IL LAVORO UMANO (24)

…DIRITTI CONNESSI CON IL LAVORO DELL’UOMO. Nozione, natura e fine del lavoro economico. Diritto al lavoro. Il contratto di lavoro. Partecipazione ai frutti del lavoro da parte dei lavoratori. Sciopero. Sindacato e difesa del lavoro. Le questioni del lavoro e la Chiesa. Lavoro e ambiente….

Trattato di Teologia morale


PARTE III


I DOVERI DELL’UOMO NEI SUOI RAPPORTI CON IL PROSSIMO


 


2. DIRITTI E DOVERI INDIVIDUALI – DIRITTI NATURALI


 


V.   DIRITTI CONNESSI CON IL LAVORO DELL’UOMO (140).


 


1. Nozione, natura e fine del lavoro economico.


In senso esteso si chiama lavoro ogni sforzo sia fisico, sia morale, sia intellettuale, che si esercita per produrre qualche cosa. In tal senso non solo degli uomini, ma anche degli animali si dice che lavorano. Anzi metaforicamente il lavoro si attribuisce anche agli strumenti o mezzi con cui si opera. E questa definizione astrae dalla natura e dal fine del prodotto del lavoro, sia che venga fatto allo scopo di riposare l’animo del lavoratore come nel giuoco, sia che sia ispirato al guadagno economico che se ne ritrae.


In senso più ristretto il vocabolo viene preso nel senso economico. In questo senso il lavoro si può definire: l’attività dell’uomo sulle cose esteriori, per ritrarne una certa utilità economica. L’utilità economica consiste nel fatto che la cosa prodotta, da valutarsi nel prezzo, si può scambiare con altra. Qui prendiamo il lavoro in questo senso (141).


Il lavoro, sebbene arduo, e spesso imposto all’umana debolezza per le necessità della vita, non esiste solo perché ne sopportiamo il peso, ma anche perché ci evolviamo, perché possiamo rinnovare con forma più perfetta le cose create, perché possiamo adattare le cose, varie per utilità, ad una migliore corrispondenza alle umane necessità, e ad un migliore ordinamento verso Dio.


Nella teologia della Genesi all’uomo sottoposto alla prova era stato dato l’ufficio di lavorare, come un piacere, senza alcun peso (Gen. 2,15).


Quello che l’uomo aveva ricevuto, come un godimento, una volta spogliato dal peccato delle sue prerogative preternaturali, si cambiò in pena ed in peso, data la debolezza sopravvenuta nella condizione anche naturale dell’uomo (142). Tuttavia il lavoro non perdette la sua forza creatrice, e le sua dura legge dal fedele servitore di Dio fu accolta come un umile riconoscimento del dominio del Creatore e come uno strumento a servizio di se stesso, dei suoi cari e dell’intera società.


Né Cristo rigettò questo lavoro, che anzi lo inculcò (143) e con le proprie mani in esercizio di lavoro, il più pesante, lo consacrò e colla abbondanza della sua grazia l’arricchì del merito. All’esempio ed all’insegnamento di Cristo fece eco l’esempio e l’insegnamento apostolico (144). Perciò il cristiano compie il lavoro produttivo e ne accetta il peso con spirito soprannaturale, come mezzo per riconoscere Dio come suo Signore e per servire sé e gli altri nella giustizia e nella carità.


Ciò premesso, anche se nelle parole della Genesi (3, 17-18) si debba riscontrare non tanto un vero e proprio precetto ad operare, quanto una dura necessità, appare chiaro che all’uomo incombe per diritto di natura, il dovere di lavorare, finché però rientra nel fine del precetto. Fine principale del precetto del lavoro è quello di procacciarsi i mezzi per il sostentamento della propria vita, della vita dei propri congiunti o della società in cui si vive. Quando questo fine non può essere raggiunto, soprattutto nell’ambito individuale e familiare, senza il lavoro, allora il lavoro diventa un obbligo individuale, perché altrimenti si verrebbe meno o alla carità verso se stessi o alla pietà verso i propri congiunti o anche ai doveri di giustizia legale. Fuori di questa stretta connessione per il raggiungimento del fine, non sussiste per sé obbligo grave (145). L’obbligo però, per quanto non facilmente grave, può sorgere da un complesso di altre circostanze. Il lavoro ha anche soprattutto nella vita odierna, un valore sociale, un valore morale, un valore educativo ed ascetico (ci toglie dall’ozio, sempre pericoloso nella vita spirituale e morale!), un valore di carità e di aiuto scambievole.


Così si comprende come il lavoro possa divenire facilmente per l’uomo un dovere. Se il lavoro è ordinariamente un dovere, poiché ad ogni dovere risponde un diritto, dovrà esistere anche un diritto al lavoro.



2.  Diritto al lavoro (146).


Ci si può tuttavia domandare se questo diritto è da intendersi piuttosto in senso negativo, nel senso cioè che quand’uno ha la possibilità di lavorare, non gli si possa impedire di lavorare e che gli si debba lasciare libera la determinazione di tempo, di luogo, di modo, finché tutto ciò non venga in contrasto con le esigenze del bene comune (diritto di lavoro); oppure questo diritto debba intendersi pure in senso positivo, nel senso cioè che quand’uno, pur avendo capacità e volontà di lavorare, si trovi senza sua colpa costretto all’inazione, la società abbia l’obbligo di aprirgli un campo di lavoro (diritto al lavoro). In generale si è inclini ad ammettere un tale diritto non però di giustizia commutativa nei confronti della società o dei singoli, perché altrimenti ne seguirebbe diritto all’indennizzo, qualora il diritto non venisse soddisfatto; ma di giustizia distributiva da una parte e legale dall’altra (147). La società infatti, avendo il dovere di promuovere il bene comune, ha anche quello di ridurre i mali sociali, tra cui non ultimo è quello della disoccupazione, specialmente quando questa raggiunge notevoli proporzioni. Difficile ne è la concretizzazione; ma la meta è questa: eliminare la disoccupazione o, almeno, alleggerire i pesi di chi ne è vittima.



3. Il contratto di lavoro.


Essendo l’uomo padrone delle proprie azioni sia dell’anima che del corpo, in base allo stesso diritto naturale è padrone anche dei frutti, che produce con il suo lavoro.


Ma per questo si richiede: a) che agisca in nome proprio, vale a dire che non ci sia nessun fatto e principalmente alcun contratto, in forza del quale i frutti del lavoro siano legati ad un terzo; b) che lavori su di una cosa propria o su di una cosa di nessuno.


Il contratto di locazione-conduzione di lavoro è quindi legittimo. Infatti l’attività umana appartiene di pieno diritto all’uomo medesimo, il quale perciò può disporne come meglio crede, anche cedendola ad altri.


Il lavoro umano supera di gran lunga l’ordine economico. Se si considera come azione umana, tuttavia, il lavoro si può considerare anche unicamente come producente una utilità economica, e sotto questo aspetto può essere oggetto di contratto, può offrirsi come mercé e si può pattuire una congrua mercede. La legittimità di questo contratto, con cui l’opera umana è data in cambio di un utile economico, è approvata, entro i limiti di una giusta pattuizione, dalla pratica universale e chiaramente dal consenso dei teologi, e tutto ciò è supposto chiaramente nelle encicliche Rerum Novarum, Quadragesima anno, Mater et magistra, Pacem in terris, Octogesima adveniens.


Essendo l’uomo padrone dei propri atti e del suo lavoro, può disporne come vuole, anche affittandolo ad un terzo. Colui che affitta ad altri le sue forze spirituali o corporali, e lavora in servizio di altri, cede a questi il diritto sui frutti del suo lavoro.


D’altra parte però ha il diritto di esigere una giusta remunerazione del suo lavoro: ecco allora il problema del salario, della cogestione ecc. Le obbligazioni infatti sorte da tale contratto tanto per l’uomo che riveste la figura di imprenditore, come per colui che presta il suo lavoro sono vere obbligazioni di giustizia con tutte le conseguenze di restituzione, di legittima tutela dei propri interessi: ecco allora il problema dello sciopero ecc.


Si deve tuttavia osservare che tale contratto riveste una speciale natura, dato che l’opera umana non è una mercé qualsiasi, ma porta con sé qualche cosa della umana dignità, e perciò il contratto di lavoro deve essere retto da leggi più umane di quelle che governano le cose puramente commerciali.


Innanzitutto non si può considerare il lavoro solo come mercé, prescindendo da qualsiasi altra considerazione (148). Da ciò l’esigenza di un orario ragionevole, di un riposo proporzionato, di una adeguata tutela delle donne e dei fanciulli, di precauzioni morali, igieniche, ecc. e di una adeguata legislazione sociale a tutela soprattutto della parte più debole nella concretizzazione del contratto di lavoro. Il lavoro umano, che viene svolto per produrre e per scambiare beni e per mettere a disposizione servizi economici – avverte il Concilio ecumenico Vaticano II – è di valore superiore agli altri elementi della vita economica, poiché questi hanno solo natura di mezzo.


Tale lavoro infatti, sia svolto indipendentemente che subordinatamente da altri, procede immediatamente dalla persona la quale imprime nella natura quasi il sigillo e la sottomette alla volontà. Con il lavoro, l’uomo abitualmente provvede alle condizioni di vita proprie e dei suoi familiari, comunica con gli altri e rende servizio agli uomini suoi fratelli, può praticare una vera carità e collaborare con la propria attività al completarsi della divina creazione. Ancor più: sappiamo per fede che, offrendo a Dio il proprio lavoro, l’uomo si associa all’opera stessa redentiva di Cristo, il quale ha conferito al lavoro, una elevatissima dignità, lavorando con le proprie mani a Nazareth. Di qui discendono, per ciascun uomo, e il dovere di lavorare fedelmente e il diritto al lavoro, corrispondentemente è compito della società, in rapporto alle condizioni in essa esistenti, aiutare per sua parte i cittadini affinché possano trovare sufficiente occupazione. Inoltre il lavoro va remunerato in modo tale da garantire i mezzi sufficienti per permettere al singolo e alla sua famiglia una vita dignitosa su un piano materiale, sociale, culturale e spirituale, corrispondentemente al tipo di attività e grado di rendimento economico di ciascuno nonché alle condizioni dell’impresa e al bene comune.


Poiché l’attività economica è per lo più realizzata in gruppi produttivi in cui si uniscono molti uomini, è ingiusto ed inumano organizzarla con strutture ed ordinamenti che siano a danno di chiunque vi operi. Troppo spesso avviene invece, anche nei nostri giorni, che i lavoratori siano in un certo senso asserviti alla propria attività. Ciò non trova assolutamente giustificazione nelle così dette leggi economiche. Occorre dunque adattare tutto il processo produttivo alle esigenze della persona e alle sue forme di vita; innanzitutto della sua vita domestica, particolarmente in relazione alle madri di famiglia, sempre tenendo conto del sesso e dell’età di ciascuno.


Ai lavoratori va assicurata inoltre la possibilità di sviluppare le loro qualità! e di esprimere la loro personalità nell’esercizio stesso del lavoro. Pur applicando a tale attività di lavoro con doverosa responsabilità, tempo ed energie, tutti i lavoratori debbono però godere di sufficiente riposo e tempo libero che permetta loro di curare la vita familiare, culturale, sociale e religiosa. Anzi debbono avere la possibilità di dedicarsi ad attività libere che sviluppino quelle energie e capacità, che non hanno forse modo di coltivare nel loro lavoro professionale ” (149).


La via da seguire per l’attuazione di questi principi non è la rivoluzione, ma la cristianizzazione degli individui e della società (150), che avvia verso una concorde evoluzione dei sistemi sociali per una umanizzazione del lavoro (151).


Tutti questi diritti e obblighi non possono esser violati senza violare la giustizia sia da parte dei datori di lavoro, sia da parte dei lavoratori che debbono astenersi da ciò che potrebbe solamente nuocere al datore di lavoro; dalla violenza e da ingiuste sedizioni.


Allo stato attuale occorre inculcare al capitale come al lavoro il senso della collaborazione. Ciò potrà essere fatto per una realizzazione progressiva e continua, regolando le varie fasi per le necessarie trasformazioni d’ordine strutturale, la formazione umana, professionale, morale e sociale di coloro che saranno chiamati a collaborare nella pace e a dividersi concordemente le responsabilità. L’imprenditore come il lavoratore devono sotto questo punto di vista operare una trasformazione profonda nelle loro disposizioni, come nelle loro attitudini tecniche. Uno sforzo di comprensione, di stima e di confidenza mutua si impone da una parte e dall’altra, in vista di sostituire allo spirito della lotta di classe e di opposizione di interessi il senso della collaborazione e della solidarietà professionale o sociale. Il contratto individuale o collettivo che sia è l’incontro di volontà circa un determinato oggetto da pattuire. E tanto più facile sarà l’incontro, quanto più c’è senso di reciproca comprensione (152).



4. Partecipazione ai frutti del lavoro da parte dei lavoratori.


Ritornando ai problemi specifici del lavoro, uno dei problemi fondamentali è quello di determinare la misura della partecipazione operaia ai frutti del lavoro, tolti gli ammortamenti necessari e il giusto guadagno di chi amministra il capitale. Il problema non è di oggi e si poneva un tempo come problema del giusto salario da pagare all’operaio da parte del datore di lavoro. Ma qual è – ci si domandava allora – il salario giusto e quali criteri dobbiamo adoperare nello stabilire la giustizia del salario? (153).


Il giusto salario, si rispondeva, va determinato tenendo presente i seguenti criterii il dignitoso sostentamento del lavoratore e della sua famiglia, come si è sopra accennato; le esigenze del bene comune; la produttività del lavoro; le condizioni dell’azienda; la naturale aspirazione dei lavoratori ad un’ascesa economico-sociale e alla necessità di poter attuare forme di risparmio.


In questi ultimi tempi, però, riaffiora con insistenza il problema se il regime salariale sia compatibile con la dignità del lavoro umano; e sempre più si diffonde la persuasione che la stessa evoluzione storica porti a un superamento o a temperamenti sostanziali del contratto di lavoro a cui è legata la retribuzione salariale.


In questo superamento si tende ad arrivare a forme di partecipazionismo o di partecipazione statale (154).


La partecipazione dei dipendenti alla vita dell’impresa può aversi in tre modi: a) collaborazione a deliberazioni concernenti problemi tecnici e amministrativi dell’impresa; b) partecipazione agli utili; e) azionariato operaio.


Il partecipazionismo è considerato con favore dalla dottrina sociale cristiana.


Già Pio XI, considerando il salario ‘”come forma inadeguata di retribuzione del lavoro, nella Quadragesima anno (15 maggio 1931), si augurava che “gli operai diventino cointeressati nella proprietà o nell’amministrazione, compartecipino in certa misura dei lucri percepiti” e riteneva necessario che “in avvenire i capitali, guadagnati non si accumulino se non con equa proporzione presso i ricchi, e si distribuiscano con una certa ampiezza fra i lavoratori”. Identica era la preoccupazione di Pio XII, il quale si fece banditore di un ordine sociale che “renda possibile una sicura, se pur modesta, proprietà privata a tutti i ceti del popolo”; di un “nuovo ordine sociale da costruire su basi democratiche anche nella vita economica”.


L’esposizione completa del pensiero della Chiesa sulla partecipazione nell’impresa, sull’indirizzo economico-generale, e sui conflitti di lavoro, si ha nel Concilio ecumenico Vaticano II e nelle più recenti encicliche pontificie, spesso ricordate.


“Nelle imprese economiche, osserva il Concilio, si uniscono delle persone, cioè uomini liberi ed autonomi, creati ad immagine di Dio. Perciò, avuto riguardo ai compiti di ciascuno – sia proprietari, sia imprenditori, sia dirigenti, sia lavoratori – e salva la necessaria unità di direzione della impresa, va promossa, in forme da determinarsi in modo adeguato, l’attiva partecipazione di tutti alla vita dell’impresa. Poiché tuttavia, in molti casi non è a livello dell’impresa, ma a livello superiore in istituzioni di ordine più elevato che si prendono le decisioni sulle condizioni generali economiche e sociali, da cui dipende l’avvenire dei lavoratori e dei loro figli, bisogna che essi siano parte attiva anche in tali scelte, direttamente o per mezzo di rappresentanti liberamente eletti.


Tra i diritti fondamentali della persona umana bisogna annoverare il diritto dei lavoratori di fondare liberamente proprie associazioni, che possano veramente rappresentarli e contribuire ad organizzare rettamente la vita economica, nonché il diritto di partecipare liberamente alle attività di tali associazioni senza incorrere nel rischio di rappresaglie. Grazie a tale partecipazione organizzata, congiunta con una formazione economica e sociale crescente, andrà sempre più aumentando in tutti la coscienza della propria funzione e responsabilità, per cui essi verranno portati a sentirsi parte attiva, secondo le capacità e le attitudini di ciascuno, in tutta l’opera dello sviluppo economico e sociale e della costruzione del bene comune universale “.(156).


Solo che non essendo di competenza del potere spirituale il determinare le forme giuridico-organizzative dei metodi di partecipazione, la Chiesa non previene le soluzioni tecniche di simili problemi, ma si restringe a prepararle, promuoverle, ad esaminarle nella loro coerenza, con i principi della giustizia e dell’equità, e a raccomandarle nei limiti e nelle condizioni della loro applicabilità.



5.  Sciopero (157).


Su questo problema così si esprime il Concilio Vaticano II:


“In caso di conflitti economico-sociali si deve fare ogni sforzo per raggiungere la loro soluzione pacifica. Benché sempre si debba innanzitutto ricorrere a un dialogo sincero tra le parti, lo sciopero può tuttavia rimanere anche nelle circostanze odierne un mezzo necessario, benché estremo, per la difesa dei propri diritti e la soddisfazione delle giuste aspirazioni dei lavoratori. Bisogna però cercare quanto prima le vie atte a riprendere il dialogo per le trattative e la conciliazione ” (Cost. past. Gaudium et spes n. 68).


Queste parole pongono il problema dello sciopero, delle sue condizioni, della sua giustizia, della sua liceità.


a) Lo sciopero è oggi generalmente concepito come l’astensione di molti operai dal lavoro con l’intenzione di conquistare qualche emolumento dai datori di lavoro. Si distingue lo sciopero difensivo e migliorativo, a cui si potrebbe aggiungere lo sciopero politico. Lo sciopero difensivo si organizza dagli operai se sono ingiustamente oppressi, ricevendo insufficiente salario, lavorando in condizioni malsane eco.; è invece migliorativo quando si fa per ottenere il miglioramento del salario o per abbreviare il tempo del lavoro, benché il salario non sia del tutto insufficiente né il lavoro eccessivo.


b) Si richiede una duplice condizione, perché lo sciopero sia giusto. Non si deve violare il contratto giusto di lavoro; non si debbono chiedere condizioni ingiuste (158).


c) Si richiede ancora che vi sia un fine onesto e che si adoperino mezzi onesti. La non collaborazione, quando non è sabotaggio, può essere un mezzo di lotta economica dopo aver esperito inutilmente tutti gli altri.


L’occupazione, pure, delle fabbriche non si può, oggi, condannare come mezzo illecito, purché si evitino danni ai luoghi, l’occupazione non dilaghi in altri ambienti che nulla hanno a che fare con la questione di lavoro e possa allora qualificarsi come vera violazione di domicilio altrui e siano state prima esperite tutte le forme di protesta più semplici e meno costose. Non è, invece, ammissibile, per rivendicazioni sindacali il sequestro di persona, che già di per sé stesso è violazione di un diritto nativo della persona umana, la libertà fisica (159).


d) Per la liceità dello sciopero si richiede, infine, che la causa sia grave e proporzionata ai danni che Io sciopero porta con sé sia per i datori del lavoro, sia per gli stessi operai, sia per il bene pubblico, sia riguardo all’ordine ed alla tranquillità sociale. Perciò sempre si deve tentare di comporre le cose pacificamente e soltanto quando sono esausti tutti gli altri mezzi leciti, è lecito ricorrere allo sciopero (regola del doppio effetto).



6. Sindacato e difesa del lavoro (160).


I Sindacati tendono a raccogliere tutti gli operai di una determinata industria o altro genere di lavoro, riunendoli sulla base di un interesse comune di categoria (che però è individuale in rapporto agli altri sindacati ed alla società) oppure riunendoli sotto il comune denominatore di lavoratori. Il pericolo che spingendo troppo gli interessi di categoria, si violino i legittimi interessi altrui è corretto da forme di unificazione sindacale. L’obbligo, perciò, di un contemporaneo interesse, che è solo possibile se dalla considerazione individuale ci si eleva alla considerazione del tutto è oggi, soprattutto nelle mani dei dirigenti sindacali.


È pacifico che ai lavoratori sia riconosciuto il diritto di unirsi in libere associazioni per tutelare i propri interessi.


Ma sono oggi, i mezzi di lotta che debbono venire in considerazione, sono le modalità dell’azione sindacale che occorre insistere restino ispirate ad un alto senso di responsabilità morale.


Le relazioni fra sindacati operai ed associazioni padronali hanno già una storia piuttosto lunga ed il sistema di contratto collettivo di lavoro ha ormai radici assai profonde. Una matura esperienza rende anche possibile una valutazione più esatta dei mezzi di lotta nelle controversie salariali.


Più complessi si fanno, invece, i problemi, quando si tratta di determinare i limiti di potere dei sindacati, quando questi entrano nell’area del potere politico, condizionando società e governi, non soltanto per difesa di propri interessi economici, ma per cambiare volto alla società stessa.


Non esistono, infatti, gravi problemi finché il sindacato considera come suo principale e specifico compito quello di influire sui salari e sulle altre condizioni di lavoro. Con ciò il sindacato si assume il diritto di disporre del dovere naturale, che hanno i suoi soci di compiere il loro lavoro e di difenderlo.


Come organizzazione, però, mentre si inserisce necessariamente ed in forza del suo stesso programma nei doveri morali dell’operaio verso l’imprenditore di lavoro, dell’imprenditore verso l’operaio, dell’operaio e dell’imprenditore verso altri operai od altri imprenditori, od altre categorie di lavoratori e cittadini il sindacato o i sindacati vengono ad incidere sull’ordine e il benessere generale, sulla società e l’esistenza della medesima.


Perciò il sindacato, pur occupandosi di compiti puramente economici (161), interferisce necessariamente in questioni d’ordine morale, e politico, dinanzi cui anch’esso come organizzazione, deve comportarsi secondo le esigenze del lecito e dell’illecito morale nel perseguimento degli interessi professionali di categoria del bene comune.


Non possiamo considerare il sindacato come un meccanismo. Nel mondo meccanico, il tutto è uguale alla somma delle parti. Il sindacato invece è un organismo, i cui singoli membri, per mezzo dello scopo comune (regolare le condizioni di lavoro e dei salari) sono riuniti a formare una unità organica. Lo scopo comune dell’organizzazione è espresso nello statuto e nelle leggi dello Stato.


È quindi lo statuto, innanzi tutto, che, determinando il carattere della cooperazione ed anche l’azione dei singoli membri, deve rispondere a determinate norme etiche. Per mezzo della statuto l’organizzazione sindacale costringe i singoli membri ad agire in un senso ben determinato. Occorre quindi che la volontà e gli atti dell’organizzazione stessa, che stanno al di sopra della volontà dei singoli, siano chiari, ben definiti, capaci di realizzare seriamente il miglioramento di categoria, senza sottintesi o secondi fini. Che s’intenda dar vita ad una organizzazione umana e non ad una macchina di guerra pura e semplice.


Da ciò anche l’attenzione che il singolo socio deve porre nel scegliere il sindacato cui aderire, perché l’allettamento economico non lo tragga a rendersi strumento di idee che non professa e non intende professare; non io vincoli oltre quelli che sono gli interessi di categoria. Una volta entrato nel sindacato più difficile è rivendicare la propria libertà, mentre più facile è deliberare prima la propria adesione.


Ma a volte o queste leggi non esistono, perché lo sciopero o i mezzi di lotta non sono disciplinati dalle leggi dello Stato o, pur esistenti, si ha timore di dar applicazione alle leggi. Ecco allora le tentazioni di strapotere dei sindacati, che evadono naturalmente dai compiti quando mettono a servizio delle ambizioni politiche i poteri e le possibilità d’influenza che conferisce loro la forza numerica, e la cogestione delle imprese. In questa maniera i sindacati soggiaceranno alla tentazione dell’imperialismo. L’accumulazione di forze e di risorse conduce a lottare per impadronirsi del potere.



7. Le questioni del lavoro e la Chiesa.


La potestà della Chiesa nelle cose temporali e sociali veniva già affermata da Pio IX (162), che condannava l’asserzione che diceva che ” la Chiesa non è competente a stabilire niente che potrebbe obbligare la coscienza dei fedeli in ordine all’uso delle cose temporali “. Tra gli altri documenti del magistero meritano particolare menzione alcuni passi della Rerum novarum, Quadragesimo anno, Mater et magistra, Pacem in terris, Populorum progressio, Octogesima adveniens (163) che chiaramente mostrano la natura e le ragioni dell’intervento della potestà ecclesiastica nelle cose sociali. ” Entriamo fiduciosi – dice Leone XIII – in questo argomento (cioè nel problema sociale) e di nostro pieno diritto; giacché trattasi della questione di cui non è possibile trovare una soluzione che valga senza ricorrere alla religione e alla Chiesa. E poiché la cura della religione e la dispensa dei mezzi che sono in potere della Chiesa è affidata principalmente a noi, ci parrebbe di mancare al nostro ministero tacendo”.


E poco più avanti: “La Chiesa è quella che trae dal Vangelo le dottrine atte a comporre o certo a rendere assai meno aspro il conflitto sociale”. E più esplicitamente: “Non si creda che le cure della Chiesa sono così interamente e unicamente rivolte alla salute delle anime da trascurare ciò che appartiene alla vita mortale e terrena” (164).


“Occorre premettere – continua Pio XI nella Quadragesima anno – il principio già da Leone XIII con tanta chiarezza stabilito: che cioè risiede in noi il diritto e il dovere di giudicare con suprema autorità intorno a siffatte questioni sociali ed economiche. Certo alla Chiesa non fu affidato l’ufficio di guidare gli uomini ad una felicità solamente temporale e caduca, ma all’eterna. Anzi (Dio) non vuole vedere la Chiesa senza giusta causa ingerirsi nella direzione delle cose puramente umane (Ubi arcano). In nessun modo però può rinunziare all’ufficio da Dio assegnatele di intervenire con la sua autorità non nelle cose tecniche per le quali non ha né i mezzi adatti né la missione di trattare, ma in tutto ciò che ha attinenza con la morale. Infatti in questa materia il deposito della verità a noi commesso da Dio e il dovere gravissimo impostoci di divulgare e di interpretare tutta la legge morale ed anche esigerne opportunamente ed importunamente l’osservanza, sottopongono ed assoggettano al supremo nostro giudizio tanto l’ordine sociale quanto l’economico. Giacché sebbene l’economia e la disciplina morale ciascuna nel suo ambito si appoggiano su principi propri, sarebbe errore affermare che l’ordine economico e l’ordine morale siano così disparati ed estranei l’uno all’altro, che il primo in nessun modo dipende dal secondo ” (165).


E Pio XII così giustifica l’intervento della Chiesa nel giudizio sui sistemi economico-sociali; ” Mossa sempre da motivi religiosi, la Chiesa condannò i vari sistemi del socialismo marxista, e li condanna anche oggi, com’è suo dovere e diritto permanente di preservare gli uomini da correnti e influssi che ne mettono a repentaglio la salvezza eterna ” (166).


E Paolo VI, dopo aver affermato che: ” La questione sociale ha acquistato dimensioni mondiali “: gli uomini e le nazioni aspirano ad ” essere affrancati dalla miseria, trovare con più sicurezza la loro sussistenza, la salute, una occupazione stabile; una partecipazione più serena alle responsabilità, al di fuori da ogni oppressione, al riparo da situazioni che offendono la loro dignità di uomini; godere di una maggiore istruzione; in una parola, fare, conoscere e, avere di più, per essere di più: ecco l’aspirazione degli uomini di oggi, mentre un gran numero d’essi è condannato a vivere in condizioni che rendono illusorio tale legittimo desiderio ” (167), prosegue osservando che la Chiesa propone la sua visione cristiana dello sviluppo, basata sulla concezione della vita come vocazione che comporta dei doveri personali e comunitari; uno sviluppo autentico, integrale, rivolto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo; uno sviluppo ” plenario “, una crescita secondo la vera scala dei valori.



8. Lavoro e ambiente.


Le cose, sono subordinate all’uomo soprattutto dal lavoro, che le piega e trasforma, di modo che tutto l’ambiente ne viene influenzato (168).


Perciò le trasformazioni del lavoro umano si connettono con l’ecologia, che è divenuto oggi un problema mondiale.


Scarsa conoscenza del sistema e, sottovalutazione dell’importanza dei processi ambientali; queste le principali cause dell’attuale crisi ecologica, conseguenza di una vasta crisi culturale e legislativa.


Per rimediare a questa crisi occorre, in campo morale studiare adeguatamente le teorie dei futurologi i quali, in base a previsioni apocalittiche sul futuro del mondo e della cultura, criticano l’infatuazione del progresso e predicano freni radicali nella produzione e nei consumi.


Le risorse naturali del globo, compresa l’aria, l’acqua, la terra, la flora, la fauna, devono essere preservati nell’interesse delle generazioni presenti e future. Le risorse non rinnovabili vanno usate in modo da non essere esaurite, e i vantaggi della loro utilizzazione condivisi da tutta l’umanità.


Tra gli obiettivi particolari della lotta dei popoli di tutti i paesi contro l’inquinamento si sottolinea la necessità di porre fine agli scarichi velenosi e in special modo alla contaminazione dei mari, che, oltre a distruggere le loro risorse biologiche, impedisce ogni attività ricreativa. Da tutto ciò risalta quanto sia necessario l’impegno alla revisione e all’approfondimento dei processi tecnologici, la necessità di diffondere fra giovani, adulti e governi la conoscenza e la coscienza della gravita della situazione, il perfezionamento degli strumenti del diritto internazionale.


In un messaggio di Paolo VI al Congresso mondiale delle Nazioni Unite su questo problema dell’ecologia, tenuto a Stoccolma nel giugno 1972 (169) si tracciavano alcuni principi generali, che possono servire come orientamento per le soluzioni etiche del grave problema locale, nazionale e internazionale.


I problemi dell’ambiente, si osserva, non si risolvono con mezzi esclusivamente tecnici. Esiste un limite all’attività creatrice umana, nel senso di un’applicazione intelligente delle proprie scoperte nell’ambito di leggi morali obiettive inquadrate in una visione globale che mira all’espansione integrale dell’uomo associando la ricerca di un giusto equilibrio ecologico a quella di un giusto equilibrio di prosperità. L’uomo è inseparabile dall’ambiente. Deve, perciò, di questo rispettare le leggi che regolano lo slancio vitale e la capacità di rigenerazione della natura. Alla spinta cieca e brutale del progresso materiale, lasciato in balia del suo solo dinamismo, si deve sostituire il rispetto della biosfera in una visione globale del dominio.


Non si possono ignorare (sono, perciò, peccato) gli squilibri provocati nella biosfera da sfruttamento disordinato delle riserve fisiche, anche se fatte per fini utili; lo spreco di risorse naturali non rinnovabili; le contaminazioni del suolo, aria, spazio. Motivo è il deterioramento dell’ambiente, che è patrimonio di tutti e quindi la minaccia per la sopravvivenza umana. Ci vuole senso di corresponsabilità, mutamento di mentalità, rispetto dell’ambiente secondo l’esempio di S. Francesco.




NOTE


140        Cfr. S. TALAMO, II cristianesimo ed il lavoro manuale, Roma 1885; J. RIEDEL, Arbeitskunde, Leipzig 192.5; C. BOUCLE, Autour de la philosophie du travail, in Rev. de métaphysique et de morale (1925) 111-112; G. STANGE, Die Ethik der Arbeit, in Zeitsch. f. Theol., 4 (1927) 703-743; A. TILCHER, Le travail dans les moeurs et dans les doctrines, Paris 1932; F. GIESE, Philosophie der Arbeit, Halle 1932; J. RINK, Freiheit, Arbeit und Brot, Paderborn 1953; M. ROCHA, Travail et salaire à travers la scolastique, Paris 1933; A. FANFANI, Cristianesimo e protestantesimo nella formazione del capitalismo, Milano 1944; L. DEL PANE, Storia del lavoro m Italia: Dagli inizi del secolo XVIII al 1915, Milano 1944; E. RANWEZ, Lex laboris, in Collationes namurcenses, 33 (1939) 283-293; P. PAVAN, La vita sociale nei documenti pontifici 2, Milano 1946, 10-23; UNIONE INTERNAZIONALE DI STUDI SOCIALI, Codice sociale, Roma 1944, 253-59; 77 lavoro (Atti della XX Settimana sociale dei cattolici d’Italia, Venezia 14-24 ottobre 1946), Roma 1947; J. HAESSLE, L’etica cristiana del lavoro, Milano 1949; G. THILS, Théologie des réalités terrestres, I, Paris 1949, 185-194; G. B. GUZZETTI, Problemi religiosi del lavoro, in La scuola cattolica, 77 (1949) 4-16; LUYPAERT, Nature et noblesse du travail, in Rev. dioc. Tournai, 4 (1949) 193-213; P. HEINISCH, Teologia del Vecchio Testamento, Roma 1950; G. THILS, Teologia delle realtà terrene, Alba 1951, 200 ss.; B. BENASSI, Il lavoro al servizio del Cristianesimo, Bologna 1953; M. D. CHENU, Pour une théologie du travail, Paris 1955; P. PALAZZINI, L’etica cristiana del lavoro ed il lavoro forzato con speciale riguardo alla Cecoslovacchie sovietizzata, in Divinitas, 3 (1975) 118 ss,; J. M. PERRIN, Spiritualità del lavoro, in Studi cattolici, 13 (luglio-agosto 1959) 3 ss.; G. QUADRIO, S. Tommaso e le origini del lavoro nella Bibbia, in Thomistica morum principia. Communic. V. Congressus thomistici intern., I, Romae 1960; 481 ss.; P. CARDOLETTI, Per la determinazione del concetto tomistico di lavoro, ibid.. I, 522 ss.; D. COMPOSTA, Il lavoro umano come serietà, ibid., I, 542 ss.; M. J. GERLAUD, L’object propre d’une théologie du travail, ibid., I, 552 ss.; A. PEROTTO, II lavoro come espressione di umanesimo, ibid., I. 577 ss.; S. QUADRI, Spiritualità cristiana del lavoro, ibid., I, 587 ss.; G. M. ROSCHINI, Il lavoro fonte di benessere spirituale, ibid., I, 599 ss.; U. VIGLINO, Lavoro e persona, ibid., I, 637 ss.; V. BLANCHARD, Le travail est le propre de l’homme, ibid., II, 139 ss C. VAN GESTEL, La dottrina sociale della Chiesa, Roma 1965, 325 ss.; G. CAMPANINI, Introduzione a un’etica cristiana del lavoro, in Rivista di teologia morale (1971) 357-395; G. CAMPANINI, Lavoro, in Dizionario enc. di teol. mor., 460-478; GIOVANNI XXIII, Enc. Pacem in terris, a. 21 ss., 47 ss.; Enc. Mater et magistra, n. 47 ss.; PAOLO VI, Enc. Populorum progressio, n. 27.


141      Pio XI, Enc. Quadragesima anno: AAS, 23 (1931) 195.


142        Gn 3, 19; S. GIOVANNI CRISOSTOMO, In lo. Hom. 36, 2; PG 59, 206.


143        Mt 10, 10; 25, 30; Lc 10, 7, 10; Gv 6, 27.


144        Gv 21, 1-7; At 20, 30, 35; 2 Ts 3, 7-13; 1 Cor 9, 7-14; Ef 4, 28; Gc 5, 4.


145        Cfr. Le encicliche sociali dei Papi da Pio IX a Pio XII, a cura di I. GIORDANI, Roma 1948. Sembrano contraddire queste asserzioni alcune frasi di S. Paolo (Ef 4, 28; 1 Ts 4, 10-11 ecc.). Di questi testi il più noto, il più forte e deciso è quello della 2 Ts 3, 10: “chi non vuoi lavorare si astenga anche dal mangiare”. Ma i commentatori spiegano che ciò vale per chi è tenuto ad alimentarsi del proprio lavoro.


Con maggior autorità ancora Pio XI ha così determinato il significato preciso della formula paolina: ” Alcuni applicano fuori argomento e a torto le parole dell’Apostolo – chi non vuole lavorare non mangi -, perché la sentenza dell’Apostolo è proferita contro quelli che si astengono dal lavoro quando potrebbero e dovrebbero lavorare, ed ammonisce ad usare alacremente del tempo e delle forze dell’anima e del corpo, né aggravar gli altri, quando da noi stessi ci possiamo provvedere. Ma non insegna punto l’Apostolo che il lavoro sia l’unico titolo per ricevere vitto e proventi “.


In altre parole, la frase in questione non è rivolta a chi non lavora perché non vuole, avendo già possibilità di alimentarsi da altre fonti, ne a chi non può lavorare, pur avendone volontà e bisogno, ma unicamente a chi non vuole lavorare, e d’altra parte non possiede altri proventi per la propria esistenza. Quest’ultimo – secondo S. Paolo – non ha diritto di essere aiutato, non ha diritto di mangiare (Enc. Quadragesima anno, n. 27: I. GIORDANI, o. c., 324).


146       F. X. SCHEILLER, Le droit au travail, Porrentruy 1946; F. PERGOLESI, Orientamenti sociali delle costituzioni contemporanee, Firenze 1946; M. SVESTKA, Diritto al lavoro, Firenze 1946; P. PAVAN, Libertà di lavoro e diritto al lavoro, in Atti della. XX Settimana sociale di Venezia, Roma 1947; GIOVANNI XXIII, enc. Pacem in terris, n. 17; AAS 55 (1963) 274 ss.


147           II diritto al lavoro si trova per la prima volta affermato nel Locke, che dal bisogno deduce il diritto. Adamo Smith pone questo diritto fra quelli costituenti la ” libertà naturale “. Lo riaffermano poi Montesquieu e Rousseau, i fisiocrati (Turgot) specie durante la Rivoluzione francese, i Sansimonisti, i Cartisti. Il Fichte nel suo Naturrecht prima, e poi nel Geschlossene Handelstart, ne derivò un obbligo per lo Stato (1800); e dopo di lui Winkelblech, Lassalle, Meuger, Cario Marx, Luigi Blanc, ecc.


148      La dottrina cattolica rigetta perciò, sia sul piano scientifico (teoria classica del capitalismo) sia su quello pratico (economia capitalistica liberale), quella concezione dell’economia che intende risolvete il problema della produzione in maniera indipendente dal problema della distribuzione della ricchezza e quella scienza che studia il modo con cui si accrescono le ricchezze delle nazioni, astraendo dalle naturali esigenze dell’uomo e lo considera come semplice centro di forza, in una visione esclusivamente materialistica della realtà sociale. Ne può accettare un sistema economico, che, ispirandosi ai principi di simile scienza, crea o rende permanenti disuguaglianze sociali incompatibili col fine naturale dei beni materiali. Cfr. H. Du PASSAGE, Morale et capitalismo, Paris 1935; F. VITO, Economia e personalismo, Milano 1949.


149         Cost. past. Gaudium et spes, a. 67.


150         Pio XII, Radiomessaggio 13 giugno 1943: AAS 35 (1943) 174-175.


Negli Stati contemporanei la legislazione a tutela del lavoro è un principio comune, proclamato spesso nelle carte costituzionali e precisato in molte leggi. Cfr. Costituzione italiana, artt. 1, 4, 35 ss., 41, ecc. Si è creato anche sul piano internazionale un’efficace tutela del lavoro. In proposito c’è tutta una serie di accordi internazionali. La massima istituzione è l’Organizzazione internazionale del lavoro, che è riconosciuta come una istituzione speciale dell’O.N.U. con apposito accordo (anno 1946).


151       Cfr. F. Vito, L’economia a servizio dell’uomo, Milano 1947; M. BARONCI, Pianificazione e pianismo, in EC, IX, 1331-1332; A. STEVAUX, La nationalisation, in Rev. dioc. de Tournat, 7 (1952) 519-525; A. AUER, II cristiano aperto al mondo, Torino 1967; G. THILS, Teologia delle realtà terrene, Alba 1968; M. D. CHENU – A. DE BOVIS – H. RONDET, Per una teologia della creazione e del lavoro. Roma 1967; L. DA FARÀA, Lavoro di Dio e lavoro dell’uomo, Padova 1971.


152         Cfr. P. I. JOUBERT, Les problèmes de direction du personnel, Paris 1948; Pio XII. Discorsi e radiomessaggi di S. S. Pio XII, vol. XI, Roma 1949-1950, 59-64.


153         Un tempo il salario si distingueva in salario legale cioè determinato dalla legge, in salario volgare stabilito dalla comune estimazione del popolo e in salario convenzionale il quale dipende dalla libera convenzione tra il datore del lavoro e l’operaio. Il salario è individuale quando vale a coprire le spese necessarie per il vitto, il vestito e l’abitazione dell’operaio; è invece familiare ossia sociale se basta per la sostentazione congrua ed onesta della famiglia dell’operaio. Questo ultimo si divide in salario familiare assoluto cioè tale che basta per la sostentazione della famiglia nelle circostanze ordinarie. Il salario familiare relativo è tale quale si richiede per il sostenimento della famiglia nelle circostanze straordinarie.


Il salario individuale è dovuto all’operaio per giustizia commutativa, mentre quello familiare è probabilmente dovuto anch’esso all’operaio per giustizia commutiva. (Cfr. E. GÉNICOT-I. SALSMANS, Inst. theol. mor.. I, n. 649). Oggi, in genere, tutto ciò è stabilito nel contratto collettivo di lavoro. Cfr. enc. Quadragesima anno: AAS 23 (1931) 177-228; V. FALLON, Principes d’economie sociale, Louvain 1929; D. LEFEBURE D’Ovidio, Le leggi speciali del salario, Napoli 1934; PH. BAYAKT, Comités d’entreprises, Paris 1947; U. TONNEAU, Salaire, in DTC, XIV, 978 ss.; A. STEVAUX, La remuneration du travail, in Rev. dioc. de Tournai, 7 (1952) 124-130. Per le questioni più attuali, cfr. A. TOLDO, II salario annuo garantito, in Agg. sociali, 6 (1955) 445 ss., 493 ss.; I. GIORDANI, II messaggio sociale del cristianesimo, Roma 1963, 256, 966; C. VAN GESTEL, La dottrina sociale della Chiesa, Roma 1965, 335 ss. e passim; Enc. Mater et magistra (n. 74 ss.) di Giovanni XXIII del 15 maggio 1961.


154    Cfr. PRESSES UNIVERSITAIRES DE FRANCE, La participation des salariés, aux responsabilités de l’entrepreneur, Paris 1947; CONFEDERAZIONE GENERALE DELL’INDUSTRIA ITALIANA, Il consiglio di gestione, Roma 1947; P. LASSEGNE, La réforme de l’entreprise, Paris 1948; ASSOCIAZIONE FRA v. SOCIETÀ ITALIANE PER AZIONI, La partecipazione agli utili delle imprese. Roma 1948; F. VITO, L’economia al servizio dell’uomo, Milano 1949; U.C.I.D., Relazioni umane nell’impresa moderna, Roma 1950. Cfr. anche articoli vari nella Rivista internazionale di scienze sociali e nella Civiltà Cattolica del ventennio 1930-1950; P. PALAZZINI, Consigli di gestione, in EC, IV, 409-413; Questioni di morale sociale, a cura dell’Istituto sociale ambrosiano, Milano 1952; I. VILLAIN, L’insegnamento sociale della Chiesa, Milano 1961, 397-400, 412-413, 429- 453; C. VAN GESTEL, La dottrina sociale della Chiesa, Roma 1965, 390 ss., 398 ss. 155 AAS 23 (1931) 198-199.


156   Cost. past. Gaudium et spes, n. 68.


157   Cfr. A. LEHMKUHL, Arbeitsvertrag u. Streit  4, Friburgi i. B. 1904; H. Du PASSAGE, Le droit de grève et le droit naturel, in Etudes 139 (1914) 721-46; A. BRUCCULERI, Lo sciopero secondo la morale cattolica, in Civiltà Cattolica (1921) IV, 409-21; 491-502; (1922) I, 121-29; G. KISELSTEIN, La legitimité de la grève, in Rev. eccl. de Liège, 14 (1923) 301-12, 362-74; H. GUITTON, Les grèves, in Vie intell., 43 (1936) 397-420; COMITÉ THÉOL. DE LYON, La grève et la morale (trad. ital. in Questioni di morale sociale, Milano 1952); A STEVAUX, Le droit de grève, in Rev. dioc. de Tournai, 1 (1952) 399-404: Tre giorni di teologia morale 1951…, Torino 1952 (relazione SABATINI); AN., Lo sciopero, in Aggiornamenti sociali, 2 (1951) 65-76, 97-106, 129-136; A. TOLDO, L’agitazione dei professori, ibid., 7 (1956) 47-54; Enciclopedia sociale, a cura di A. Ellena, Torino 1958, 433-434, 893, 1099-1101, ecc.; G. GIOVANNETTI, Lo sciopero secondo la scuola sociale cristiana. Roma 1959; E. WELLY, Catechismo sociale, Pescara 1966-1967, v. IlI, 285 ss.


158        Da ciò segue: 1) Gli operai non ledono la giustizia se si astengono dal lavoro, quando il contratto è apertamente ingiusto, benché il tempo del contratto non sia ancora finito. 2) Se il contratto di lavoro è giusto, manifestamente ledono la giustizia, se il tempo del medesimo contratto non è ancora finito. Se invece è finito non ledono la giustizia se si astengono dal lavoro per ottenere un miglioramento proporzionato e non eccessivo, 3) Gli scioperanti, supposta la giustizia dello sciopero, che inducono con mezzi leciti, p. es. persuadendo gli altri operai allo sciopero, non violando la giustizia, 4) Infine dobbiamo dire che se lo sciopero è giusto, non ogni violenza morale riguardo agli operai che desiderino continuare il lavoro è illecita (ad es. l’esclusione da beni non dovuti dalle associazioni dei lavoratori). Questa coactio si deve considerare come giusto mezzo di difesa contro i danni che subiscono gli operai scioperanti, perché i non scioperanti lavorano per un salario ingiustamente basso.


159      Riguardo al sequestro di persona non si può non dirlo inammissibile. Cfr., invece, L. Rossi, Sciopero, in Dizion. enc. di teol. mor., 2a ed., 885.


160      Cfr. M. SACCO, Storia del sindacalismo, Milano 1936; Atti della Settimana per il progresso sociale, Parigi 1936; G. MAZZONI, La conquista della libertà sindacale, Roma 1947; P. PALAZZINI, Responsabilità morale e autonomia nei sindacati, in Civiltà italica, 1 (1950) 400-405; Appunti sull’evoluzione del sindacato, a cura dell’Istituto sociale ambrosiano, Milano 1951; F. PERGOLESI, Sindacalismo e sindacati, in EC, XI, 682-690; ISTITUTO Soc. AMBROSIANO, Appunti sull’evoluzione del sindacato, Milano 1951; AN., Il Sindacalismo e lo Stato, in Aggiornamenti sociali, 3 (1952), 201-212; A. TOLDO, II sindacalismo: natura e missione, Milano 1955; ìd., Il sindacalismo in Italia, Milano 1955; G. VAN GESTEL, La dottrina sociale della Chiesa, Roma 1965, 470 ss.; AA.VV., Coscienza cristiana e impegno politico, Milano 1971.


162       Enc. Quanta cura: Denz. S. 2893 (già 1696).


163       Già si è più volte accennato al contenuto di queste encicliche che rendono sempre più esplicito ed adattato ai tempi il pensiero della Chiesa.


164       Enc. Rerum novarum, n. 13: ASS 23 (1890/91) 647.


165      AAS 23 (1931) 190; Denz. S. 3725 (già 2253).


166      Radiomessaggio, 24 dic. 1942: AAS 35 (1943) 5 ss.


167. Enc. Populorum progressio (26 maggio 1967), 3, 6 ss.: AAS 59 (1967) 258 ss. Per la bibliografia, cfr. N. TURCO, La questione sociale, Milano 1922; R. SANTINI, Lotta e collaborazione di classe, Roma 1946; C. MELZI, Storia della questione sociale, Milano 1946; AN., La Chiesa e la questione operaia, in Aggiornamenti sociali, 2 (1951) 161-172, 225-236; AN., Atteggiamento degli operai verso la Chiesa, ibid., 301-306; M. ORBAN, Le róle de l’Eglise dans les problèmes sociaux, in Rev. dioc. de Tournai, 7 (1952) 97-123; I. VILLAIN, L’insegnamento sociale della Chiesa, Milano 1961; S. LENER, Questione sociale e giustizia sociale, in La civ. catt., (1962) III, 313-324; A. A. CROSARA, La questione sociale (capitale, interesse e ripartizione dei consumi). III ed., Roma 1964; R. MEHL, Per un’etica sociale cristiana. Roma 1968.


168 Cfr. cost. past. Gaudium et spes, nn. 33-34, 69 ss.


169.  In questo Congresso Mondiale delle Nazioni Unite a Stoccolma (1972), in 12 giorni di laboriosi dibattiti, 1200 delegati di 114 Paesi industriali o in via di sviluppo (assente la Russia, ma presente la Cina) hanno discusso 450 rapporti (preparati in 4 anni di studio) sulla situazione ambientale nel mondo, approvando, infine, una Carta ecologica delle N.U. Sull’argomento cfr. B. SORGE, La crisi ecologica problema di coscienza e di cultura, m La civiltà cattolica (1970) IV, 417-496; A. MUSMARRA, Principi di ecologia, Bologna 1971; L. CRIVELLI, II pianeta morente, in Settimana del clero, 13 febbr. 1972, 6-7; E. BONNÉ, Le nazioni unite e l’ambiente umano, in La civiltà cattolica (1972) I, 110-127; F. APPENDINO, Ecologia, in Dizionario enciclopedico di teol. morale, ed. 2a, 287-302.