Giuseppina Bakhita

Il 1º ottobre 2000 la beata Giuseppina Bakhita è proclamata santa


 L’attualità del messaggio nella Chiesa, nella Famiglia Canossiana e nella società


di ILVA FORNARO


Superiora Generale delle Figlie della Carità, Canossiane


Con gioia inesprimibile ho accolto la «bella notizia» della Chiesa e con altrettanto giubilo oggi la comunico a tutta la Famiglia Canossiana e ad ogni sorella e fratello che si sente legato alle catene di qualsiasi schiavitù: il 1° ottobre 2000, la nostra «Sorella Giuseppina Bakhita» sarà proclamata santa dalla Chiesa. Colei che Giovanni Paolo II definì «Sorella universale» il 17 aprile del 1992, giorno della beatificazione, verrà riproposta come nostra compagna di viaggio a tutta l’umanità e modello ben realizzato di santità cristiana.

Quest’annuncio, che ci spinge a raccontare senza stanchezza le meraviglie operate dal Signore in lei, sua umile figlia, ci rende egualmente attente al messaggio che continuamente ci raggiunge dalla testimonianza silenziosa ed eccezionale insieme di questa donna, innamorata di Dio e sorella di ogni persona che ha incontrato sulla terra. Ci siamo spesso stupite della simpatia che Bakhita riscuote ovunque, anche in persone che non conoscono bene la sua storia o quella della nostra Famiglia religiosa a cui appartiene. Il suo volto, divulgato ampiamente, anche a nostra insaputa, ha riscosso interesse; il suo sorriso mesto e dolcissimo parla al cuore di molti. Ma che cosa può dire ancora oggi questa testimone del Vangelo che ha percorso i sentieri più comuni della quotidianità evangelica? Alla nostra società così complessa e assillata da mille cose, Bakhita offre l’esempio di una umanità ricca, serena e profonda. La sua infanzia, arricchita dalla capacità di godere sinceramente dei beni più fondamentali della vita, quali la natura, gli affetti familiari, l’amicizia è aperta alla bellezza di Dio che vede presente in ogni realtà terrena, pur senza conoscerne il nome. Ella racconterà più tardi «vedendo il sole, la luna, le stelle dicevo tra me: Chi sarà mai il Padrone di queste belle cose? E provavo una voglia grande di vederlo, di conoscerlo, di prestargli omaggio». La sua capacità di «vedere» e quasi dialogare con l’Invisibile suscita in noi profondo stupore, nostalgia di intimità con Dio, impulso interiore a promuovere una cultura più positiva, più umana, più universale: una ecologia della vita più coerente e significativa, secondo il cuore di Dio. La storia di Bakhita fanciulla e adolescente – rapita, fatta schiava, torturata penosamente – parla del volto più oscuro della nostra società. La sua sofferenza è uno specchio in cui si riflettono milioni di altre piccole vittime del nostro tempo, esche della sete di guadagno che, non conoscendo scrupoli, spesso calpesta i diritti più basilari della persona. Queste vittime, ritrovando nella storia della «sorella universale» il dolore della propria storia, vi scoprono pure un coraggioso raggio di speranza, una tenace e serena fiducia nella possibilità di riscatto e di liberazione per tutti. Nella Chiesa Bakhita conosce il volto di Colui che da fanciulla ha tanto sperato di poter contemplare; da Lui si lascia sedurre e risponde con esultanza alla Sua proposta di amore incondizionato. Sceglie di diventare membro della Sua famiglia e decide in cuor suo di vivere nella Sua Casa. Per rimanerGli radicalmente fedele rifiuta di tornare nell’amata Africa e si stacca dalle persone più care, attraverso le quali aveva acquistato la sua libertà. Dio diventa la sua unica roccia, il garante della sua dignità personale e della sua libertà, la guida sicura che la conduce a superare il fatalismo della sua gente. Da Lui si lascia abitare e, gradualmente, tutto in lei diviene trasparenza del suo amore senza limiti, riflesso della sua tenerezza rispettosa per ogni persona che incontra. A questa Chiesa di oggi che ha varcata la soglia del Terzo Millennio, la santità di Bakhita giunge come annuncio di liberazione «dai segni del potere» per testimoniare, con «il potere dei segni», la carità senza misura, la fiducia sconfinata in un Padre buono e provvidente. La sua testimonianza di riconciliazione e di perdono dona visibilità inconfondibile al Vangelo del Signore – «Se incontrassi quei negrieri che mi hanno rapita e anche quelli che mi hanno torturata, mi inginocchierei a baciare loro le mani, perché, se non fosse accaduto ciò non sarei ora cristiana e religiosa» – Il suo profilo, tratteggiato di dolce bontà e mitezza, invita tutti noi ad aprirci alla fiducia reciproca, al cercare, nel sentiero che ciascuna persona percorre, le orme del Dio che cammina con noi. La parabola della vita di Bakhita può dirsi un’immagine ben riuscita della traiettoria che ci propone la missione di Cristo, alla quale partecipiamo: chiamata evangelica a portare nella nostra carne i segni della Pasqua del Signore, a lavarci i piedi agli uni gli altri, in memoria di Lui che ha preso su di sé la condizione di schiavo per innalzare tutti glischiavi alla condizione di veri figlio di Dio. Al nostro Istituto Bakhita ha lasciato un’eredità preziosa, un messaggio di vita che diviene pure una forte sfida. L’istituto ha ancora tanto bisogno di fiducia nella fedeltà del Signore e di speranza nella forza del dono che lo Spirito le ha affidato per la Chiesa intera. Ha bisogno ancora del coraggio di rilanciarsi con più ardore nella missione specifica di testimoniare ovunque e a tutti l’amore misericordioso del Padre, soprattutto facendo conoscere ed amare il Figlio Gesù. Bakhita, dopo aver scelto di vivere con passione la volontà di Dio, ha vissuto in pienezza la sua maternità spirituale rispondendo creativamente e con gioia al bisogno di ogni fratello e sorella che le era accanto. La sua carità si esprimeva con gesti umili e semplici, certamente nascosti agli occhi di chi cerca affermazione o successo. Bakhita ha saputo rallegrare i cuori dei piccoli alunni della scuola materna ed elementare, divertendosi quando qualcuno cercava di «leccare» le sue mani «di cioccolato». Ha curato la salute delle sorelle, molto occupate nel servizio apostolico, con un sorriso di apprezzamento o offrendo loro vivande casalinghe che le potessero sostenerle nella fatica. Si è presa cura, con vero amore di madre, dei feriti di guerra, accanto ai quali scelse di rimanere, serena e sollecita, anche durante i bombardamenti che seminavano terrore. E con Madre Moretta tutti sapevano che erano «al sicuro», perché, per la gente, lei era una santa! Il suo sorriso rimane ancora oggi il sorriso di una donna africana che trascende ogni limite di tempo e di cultura, sorriso abitato da uno sguardo eterno nel quale ogni persona può trovare comprensione, incoraggiamento compagnia. Il suo sorriso buono ha seminato speranza nella solitudine di molte persone che ricorrevano e ancor oggi ricorrono a lei con la preghiera. Noi tutti siamo certi che Bakhita ha ancora «molte parole» significative da dire alla gente di ogni razza e cultura, perché il suo messaggio rimane nel cuore di chi l’accosta come un piccolo zampillo d’acqua pura che ristora: «Siate buoni, amate il Signore, pregate per coloro che non lo conoscono».


 


La vita nelle mani del suo «Paròn»


di AMEDEO CENCINI


I santi sono messaggeri dell’Eterno. E Dio che ce l’invia, secondo le nostre necessità e i suoi disegni. Così in questo Anno Giubilare, tra coloro che sono stati o saran proclamati santi, troviamo anche questa umilissima figlia d’Africa, suora canossiana, il cui cammino di vita e santità è stato tanto singolare quanto «provvidenziale». Mentre la Chiesa tutta percorre la via della conversione e della riconciliazione, mentre Giovanni Paolo II chiede e dà il perdono e invita tutti a purificare la memoria ci viene proposto il modello di questa donna sudanese, rapita da piccola, fatta schiava e torturata, più volte venduta e sempre più annullata nella sua dignità, ma poi, in un crescendo imprevedibile e luminoso, lentamente approdata alla libertà e poi alla fede, e infine alla consacrazione religiosa e alla santità. Lo schema non è nuovo nelle sue fasi di discesa e risalita, è addirittura un classico nella letteratura spirituale: lo stesso Figlio di Dio non ha conosciuto la kenosi prima dell’esaltazione? E infatti la fondatrice della congregazione canossiana, Maddalena di Canossa, raccomanda ai suoi proprio questo tipo di percorso. Ma nel caso di Bakhita sembra esserci qualcosa di particolarmente originale, qualcosa che ci aiuta a capire il senso profondo della riconciliazione, specie di quella più difficile, la riconciliazione con il proprio passato e le sue ferite, e in definitiva, dunque, del giubileo che stiamo celebrando: non consiste forse in questo la purificazione della memoria? Non basta perdonare e neppure chieder perdono, condonare o far finta di niente, tanto meno memoria purificata è memoria che dimentica torti e ingiustizie (sarebbe una contraddizione, ammesso che uno ci riesca). La purificazione della memoria è processo lento e complesso d’integrazione nella fede del passato, comporta una rivisitazione della propria storia nella sua totalità, mira alla riassunzione d’essa, specie dei suoi aspetti più oscuri e duri da accettare, e pure non si ferma qui: la memoria è purificata quando riesce attivamente a dare un significato nuovo anche a ciò che è negativo, al male, fatto e subìto, perfino al peccato, quasi trasfigurandolo, per viverlo poi positivamente, non più con rancore e risentimento, verso gli altri e se stessi. Ciò avviene, normalmente, quando la vita ha un centro o nella misura in cui il soggetto ha scoperto un nucleo significativo-veritativo che si pone al centro d’essa e da lì riesce a «tener assieme» tutta la sua storia e a svelarne la trama, come una verità creduta con tutto il cuore e capace ora di riconoscersi disseminata lungo i giorni dell’esistenza, recuperando attorno a sé ogni frammento della vita stessa, «perché nulla vada perduto» (cfr Gv 6, 12). Per il credente questa verità è la fede, più in particolare è la Pasqua di Gesù; nulla come la croce, infatti, riesce a dare un senso alla vita umana e a ogni segmento del vivere, presente o passato, luminoso o doloroso, favorevole o ostile; «nulla si sottrae al suo calore» (Sal 18, 7), poiché tutto è misteriosamente attratto e illuminato, reso nuovo e trasformato da quella fonte d’energia che sgorga dalla croce, come misteriosa forza magnetica. L’aveva per altro già detto Gesù: «quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12, 32). Ed è il disegno provvidenziale cosmico del Padre, quello di «ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra» (Ef 1, 10), proprio tutte, visibili e invisibili, belle o brutte (o che tali sembrano a noi)… Proprio qui ritroviamo il messaggio originale di Bakhita. Da questo punto di vista, ella aveva un carico molto pesante da integrare; la vita trascorsa le si poneva dinanzi come un seguito di eventi sinistri e ostili, popolato da individui violenti e perversi. A livello psicologico avrebbe potuto venir fuori dal suo passato con una personalità disintegrata, con il cuore pieno di risentimenti e disperazione, con la tentazione di rimuovere e ignorare ferite profonde. E invece ciò non avviene, perché l’incontro con la fede cristiana diventa esperienza che le consente con pazienza di raccogliere tutta la sua esperienza passata guardandola con occhio benevolo, quasi accarezzando con delicatezza le cicatrici fors’ancora doloranti, ma senza combattere in ogni caso contro alcun fantasma, senza censurare il suo passato né doverlo per forza dimenticare, senza neppure accontentarsi di perdonare chi le ha fatto del male. Bakhita fa molto, molto di più con l’intervento della Grazia e lungo un percorso di cui ignoriamo le tappe, ma che è evidente nell’esito finale. Nel suo italiano approssimativo e simpaticamente contaminato dal dialetto veneto ella impara a chiamare Dio «el Paròn». Lei che la vita aveva resa schiava e da sempre soggetta a un padrone, chiama così anche Dio, ma il senso è ora totalmente trasformato rispetto all’esperienza drammatica passata: «el Paròn» è il Dominus, il «Signore» dei primi cristiani, Signore dell’esistenza, Colui che è al centro della vita, all’inizio e alla fine d’essa, il battito segreto del cuore, Colui cui spetta «il primato su tutte le cose. Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce…, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli» (Col 1, 19-20). Bakhita, nel piccolo della sua esperienza di vita, ha vissuto la densità teologica di queste parole, giungendo a una riconciliazione impensabile sul piano umano, a una riappacificazione che è possibile solo nel sangue della croce di Gesù. Ecco perché Bakhita non ha semplicemente perdonato i suoi torturatori, anzi non ha avuto bisogno di perdonarli, perché se Dio è «el Paròn», sembra volerci dire, la mia vita è nelle sue mani, Lui è stato sempre presente nella mia storia, anche quando io non Lo conoscevo e non Lo sentivo, Lui sapeva bene come e dove condurla e come tirar fuori il bene dal male. Ecco perché questa piccola grande santa è «sorella universale», perché c’insegna un’operazione che tutti dobbiamo imparare a fare nella vita: integrare il male ricevuto, non rispondere al male con il male, ma dargli un senso nuovo, fino a trasformarlo e trasfigurarlo, viverlo addirittura come benedizione. C’è una sua frase che tutto ciò dice esplicitamente e che esprime forse il senso originale della sua santità: «Se incontrassi quei negrieri che mi hanno rapita e anche quelli che mi hanno torturata, mi inginocchierei a baciare loro le mani, perché, se non fosse accaduto ciò, non sarei ora cristiana e religiosa…».


Siamo noi che c’inginocchiamo ora dinanzi a te, Bakhita, per ottenere, per tua intercessione, il dono della memoria purificata, d’una memoria che sappia riconoscere i passi di Dio lungo i nostri giorni, d’una memoria capace di trasformare le ferite più dolorose in cicatrici del passaggio di Dio, e i ricordi più traumatici in memoria di gratitudine all’Eterno. Umile figlia d’Africa e «sorella universale», ottieni questo dono per tutti i tuoi fratelli e sorelle, per il tuo Sudan, in particolare, perché la purificazione della memoria sia seme e garanzia di pace. Nella Chiesa e nel mondo.


 


Il filo conduttore della Provvidenza


di MARISA GINI


Colpisce nella vita di madre Bakhita la centralità di un Dio provvidente; nonostante le durissime catene della schiavitù, le indescrivibili prove, è sempre viva in lei la certezza della bontà di Dio. La figura del papà, alterato dal dolore per il rapimento della sorella maggiore e


la dolce presenza della mamma che teneramente si stringe al cuore gli altri figli saranno ricordi incancellabili che continuamente riaffioreranno alla sua mente nei momenti drammatici della schiavitù. Bakhita era nata in un paese del Sudan, nei pressi del monte Agilere e viveva felicemente con la sua famiglia. Con ogni probabilità tutti i familiari erano di religione animista. Nutrivano un grande rispetto per i morti e per gli anziani, in quanto credevano che fossero più vicini agli spiriti. Ella ricorda di non aver mai adorato gli idoli. Il sentimento naturale di una Presenza divina nell’uomo e nella natura era la sua stella d’orientamento, alla quale sempre corrispondeva. Il Padre vi ama: questa è la semplicissima verità che il Signore insegna. Il Dio di Gesù sarà scoperto da Bakhita come il Padre di Gesù Crocifisso per, di cui ella aveva sperimentato nella sua travagliata vita la continua protezione. Scopre che il filo rosso dell’amore, del sangue, del sacrificio della croce che dall’età di nove anni non l’ha mai lasciata, la conduce all’incontro con il Crocifisso per amore. Bakhita fu battezzata e cresimata a Venezia. «Se durante la mia lunga schiavitù avessi conosciuto Dio – aveva detto nel racconto della sua tragica sofferenza, – quanto meno avrei sofferto». Quante cose possiamo imparare da queste coraggiose parole di Bakhita! Dobbiamo imparare soprattutto il rapporto strettissimo che esiste tra religione e vita. Bakhita intuisce che se fosse ripartita con la signora Micheli per l’Africa, non le sarebbe stato possibile vivere con pienezza la sua vita cristiana. La fermezza con la quale oppone il suo rifiuto alla partenza è opera dello Spirito Santo. È sempre lo stesso Spirito che le suscita in cuore il desiderio di consacrarsi a Cristo tra le Figlie della Carità Canossiane. Aderendo al Crocifisso le si illumina la croce. La sua vita diventa una meravigliosa festa di grazia, di beatitudine, di gioia. Tutto diventa felicità nella vita cristiana. Bakhita si considera davvero «fortunata», come esprime il termine arabo che indica il suo nome. Si sente solidale con Bakhita ogni donna che si è liberata da ogni forma di schiavitù attraverso la capacità di credere e di lottare. Ella è sorella e madre che dona la vita agli altri. Più che fare tanto o discutere, ella ama, vuole il bene del prossimo, perché vibra in lei l’amore per il Signore. È qui che s’incrociano i fili della Provvidenza, in quell’amore che rende buono il cuore e rende effettiva e reale la donazione. La vita del cuore va sempre oltre e apre nuovi spazi e nuove dimensioni: nuove terre, nuove persone, nuove generazioni da amare. E Bakhita divennemadre: la «madre Moreta». Soltanto Dio è Padrone della vita, di ogni vita. Questa convinzione è radicata nel profondo del cuore di Bakhita: in ciò sta la piena realizzazione della propria femminilità. Donna significa dignità, significa donazione, significa fecondità. Bakhita è una donna umile ma particolarmente viva per chi vuol collaborare a ricostruire la bellezza del volto umano. La Madre Moretta insegna ad ogni donna che si può continuare a donare anche quando non si ha niente. E quando poi si è privati di tutto, rimane il perdonare. «Nella sua vita ha sempre serbato un grande appassionato amore, per l’Africa e il suo popolo, pregando anche per i suoi carcerieri, per la sua famiglia, per la sorella perduta. Questa donna rappresenta un esempio di santità valida anche per il nostro tempo: lei che è stata schiava nel corpo, ha conservato uno spirito libero e può aiutarci ad essere liberi, perché le tanti schiavitù presenti nel mondo siano sconfitte anche per il nostro impegno di cristiani coerenti». Il riscatto della donna dalle condizioni di inferiorità o di strumentalizzata oppressione, di violenza e di maltrattamenti è un impegno di giustizia da vivere con amore a beneficio di tutti. Ella comprende le sofferenze di tante donne cadute nelle più tristi schiavitù di oggi. Sorella universale, l’ha chiamata Giovanni Paolo II. Sorella di tutti, che offre un esempio di bontà eccezionale tanto necessaria ai nostri giorni. Preghiamola per le donne che vivono legate alle pesanti schiavitù del male, dell’ingiustizia e di ogni forma di dipendenza. La sua vita così dolce e così forte sia un appello a lottare per la liberazione di tutte le donne-schiave moderne. In questo senso è Sorella universale, vicina a tutti testimone di quella gioia che nasce dalle Beatitudini. In questo Anno Santo 2000, la Chiesa presenta una santa canossiana, la prima dopo la Fondatrice e con lei vuole ricordare tutte le donne, sante, che nel corso dei secoli hanno testimoniato al mondo di essere di Cristo nella Chiesa.


 


Una grande eredità per i laici canossiani


di LORENZA BELLORIO


La straordinaria e difficile esperienza di vita di Madre Bakhita ci fa riflettere immediatamente sulla reale e concreta presenza di Dio Padre nella storia di ogni uomo, anche di colui che non loconosce. Il percorso di Madre Bakhita verso la santità è un cammino di ricerca e di scoperta reciproche tra il Signore e questa donna, che ha saputo vivere di speranza e di gratitudine. Madre Bakhita è per tutti noi la testimonianza santa della libertà. Seppure schiava, ha vissuto continuamente la ricerca di significato degli eventi e delle cose, ha cercato l’essenza, ha lasciatosempre il cuore aperto alla relazione con colui che è origine e vitalità del Mondo e che, sconosciuto all’inizio, è poi diventato per lei il centro del cuore, il fondamento e il fine della vita. Bakhita è in modo particolare un esempio di disponibilità totale e consapevole alla volontà di Dio. La fiducia con cui affronta la sofferenza profonda, l’umiliazione e le difficoltà, e il coraggio con cui approfondisce la fede, preparandosi al battesimo e alla vita religiosa, sono l’immagine del cammino del discepolo, che segue Cristo, fidandosi completamente di Lui e che come Pietro può dire: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua Parola getterò le reti» (Lc 5, 5). Come fratelli e sorelle laici canossiani viviamo la chiamata a contemplare nel Cristo crocifisso colui che dà la vita (cfr Gv 15, 13); a riconoscere nella nostra esistenza i segni della presenza premurosa di Dio Padre; a trovare in Cristo Gesù la gioia e la forza di lasciarsi guidare dallo Spirito; ad incoraggiare la persona che si trova in difficoltà; a cogliere il lato positivo dell’uomo, della storia, della realtà. Come fratelli e sorelle laici canossiani siamo chiamati a continuare a gettare le reti, anche nelle situazioni meno entusiasmanti, anche nella difficoltà, facendo riferimento non sulle nostre possibilità, ma sulla presenza di Dio nella storia». La vocazione che realizza la nostra vita si concretizza anche attraverso lo sguardo privilegiato rivolto agli ultimi e ai più piccoli, a partire dalle nostre famiglie e dai nostri ambienti. Possiamo vivere tale attenzione privilegiata come espressione della libertà del cuore riconciliato e non come mortificazione sterile, solo nella dinamica dell’umiltà proposta da Cristo, l’umiltà che completa la dignità della persona e la rende capace di sperare e di ringraziare per il dono della vita. In questa prospettiva Bakhita, ci incoraggia a vivere: ella infatti, strappata dalla famiglia d’origine, ha sempre tenuto nel cuore i propri familiari e, dopo aver conosciuto il Signore, ha pregato per loro, perché incontrassero Cristo e potessero sentirsi amati da Lui. L’esperienza esistenziale di Bakhita riflette su ciascuno di noi pure l’intensità di una certezza: l’essere figli. Il cambiamento che Madre Bakhita vive ricevendo il battesimo non si identifica solamente nel passaggio dalla condizione di schiava alla condizione di libera. Nell’approfondimento della conoscenza di Cristo, Bakhita vive la liberazione dalla schiavitù entrando nella dimensione della figliolanza, quindi nello spirito della famiglia di Dio. Come fratelli e sorelle laici canossiani, inseriti fortemente nella chiesa, apprendiamo da lei a fare spazio ad ogni persona, anche alla persona che ci fa soffrire, a vivere l’esistenza che ci è donata e ad esortare chi ci è accanto ad affidarsi alla misericordia di Dio, a percepire nelle diversità la creatività dello Spirito e le infinite possibilità del cuore dell’essere umano, a vivere con gioia nella famiglia dei figli di Dio il calore dell’accoglienza per ogni uomo, di qualsiasi provenienza. Forse, però, la sfida più grande, che risuona in noi di fronte a Bakhita santa, è proprio il perdono. È il perdono che Giovanni Paolo II ci chiede di vivere, dicendoci che: «Lo facciamo senza nulla chiedere in cambio, forti solo dell’amore di Dio che è stato riversato nei nostri cuori» (Rm 5, 5) TMA n.33. Bakhita, sostenuta dallo Spirito, ha saputo perdonare i propri rapitori in modo autentico, riuscendo a cogliere la propria vita come un cammino, nel quale anche la crudeltà ha avuto un suo significato, nonostante il dolore. La santità di Madre Bakhita scaturisce anche dalla semplicità e dall’adesione alla volontà di Dio. La sua vita è stata in ogni momento segnata dalla disponibilità a Dio, attraverso l’impegno nei servizi più semplici quali la portineria e la cucina. Il suo desiderio di vivere la volontà del Padre la porta a restare ferma nella decisione di divenire religiosa, anche quando le viene proposto di tornare nella sua terra in condizioni di vita favorevoli. La sua quindi è una semplicità forte, radicale, completa, capace di far luce non su di sé, ma su colui che ne è l’origine: il Signore.


Bakhita è stata canossiana nel mondo più bello, sentendosi accompagnata sempre da Maria, che, come Santa Maddalena di Canossa disse, è la Madre della Carità sotto la croce e la vera fondatrice dell’Istituto. Madre Bakhita ci esorta a vivere la nostra vocazione di fratelli e sorelle laici canossiani confidando nella tenerezza della madre della chiesa, della quale con riconoscenza affermava: «La Madonna mi ha protetta nonostante che io non la conoscessi».


© L’OSSERVATORE ROMANO Mercoledì 17 Maggio 2000