale.


Il paesaggio agrario toscano Attualmente questo contratto agrario è ritenuto obsoleto dagli economisti, ma in passato ha avuto grande importanza nel configurare il paesaggio agrario della Toscana, anche sul piano estetico tra i più belli, composto di numerosi appezzamenti destinati all’olivo, alla vite, al frumento, su colli ingentiliti da cipressi in fila.


Bonifiche della pianura Anche in Toscana esistono pianure come la Val di Chiana, la piana di Pisa e la Maremma, ma quelle zone erano paludose, intristite dalla malaria e semispopolate. Fin dal tempo dei Medici c’erano stati tentativi di bonifica col metodo della colmata, ossia trasportare terra e scavare canali di drenaggio con pendenza sufficiente a far scorrere verso i fiumi le acque di ristagno.


I duchi di Lorena a Firenze Il primo duca di Lorena divenuto granduca di Toscana fu Francesco I (1737-1765), marito di Maria Teresa che fece governare la Toscana da un Consiglio di reggenza. Alla morte di Francesco I, andò a Firenze il secondogenito Pietro Leopoldo, fino al 1790, quando assunse il titolo imperiale a Vienna alla morte del fratello. Dopo un anno di reggenza, Leopoldo II nominò granduca di Toscana il secondogenito Ferdinando III; poi seguì il periodo napoleonico, durato fino al 1815, quando i Lorena di Toscana rientrarono in Firenze.


Pietro Leopoldo Il periodo di Pietro Leopoldo fu il più felice perché il futuro imperatore possedeva capacità politiche unite a equilibrio e prudenza. Per prima cosa fu instaurata la libertà di commercio dei cereali che rese più vantaggiosa la loro coltivazione. Poi, nel 1770, furono abolite le corporazioni di arti e mestieri in Firenze e, infine, si decise un provvedimento per uniformare l’amministrazione dello Stato.


Riforma degli enti locali Altra decisione di Pietro Leopoldo fu la riforma amministrativa degli enti locali (i comuni) a capo dei quali fu posto un gonfaloniere assistito da alcuni priori sorteggiati tra i possidenti del luogo, e da un consiglio generale comprendente i possidenti, i capifamiglia contadini e artigiani. I governi locali dovevano controllare i beni comunali, ripartire le imposte, curare il catasto, tenere in ordine le strade.


Equità della tassazione Fu stabilita un’imposta fondiaria per i proprietari e un’imposta personale per i coloni, ottenendo un obiettivo importante della tassazione, l’equità. Pietro Leopoldo progettò anche l’istituzione di assemblee provinciali e la convocazione di un parlamento statale, ma dopo l’inizio della rivoluzione francese quei progetti furono messi da parte.


La politica ecclesiastica Meno felice fu l’azione riformatrice di Pietro Leopoldo in campo ecclesiastico: non solo la limitazione della manomorta, l’abolizione dell’immunità fiscale degli enti ecclesiastici, l’abolizione dell’Inquisizione e la soppressione della Compagnia di Gesù, ma anche il tentativo di stampo giansenista di staccare la Chiesa di Toscana dalla dipendenza del papa.


Il sinodo di Pistoia Nel 1786, nella diocesi di Pistoia-Prato fu indetto un sinodo diocesano per preparare i lavori del concilio nazionale. Nel corso del sinodo fu proposto di riformare gli ordini religiosi e di abolirne alcuni, di semplificare il culto sopprimendo numerose feste e cerimonie, di vietare il culto delle reliquie. L’anno dopo i vescovi toscani riuniti a Firenze si dichiararono contrari a quelle innovazioni e a Prato scoppiarono tumulti popolari ostili alle novità. Pietro Leopoldo, di fronte all’inattesa resistenza di parte del clero e del popolo, lasciò cadere le riforme.


L’università di Pisa Pietro Leopoldo poté avvalersi di un gruppo di ministri e funzionari usciti dall’università di Pisa, rimasta nel XVIII secolo un importante centro culturale. La Toscana del XVIII secolo, soprattutto nelle città di Firenze, Pisa, Livorno, fu permeata dalle idee provenienti dalla Gran Bretagna, dalla Francia, dall’Olanda: la domanda di cultura è attestata dalla pubblicazione di due edizioni diverse dell’Enciclopedia.



8. 4 Il regno di Sardegna



Ben diverso ambiente si respirava nel regno di Sardegna, formato da due parti distinte: la Sardegna che dava il nome al regno, povera ma anche fiera delle sue tradizioni, e il Piemonte ingrandito dal Monferrato e dalla Lomellina fino al Ticino.


Caratteristiche del regno di Sardegna Lo Stato sabaudo differiva dagli altri Stati italiani per il fatto di derivare dall’unione di alcuni feudi militari e per il fatto di possedere la più antica casa regnante della penisola. Il Piemonte perciò presentava un carattere rurale e feudale con una nobiltà d’origine militare, non comunale o mercantile.


Aspetto rurale del Piemonte Le città erano piccole: solo Torino, Alessandria e Nizza avevano, verso il 1750, più di 15.000 abitanti, e perciò il ceto artigiano e mercantile era ridotto. Nel complesso la società piemontese appariva più arretrata di quella lombarda: le campagne producevano per il mercato più vicino con pochi scambi interni o internazionali. Ciò spiega perché in Piemonte non ci fu alcun movimento culturale paragonabile a quelli fioriti in altre parti d’Italia. Inoltre, la nobiltà perdette giurisdizione e diritti feudali più tardi che negli altri Stati italiani: la condizione dei contadini appariva più dura che altrove. Importanza crescente acquistavano la produzione di riso e di seta, esportata quest’ultima sotto forma di filati.


Assenza di riforme in Piemonte Non ci fu nel Piemonte del XVIII secolo alcun accenno di politica riformatrice di stampo illuminista. Le poche riforme attuate avevano carattere militare e burocratico, essenzialmente conservatore.


Vittorio Amedeo II Il regno di Vittorio Amedeo II (1684-1730) fu dominato dalla necessità di rimettere in parità il bilancio dopo le spese sostenute nella guerra di successione spagnola, quando Torino era stata assediata dall’esercito francese. Per reperire il denaro necessario, Vittorio Amedeo II promosse un’energica azione per limitare i privilegi feudali ed ecclesiastici, mediante la trasformazione dei feudi immuni (che non pagavano alcun tipo di imposta fondiaria) in feudi allodiali (sottoposti a imposta). Per portare a termine l’operazione fu eseguito in molte province il catasto generale.


Politica ecclesiastica Anche nei confronti della Chiesa cattolica furono applicati provvedimenti per indebolirne l’indipendenza: fu riorganizzata l’università di Torino, furono istituite alcune scuole statali, le opere di beneficenza furono sottoposte a controllo pubblico, fu favorita la diffusione di idee gianseniste, gallicane e regaliste. Nel 1727, un concordato con la Chiesa cattolica assicurò allo Stato piemontese il controllo del clero.


Ripresa dell’assolutismo regio Durante i regni di Carlo Emanuele III (1730-1773) e di Vittorio Amedeo III (1773-1796) l’assolutismo regio accrebbe il carattere burocratico e militare, per potenziare l’esercito, subordinare la nobiltà alla corte, controllando dal centro ogni aspetto della vita dello Stato.


Emigrazione degli intellettuali Questa operazione riuscì tanto bene che a Torino, nonostante la vicinanza della Francia, non arrivarono le idee che mettevano a soqquadro il resto d’Europa: gli intellettuali più irrequieti furono costretti a emigrare, come avvenne a Giuseppe Lagrange (1736-1813), professore di matematica nella scuola di artiglieria all’età di sedici anni, trasferito a Berlino e poi a Parigi dove rimase fino alla morte. Giuseppe Baretti (1719-1789) soggiornò a lungo in Inghilterra, Milano e Venezia, editore della “Frusta letteraria”, la rivista che col “Caffè” appariva la più aggressiva nei confronti della tradizione. Anche Vittorio Alfieri (1749-1803) lasciò il Piemonte: finì per stabilirsi a Firenze, scoprendo per primo le affinità tra Piemonte e Prussia.


Punti di forza del Piemonte Verso il 1790, quando si avvicinava la tempesta rivoluzionaria, il Piemonte rivelava alcuni punti forti rispetto agli altri Stati d’Italia, e alcuni punti deboli. Tra i primi l’esistenza di un esercito, composto in parte di piemontesi e in parte di mercenari, sicuramente il più affidabile tra quelli presenti in Italia, comandato da nobili spesso competenti e sempre devoti al sovrano; inoltre una buona diplomazia, avvezza a valutare realisticamente la difficile situazione dello Stato piemontese; infine una burocrazia, forse priva di idee geniali, ma onesta.


Fattori di debolezza del Piemonte Tra i punti deboli si può ricordare l’esiguità della borghesia e l’assenza di attività industriali e commerciali di vasto respiro; l’arretratezza dei contadini che nel corso del secolo avevano visto peggiorare la loro situazione.


Coinvolgimento nelle guerre europee Tra il 1792 e il 1796 il regno di Sardegna si trovò coinvolto nella coalizione europea contro la Francia rivoluzionaria, terminata con la pesante sconfitta inflitta da Napoleone, con cessione di Nizza e Savoia alla Francia, mentre il resto del Piemonte era ridotto a Stato satellite. La famiglia reale poté rifugiarsi a Cagliari difesa dalla flotta britannica.



8. 5 La Spagna da Filippo V a Carlo III



Se ci spostiamo sull’altra grande penisola del Mediterraneo, in Spagna e Portogallo, troviamo fermenti analoghi a quelli esistenti in Italia. Il cambio di dinastia avvenuto in Spagna con l’arrivo dei Borbone restituì al paese una guida politica assente da molto tempo.


Progressi della Spagna nel XVIII secolo Nell’anno 1700 la Spagna aveva un esercito di soli 20.000 uomini, una flotta di 20 navi malconce, il tesoro vuoto e una popolazione ridotta a circa 5 milioni e mezzo di abitanti. Un secolo dopo l’esercito contava circa 100.000 uomini, la flotta aveva 300 navi e il tesoro vantava una riserva di circa 650 milioni di reali, mentre la popolazione superava i 10 milioni e mezzo di abitanti. Per di più, il governo era riuscito a impostare una vivace politica estera che permise di collocare sui troni di Napoli e di Parma due principi spagnoli.


Filippo V Filippo V aveva condotto al suo seguito numerosi funzionari francesi formati alla scuola del Colbert. Costoro attuarono alcune riforme per fare economie di bilancio abolendo uffici e sinecure. Soprattutto cercarono che le tasse risultassero meglio ripartite tra i contribuenti.


Secondo matrimonio di Filippo V Nel 1714 Filippo V, perduta la prima moglie, si risposò con Elisabetta Farnese che se non fu sovrana riformatrice, fu tuttavia dotata di energia, volta a procurare un regno ai propri figli Carlo e Filippo, essendo la Spagna destinata a Ferdinando, primogenito di Filippo V.


Giulio Alberoni Guida politica di Elisabetta Farnese fu il cardinale Giulio Alberoni, che comprese i vantaggi derivanti da un’amministrazione accentrata. Alberoni incoraggiò il commercio, introducendo un sistema doganale che doveva sbarrare la strada ai prodotti stranieri, permettendo lo sviluppo della produzione nazionale. Furono invitati dall’estero artigiani, esentati dai tributi, ma soprattutto fu ricostruita una grande flotta. Quella flotta non fu fortunata perché mentre si trovava in Sicilia nel tentativo di riconquistarla, ricevette l’ordine di autoaffondarsi, evitando una nuova guerra europea contro la Spagna: nel 1719 l’Alberoni dovette dimettersi.


Ripresa politica e coloniale della Spagna Nel 1732 la flotta spagnola conquistò Orano in Algeria. Dall’America giungevano regolarmente le rimesse di denaro che permisero a Filippo V di costruire ad Aranjuez una replica di Versailles. Nel 1734 un esercito spagnolo sconfisse gli austriaci in Italia e portò a Napoli il primogenito di Elisabetta Farnese, Carlo; più tardi, nel 1748 il secondogenito Filippo ebbe un proprio Stato in Parma.


Ferdinando VI Nel 1746, quando Filippo V morì, Elisabetta Farnese dovette lasciare il potere: salì al trono Ferdinando VI, un uomo apatico, senza un programma di governo. La politica estera della Spagna fu guidata da José de Carvajal, che intendeva sfruttare le ricchezze dell’America meridionale per attuare l’industrializzazione della Spagna. Il Carvajal ebbe di mira la conservazione dell’equilibrio europeo, alleandosi col Portogallo e con la Gran Bretagna: nel 1750 fu stipulato un nuovo trattato di commercio col governo britannico.


Carlo III re di Spagna Ferdinando VI morì senza figli. La successione al trono spettava perciò al fratellastro Carlo di Borbone che lasciò Napoli divenendo re di Spagna col nome di Carlo III. Il nuovo re aveva compiuto un buon apprendistato a Napoli: non aveva un’intelligenza acuta, tuttavia sapeva scegliere i collaboratori.


I collaboratori di Carlo III Portò con sé dall’Italia il marchese di Squillace, nominandolo ministro degli esteri. Quando si accorse che la gelosia degli Spagnoli poteva danneggiarlo, provvide alla nomina di alcune personalità locali.


Moderato riformismo di Carlo III Il fine del nuovo governo era di dare soluzione ai problemi amministrativi, sociali ed economici del paese. Sorsero un po’ ovunque nella Spagna società per il commercio, l’industria, l’agricoltura. Il governo puntava a un deciso assolutismo, sperando di imporre dall’alto le riforme necessarie per riportare la Spagna alla sua passata grandezza.


Resistenza contro le riforme Tuttavia, queste riforme volute dall’alto suscitarono proteste: in particolare la presenza di stranieri alle cariche più importanti scatenò alcuni gruppi influenti. Il tentativo del marchese di Squillace di rimettere in vigore una vecchia legge che vietava di circolare per le strade della capitale indossando il cappello a larghe tese e un lungo mantello, suscitò in Madrid una vera e propria sommossa nel 1766, la cui responsabilità fu addossata ai Gesuiti.


Politica ecclesiastica di Carlo III Carlo III approfittò dei disordini per calmare l’opinione pubblica e per liberarsi di un potere autonomo rispetto alla monarchia. La Chiesa cattolica era stata costretta, nel concordato del 1753, a cedere alla monarchia il controllo della gerarchia spagnola posta alla testa di un clero numeroso e di un patrimonio giudicato immenso. Gli economisti del tempo ritenevano quel patrimonio mal amministrato. I vescovi spagnoli erano persone degne, ma ciascuno doveva la sua nomina al sovrano ed era convinto che il re avesse il diritto di intervento negli affari ecclesiastici. I Gesuiti furono osteggiati anche all’interno della Chiesa spagnola, perché la loro direzione generale si trovava fuori di Spagna: si pensava che avessero un peso eccessivo all’interno delle istituzioni educative del paese.


Espulsione dei Gesuiti Il governo preferì ignorare la componente di malcontento dovuta alle riforme e volle rafforzare l’assolutismo regio attribuendo la responsabilità dei disordini del 1766 all’Ordine dei Gesuiti in quanto tale. Il conte di Aranda fu incaricato dell’inchiesta ufficiale sull’Ordine, accusato di “spirito fanatico e sedizioso”, divenuto “una vera e propria fazione che porta scompiglio nella vita dello Stato in quanto difende interessi che contrastano nel modo più assoluto col benessere pubblico”. I Gesuiti furono giudicati colpevoli dei tumulti e condannati. Il 27 febbraio 1767 essi furono espulsi dalla Spagna e dalle colonie, come era avvenuto in Portogallo nel 1759 e in Francia nel 1762. Nessuno doveva commentare la sentenza: ottomila gesuiti, portando con sé l’indispensabile, dovettero abbandonare la Spagna e l’America. Quando nel 1769 il papa Clemente XIII chiese al clero spagnolo la sua opinione sul provvedimento, la maggioranza dei vescovi rispose che esso era opportuno e giusto.


Scioglimento dell’Ordine dei Gesuiti I Gesuiti che abbandonarono la Spagna poterono rifugiarsi solo nello Stato della Chiesa e in pochi altri paesi europei come Prussia e Russia, creando al papa non piccoli problemi economici e politici. A Clemente XIII successe il cardinale Ganganelli col nome di Clemente XIV: le pressioni delle corti borboniche lo indussero, nel 1773, a sciogliere l’Ordine in tutto il mondo. L’ambasciatore spagnolo a Roma che conseguì tale successo era José Moñino, più tardi ricompensato col titolo di conte di Floridablanca. Le proprietà dei Gesuiti furono requisite dagli Stati e utilizzate per creare un sistema di scuole pubbliche statali.


Fine delle autonomie regionali. Dopo la repressione dei tumulti del 1766 e dopo l’espulsione dei Gesuiti, con più prudenza il governo si impegnò nell’attuazione di riforme interne. Furono aboliti i privilegi politici degli antichi regni d’Aragona, Catalogna e di Valencia; l’autorità delle Cortes fu limitata all’attività giudiziaria.


Il rilancio dell’economia Il compito più importante del governo di Carlo III fu il rilancio dell’economia spagnola. In primo luogo l’agricoltura, decaduta in passato e ora sollecitata dalla richiesta di cibo per nutrire la crescente popolazione.


La Mesta dei pastori In Spagna esisteva la potente corporazione degli allevatori di pecore, la Mesta che aveva acquisito diritti di pascolo e di transito lungo una fascia larga un centinaio di chilometri tra l’altopiano di Castiglia e l’Andalusia, dove le pecore svernavano. I proprietari dei terreni compresi in quella fascia di transito non potevano recintare i loro campi e adibirli a coltivazioni più remunerative. La Mesta non fu soppressa ma i terreni a pascolo furono ridotti, concedendo ai proprietari che lo desiderassero la facoltà di recintare i terreni.


La proprietà dei nobili e della Chiesa In tutto il paese, la proprietà di nobili ed enti ecclesiastici era estesa, ma in genere nobiltà e clero non avevano mezzi finanziari da investire in migliorie agrarie: toccava al governo prendere le misure legislative per trasformare il regime di proprietà della terra in modo da permettere l’aumento della produttività.


Provvedimenti per l’agricoltura In primo luogo furono proibiti gli sfratti nei contratti a breve termine tra proprietari e contadini. In qualche provincia le terre comunali furono date in affitto a canoni bassi per favorire contadini nullatenenti. Dal 1765 il calmiere del grano fu abolito.


Liberalizzazione del commercio Maggiore successo ebbero i provvedimenti a favore dell’industria e del commercio con le colonie. Tutti i porti della Spagna furono aperti al commercio con le colonie senza l’obbligo di passare attraverso la Casa de contratación di Siviglia: in particolare a Barcellona fiorirono le industrie tessili perché ora le tele si potevano esportare direttamente.


Provvedimenti per l’industria Il governo di Carlo III non puntò sulle manifatture di Stato che pure furono potenziate, bensì favorì la creazione di industrie private mediante una politica di protezionismo doganale che difendeva la produzione nazionale.


Perequazione delle tasse La Castiglia continuava a pagare più tasse delle altre regioni: il governo decise di sacrificare una parte delle sue entrate purché si sviluppasse anche in Castiglia l’industria. Infine, alcune buone strade abbassarono i costi di trasporto delle merci interne.


Progresso delle regioni costiere Le regioni costiere progredirono più rapidamente: dalla regione di Valencia si esportava seta di ottima qualità. Nelle Province Basche aumentò la produzione siderurgica. In Catalogna l’industria cotoniera fece progressi da gigante. La Spagna, alla fine del XVIII secolo poteva competere sul mercato interno con la Francia e con la Gran Bretagna, e si preparava a conquistare alcune fette di mercato estero.



8. 6 La politica coloniale spagnola



Lo sviluppo economico della Spagna fu collegato dal governo di Carlo III alla difesa del suo impero coloniale, assediato dalla vitalità commerciale della Gran Bretagna.


La Spagna nella guerra dei Sette anni Il desiderio di difendere le colonie spagnole d’America favorì l’alleanza della Spagna con la Francia impegnata nella guerra dei Sette anni, sperando in una sconfitta della Gran Bretagna. Fu un errore politico perché la Spagna non aveva forze adeguate.


Conseguenze della sconfitta militare Con la pace di Parigi del 1763 la Spagna dovette tollerare il taglio del legno di campeggio, dal quale si ricavava un materiale colorante, nell’Honduras; rinunciò ai diritti di pesca al largo di Terranova e infine cedette la Florida. La Gran Bretagna restituì le basi dell’Avana (Cuba) e di Manila (Filippine), mentre la Francia cedette alla sua alleata la Luisiana, ossia una difficile frontiera da difendere contro l’invadenza dei coloni nordamericani.


La rivoluzione americana e la Spagna Quando scoppiò il conflitto tra la Gran Bretagna e i coloni delle Tredici colonie, la Spagna provò acutissima la tentazione di rifarsi a spese dell’avversaria. Si profilò la possibilità di un intervento diretto contro gli Inglesi in America, ma i timori di un successo britannico consigliarono di inviare solo aiuti segreti ai ribelli, offrendo la mediazione del conflitto nel 1779. Infatti, la completa vittoria dei ribelli poteva risultare un precedente per le colonie spagnole: non conveniva sbilanciarsi troppo a favore di una delle parti. Al termine del conflitto americano, la Spagna riacquistò la Florida, ma non poté espugnare la rocca di Gibilterra. Più fortunata la spedizione nell’isola di Minorca conquistata nel 1782.


Le spese della guerra A conti fatti, l’intervento in guerra comportò notevoli successi politici, ma dal punto di vista economico la guerra risultò un disastro perché le somme spese furono sottratte a investimenti più fruttuosi. Gran parte della flotta era andata perduta e anche questa circostanza fece accelerare l’inflazione.


La successione di Carlo III Nel 1788 Carlo III morì: il paese aveva conosciuto una spettacolare ripresa politica, economica e culturale, e sarebbe bastato proseguire nella stessa direzione, ma due fatti si opposero: la personalità debole del nuovo re Carlo IV, in balia della moglie Maria Luisa di Parma, e del suo favorito, il capitano della guardia Manuel Godoy. L’altro evento fu la rivoluzione francese che tolse ai ministri spagnoli il desiderio di proseguire sulla via delle riforme, se la rivoluzione politica ne era il naturale epilogo. Nel 1792, la deposizione di Luigi XVI e l’arresto della famiglia reale indussero la Spagna ad aderire alla prima coalizione antifrancese: Godoy fu primo ministro. La nazione lo seguì e la guerra, durata dal 1793 al 1795, assunse carattere patriottico a difesa dell’identità nazionale, un fatto che stupì le armate rivoluzionarie francesi, deluse di non incontrare l’accoglienza riservata ai liberatori.



8. 7 Cronologia essenziale



1734 Carlo di Borbone, figlio di Filippo V e di Elisabetta Farnese, è re di Napoli.


1737 Muore Gian Gastone de’ Medici. Il granducato di Toscana è assegnato a Francesco Stefano di Lorena.


1748 Filippo di Borbone, fratello di Carlo, è duca di Parma.


1756 Francia e Austria si avvicinano a seguito dell’alleanza tra Gran Bretagna e Prussia. Per l’Italia si apre un lungo periodo di pace.


1759 Alla morte di Ferdinando VI di Spagna gli succede il fratellastro Carlo III.


1761 Pietro Verri fonda a Milano l’Accademia dei pugni.


1764 Inizia a Milano la pubblicazione del “Caffè”. Cesare Beccaria pubblica Dei delitti e delle pene.


1765 Pietro Leopoldo inizia le riforme in Toscana fino alla sua assunzione al trono di Vienna.


1766 Rivolta di Madrid contro le riforme di Carlo III. La responsabilità degli incidenti è attribuita ai Gesuiti.


1767 I Gesuiti sono espulsi dalla Spagna e dalle colonie spagnole.


1788 Muore Carlo III di Spagna.



8. 8 Il documento storico



La nascita di una nuova rivista coincide spesso con un programma di rinnovamento culturale. Il gruppo milanese guidato da Pietro Verri prese come riferimento il giornalismo inglese di Steele e Addison, e la vivace pubblicistica francese confluita nel progetto dell’Enciclopedia. La pagina che segue riporta il programma e gli intenti del Caffè nei modi spigliati e antiretorici dei riformatori lombardi.



“Cos’è questo Caffè? È un foglio di stampa, che si pubblicherà ogni dieci giorni. Che cosa conterrà questo foglio di stampa? Cose varie, cose disparatissime, cose inedite, cose fatte da diversi Autori, cose tutte dirette alla pubblica utilità. Va bene: ma con quale stile saranno eglino scritti questi fogli? Con ogni stile, che non annoi. E sin a quando fate voi conto di continuare quest’Opera? Insin a tanto, che avranno spaccio. Se il Pubblico si determina a leggerli, noi continueremo per un anno, e per più ancora, e in fine d’ogni anno dei trentasei fogli se ne farà un tomo di mole discreta: se poi il Pubblico non li legge la nostra fatica sarebbe inutile, perciò ci fermeremo anche al quarto, anche al terzo foglio di stampa. Qual fine vi ha fatto nascere un tal progetto? Il fine d’una aggradevole occupazione per noi, il fine di far quel bene, che possiamo alla nostra Patria, il fine di spargere delle utili cognizioni fra i nostri Cittadini, divertendoli, come già altrove fecero e Steele, e Swift, e Addison, e Pope, ed altri. Ma perché chiamate questi fogli il Caffè? Ve lo dirò; ma andiamo a capo.


Un Greco originario di Citera, Isoletta riposta fra la Morea e Candia, mal soffrendo l’avvilimento e la schiavitù, in cui i Greci tutti vengon tenuti dacché gli Ottomani hanno conquistata quella Contrada, e conservando un animo antico malgrado l’educazione e gli esempi, sono già tre anni che si risolvette d’abbandonare il suo paese: egli girò per diverse Città commercianti, da noi dette le scale del Levante; egli vide le coste del Mar Rosso, e molto si trattenne in Mocha, dove cambiò parte delle sue merci in Caffè del più squisito che dare si possa al mondo; indi prese il partito di stabilirsi in Italia, e da Livorno sen venne in Milano, dove già son tre mesi che ha aperta una bottega addobbata con ricchezza ed eleganza somma. In essa bottega primieramente si beve un Caffè, che merita il nome veramente di Caffè: Caffè vero verissimo di Levante, e profumato col legno d’Aloe, che chiunque lo prova, quand’anche fosse l’uomo più grave, l’uomo più plombeo della terra, bisogna che per necessità si risvegli, e almeno per una mezz’ora diventi uomo ragionevole. In essa bottega vi sono comodi sedili, vi si respira un’aria sempre tepida e profumata che consola; la notte è illuminata, cosicché brilla in ogni parte l’iride negli specchi e ne’ cristalli intorno alle pareti, e in mezzo alla bottega; in essa bottega, chi vuol leggere, trova sempre i fogli di Novelle Politiche, e quei di Colonia, e quei di Sciaffusa, e quei di Lugano, e vari altri; in essa bottega, chi vuol leggere, trova per suo uso e il Giornale Enciclopedico, e l’Estratto della Letteratura Europea, e simili buone raccolte di Novelle interessanti, le quali fanno che gli uomini che in prima erano Romani, Fiorentini, Genovesi o Lombardi, ora siano tutti presso a poco Europei: in essa bottega v’è di più un buon Atlante che decide le questioni che nascono nelle nuove Politiche; in essa bottega per fine si radunano alcuni uomini, altri ragionevoli, altri irragionevoli, si discorre, si parla, si scherza, si fa sul serio; ed io, che per naturale inclinazione parlo poco, mi son compiaciuto di registrare tutte le scene interessanti; e siccome mi trovo d’averne già messi in ordine vari, così li dò alle stampe col titolo Il Caffè, poiché appunto son nati in una bottega di Caffè”.



Fonte: Il Caffè, Tomo I, n. 1, Milano 1764.



8. 9 In biblioteca



Per la fine dei Medici di Toscana è di grande interesse il libro di H. ACTON, Gli ultimi Medici, Einaudi, Torino 1962. Utile di C. COSTANTINI, Gli Stati italiani nell’età moderna, Utet, Torino 1978. Per la Lombardia austriaca si consulti di S. CUCCIA, La Lombardia alla fine dell’Ancien Régime, la Nuova Italia, Firenze 1971. Inoltre di C. MAZZARELLI, Sovrano, società e amministrazione locale nella Lombardia teresiana, il Mulino, Bologna 1982. Per il regno di Napoli: G. GALASSO, Il Mezzogiorno nella storia d’Italia, Le Monnier, Firenze 1977. Di estremo interesse il volume di H. ACTON, I Borboni di Napoli (1734-1825), Martello, Milano 1962. Per comprendere i problemi della Sicilia notevole il libro di E. PONTIERI, Il tramonto del baronaggio siciliano, Sansoni, Firenze 1943. Per l’opera di Pietro Leopoldo si legga di A. WANDRUSKA, Pietro Leopoldo. Un grande riformatore, Vallecchi, Firenze 1968. F. DIAZ, Il granducato di Toscana, Utet, Torino 1956. Per i problemi religiosi si consulti di A. PRANDI, Religiosità e cultura nel ‘700 italiano, il Mulino, Bologna 1966. Per un inquadramento generale delle questioni agrarie si legga di B.H. SCHLICHER VAN BATH, Storia agraria dell’Europa occidentale (500-1500), Einaudi, Torino 1972.