E MARCO SCRISSE SUBITO

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Di Marta Sordi. Da un autore pagano del primo secolo la conferma che il vangelo di Marco fu scritto pochi anni dopo la morte di Gesù. Come attesta la tradizione cristiana primitiva. Un punto a favore della credibilità storica del Vangelo

L’ identificazione, da parte di J. O’ Callaghan nel 1972, ribadita poi da C. P. Thiede agli inizi degli anni ’90, di un frammento papiraceo in lingua greca (7Q5), trovato nella grotta 7 di Qumran, con Marco 6,52-53, ha riaperto, come è noto, nonostante le molte contestazioni, il problema della datazione dei Vangeli e di quello di Marco in particolare.


 


La scrittura del frammento, studiata prima dell’identificazione con il Vangelo, aveva imposto una datazione non posteriore al 50 d.C.; la grotta, inoltre, risultava chiusa dopo il 68; l’identificazione del frammento con un passo di Marco scompaginava così, se convalidata, tutte le ipotesi, date per certe dagli esegeti, della composizione tarda del Vangelo e confermava invece pienamente i dati conservati dalla tradizione cristiana primitiva: Papia di Gerapoli, vissuto tra la fine del I secolo e la prima metà del II (apud Euseb. H. E. II, 15 e VI, 39,15) e Clemente di Alessandria (apud Euseb. H. E. II, 15 e VI, 14,6) affermavano infatti che Marco aveva scritto il suo Vangelo, su richiesta dei Romani, che avevano ascoltato la predicazione di Pietro, all’inizio del regno di Claudio (nel 42, secondo la traduzione di Gerolamo del Chronicon di Eusebio).


 


Una citazione dello stesso passo di Clemente (p. 9 Staehlin) spiegava che i Romani, da cui era partita la richiesta erano Cesariani e cavalieri, ut possent quae dicebantur memoriae commendare. Si trattava di persone della classe dirigente romana, abituate alla comunicazione scritta e la richiesta da loro rivolta a Marco è perfettamente comprensibile; specialmente se si tiene conto del fatto che, nel 42/43, mentre Claudio era assente per la spedizione in Britannia, il governo di Roma era tenuto da L.Vitellio, che nel 36/37, come legato di Siria, aveva avuto occasione di occuparsi dei cristiani a Gerusalemme. Il desiderio di avere ulteriori informazioni sulla nuova “setta” giudaica poteva rientrare nelle normali preoccupazioni per l’ordine pubblico del governo di Roma. Ciò che fu allora appurato dovette tranquillizzare i Romani che, da quel momento e fino al 62, in Giudea come nelle province, cercarono di impedire azioni persecutorie derivate da accuse giudaiche contro i Cristiani. La data del 42/43 è innanzitutto, secondo Papia e Clemente, la data dell’arrivo di Pietro a Roma: una conferma dell’importanza di questa data per la Chiesa di Roma è che al 42/43 risale, secondo Tacito (Ann. XIII, 32), la conversione di Pomponia Grecina, la moglie di Aulo Plauzio, il legato che precedette in Britannia Claudio, ad una superstizio externa che è certamente il cristianesimo. Ma ciò che ci interessa ora è la stesura del Vangelo di Marco: si è detto che 7Q5 non fa che confermare, con l’autorità di un documento contemporaneo, ciò che sapevamo già da autorevoli fonti del II secolo, che solo l’ipercritica, da tempo superata negli studi di storia antica, ma ancora presente negli studi delle origini cristiane, ha troppo a lungo e ingiustamente sottovalutato. Paradossalmente, anche se 7Q5 non fosse un frammento di Marco, le testimonianze di Papia e di Clemente dovrebbero indurci ad ammettere come probabile la venuta di Pietro a Roma nel 42 e la stesura in quell’occasione del Vangelo di Marco.


 


Ma un’ulteriore e importante conferma ci viene ora da un autore pagano, quel Petronio autore del Satyricon, che scrive nel 64/65 e mostra di conoscere il testo marciano, come ha dimostrato, con ottimi argomenti, I. Ramelli in un articolo pubblicato su Aevum nel 1996. Contatti fra i Vangeli e passi del Satyricon erano stati già notati in passato, per la crocifissione, la risurrezione, l’eucaristia, ma erano stati spiegati come pure coincidenze o con interpretazioni antropologiche. Il passo studiato dalla Ramelli (Sat. 77,7-78,4) riguarda l’unzione durante la cena di Betania (Mc 14,3-9), un episodio, cioè, la cui importanza non è così grande da poterne spiegare la conoscenza da parte dei pagani in base a semplici voci, come quelle che circolavano in quell’epoca a Roma sui flagitia attribuiti dal volgo ai Cristiani nel 64, come dice Tacito (Ann. XV, 44x) parlando dell’incendio. Qui i contatti sono tali che già il Preuschen, agli inizi del XX secolo, aveva pensato a una dipendenza reciproca, attribuendo però a Marco l’imitazione di Petronio: l’evidente assurdità dell’ipotesi (dato il carattere di sprezzante parodia del passo di Petronio) ne aveva determinato il rifiuto. Il giudizio è necessariamente diverso se il Vangelo di Marco era già noto nel 64/65 e se ammettiamo che è Petronio a parodiare Marco e non Marco a imitare Petronio: c’è l’ampolla di nardo, che solo Marco conosce fra gli evangelisti (i sinottici parlano di un vaso di unguento non specificato, Giovanni parla di una libbra di nardo); c’è la prefigurazione da parte di Trimalcione di un’unzione funebre, in un contesto che parla continuamente – ma senza giustificazione apparente, visto che Trimalcione dichiara che vivrà ancora 30 anni – di morte; c’è, poco prima (ib. 74, 1/3), il canto del gallo, sentito (diversamente dalla consuetudine pagana) come profeta di sventura e come index, accusatore. Se Petronio conosce il testo di Marco e intende parodiarlo (e la cosa non ci sorprende alla corte di Nerone, dove, come risulta da Paolo [Fil 4,22] il cristianesimo era ben noto), anche gli altri accenni di Petronio che sembrano implicare la conoscenza del cristianesimo diventano importanti: penso in particolare al cap. 141, in cui Eumolpo chiede nel suo testamento che i suoi eredi mangino il suo corpo, e alla novella della matrona di Efeso (cap. 111), con il trafugamento del corpo di un crocifisso e la sua “rianimazione” al terzo giorno: un motivo anticristiano reso attuale dal cosiddetto editto di Nazareth, se, come sembra probabile, l’editto è di Nerone e rivela l’accettazione, da parte del governo romano, delle accuse giudaiche ai discepoli di Cristo di aver trafugato il corpo del loro Signore, come attesta Matteo (28,15). La parodia di Petronio è dunque la miglior conferma delle notizie della tradizione cristiana del II secolo sull’antichità del Vangelo di Marco.


 


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“La santa madre Chiesa ha ritenuto e ritiene con fermezza e costanza massima che i quattro vangeli, di cui afferma senza alcuna esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza” (Concilio Vaticano II, Costituzione Dei Verbum sulla divina Rivelazione, 19).


 


 


Bibliografia


M. Sordi, La prima comunità cristiana e la corte di Claudio, in Cristianesimo e istituzioni politiche, a cura di E. Del Covolo – R. Ugione, Roma 1995, p. 15 sgg.


M. Sordi, L’ambiente storico greco e romano della missione cristiana, Ricerche storico bibliche. Roma 1998, p. 227 sgg.


E. Grzybek – M. Sordi, L’édit de Nazareth, in PE, 120, 1998, p. 279sgg.


I. Ramelli, Petronio e i Cristiani, in Aevum 70, 1996, p. 75 sgg.


 


© Il “Timone” n. 19, maggio / giugno 2002