Cristiani: dove l’islam opprime

In questa pagina un estratto del manuale «Cento domande sull’islam», appena pubblicato da Marietti, (pp. 224, euro 13), in cui uno dei maggiori esperti internazionali di islamologia, padre Samir Khalil Samir tratta sia dei fondamenti dottrinali e storici del credo musulmano, sia dei problemi moderni….

Cristiani: dove l’islam opprime


Egiziano con passaporto italiano, gesuita, docente universitario a Beirut: il Centro di Studi sull’Ecumenismo ha scelto uno dei maggiori esperti internazionali di islamologia, padre Samir Khalil Samir, per rispondere alle scottanti «Cento domande sull’islam», appena pubblicate da Marietti 1820 per la cura dei giornalisti di «Avvenire» Giorgio Paolucci e Camille Eid (pp. 224, euro 13). Un manuale (del quale pubblichiamo in questa pagina un estratto) in cui si trovano sia i fondamenti dottrinali e storici del credo musulmano, sia i problemi moderni: dalla condizione femminile all’immigrazione in Occidente, al terrorismo.


D. La maggioranza dei non musulmani nei Paesi islamici è costituita oggi da cristiani: sono 90 milioni che vivono insieme a 900 milioni di musulmani. Qual è il grado di libertà religiosa che viene loro riconosciuto?


R. «La situazione della libertà religiosa nell’islam è molto differente da Paese a Paese. Si va dal divieto di mostrare simboli religiosi sugli edifici o sul corpo (per esempio, la croce al collo) agli ostacoli frapposti alla professione e alla diffusione della fede, alla costruzione e ristrutturazione di luoghi di culto, fino al divieto di celebrare la messa persino in privato o di introdurre nel Paesi testi religiosi non musulmani.


Le differenze dipendono in larga misura dal contesto politico, culturale e nazionale locale, nonché dalla tipologia della presenza cristiana.  Ci sono, infatti, Paesi dove la percentuale dei cristiani è consistente, e altri dove è molto esigua (40-45% in Libano; 40% in Nigeria; 35% in Ciad;  8-10% in Egitto, Indonesia, Sudan; 8% in Siria; 4% in Iraq; 3% in Pakistan meno dell’1% in Turchia, Iran e Africa del Nord); Paesi dove viene applicata  la sharia, altri dove l’islam è dichiarato religione di Stato, ed altri   ancora che hanno optato per una certa laicità; Paesi dove il cristianesimo  viene considerato una realtà autoctona, come in Egitto, Libano, Giordania, Iraq, Siria e Palestina, altri in cui risulta professato da comunità straniere, come nel Maghreb e negli Stati del Golfo.


Lo Stato in cui si verificano le maggiori restrizioni alla libertà religiosa è l’Arabia Saudita, che vieta ogni culto che non sia musulmano perché ritenuta interamente “suolo sacro”. Tra i sei milioni di lavoratori stranieri, almeno 600 mila sono cristiani e non possono celebrare il culto nemmeno in forma privata. La partecipazione a riunioni clandestine di preghiera, come pure il possesso di materiale non islamico (bibbie, rosaricroci, immagini sacre), comportano l’arresto e l’espulsione, o addirittura   la pena capitale. Un altro caso di aperta discriminazione è quello del  Pakistan dove i cristiani sollecitano da anni il ritiro della legge sulla  blasfemia e la revisione della legislazione a impronta marcatamente  islamica».


D. L’islam vieta i suoi fedeli di passare a un’altra fede religiosa e la trasgressione di questo divieto comporta conseguenze molto gravi. Quali sono i fondamenti teologici e giuridici della norma e le sanzioni previste per chi la viola?


R. «Nell’islam la libertà religiosa viene concepita anzitutto come libertà di aderire alla vera religione, che è l’islam, mentre il passaggio ad altre fedi è giudicato qualcosa di innaturale e quindi viene severamente proibito. I musulmani liberali sottolineano però che Maometto non ha mai chiesto di uccidere un apostata, e anzi è intervenuto in due occasioni per impedire ai suoi di farlo. Il ricorso alla pena di morte non sembra avere fondamenti islamicamente accettabili. Eppure esso si è storicamente affermato e negli ultimi decenni, parallelamente al cosiddetto “risveglio islamico”, è tornato tragicamente d’attualità, perché i sostenitori delle correnti radicali hanno fatto pressione affinché chi abbandona l’islam venga severamente punito. Così  alcuni Paesi hanno introdotto nella Costituzione o nel codice penale il reato di apostasia, cosa che peraltro è in evidente contrasto con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e che pure ripugna alla coscienza di molti musulmani».


D. Quali sono i casi più famosi di condanne pronunciate nei confronti di apostati?


R. «La vicenda dei Versetti satanici di Salman Rushdie e la condanna a morte decretata con una fatwa dall’ayatollah Khomeini nel 1989 è l’episodio più noto e ha probabilmente fatto da detonatore riproponendo il nodo dell’apostasia a livello mondiale, ben al di là dei pur estesi recinti della comunità islamica. Ma altre vicende hanno riportato la questione alla ribalta anche in anni recenti: ricordo la condanna nel 1995 del docente universitario Nasr Hamid Abu Zayd, o il caso della scrittrice Nawal al-Sadawi, portata nel 2001 in giudizio per apostasia da un avvocato islamista, nonostante le proteste di numerose organizzazioni femministe o di associazioni per la difesa dei diritti dell’uomo. Questi intellettuali sono riusciti ad evitare l’esecuzione della condanna.


Meno fortunato è stato un altro intellettuale egiziano, Farag Foda, assassinato nel giugno 1992 da un commando radicale poco dopo essere stato dichiarato apostata dalle autorità religiose. Al processo contro gli assassini di Foda, lo sceicco Muhammad al-Ghazali, una figura molto nota per la sua moderazione, è venuto a testimoniare a favore della difesa e ha giustificato l’assassinio di Foda appoggiandosi alla sharia. Un altro attentato, questa volta fallito, ha avuto come obiettivo nel 1995 lo scrittore egiziano Naghib Mahfouz, 83 anni, il primo arabo ad essere insignito del premio Nobel per la letteratura (1988). Il suo romanzo Il rione dei ragazzi, scritto negli anni Cinquanta e ancora all’indice in Egitto, è considerato blasfemo da molti ed è stato la causa scatenante dell’attentato.


C’è poi la vicenda della scrittrice bengalese Taslima Nasreen, costretta a vivere in clandestinità a causa delle minacce dei gruppi integralisti che chiedono che venga arrestata e messa a morte per blasfemia. Nel 1994, infatti, la Nasreen era stata accusata di “offesa alla religione”, un reato previsto dal codice penale del Bangladesh, e ha perciò dovuto rifugiarsi in Occidente.


Ma ci sono molti altri casi, meno noti all’opinione pubblica mondiale, che riguardano gente comune. Uno di questi è il caso di Mohammed Omer Haji, un profugo somalo di 27 anni residente nello Yemen, condannato a morte nel 2000 nonostante il suo status di rifugiato, perché si era convertito al cristianesimo insieme alla moglie. È stato torturato in prigione per costringerlo a rivelare i nomi dei suoi “complici” e ad abiurare la fede, ma invano. Alla fine, e secondo la prassi, il giudice ha   dato a Haji una settimana per dichiarare, per tre volte, il suo formale ritorno all’islam, pena la morte. L’interessamento di alcune organizzazioni internazionali gli ha permesso di sottrarsi alle sanzione: attualmente egli vive insieme alla famiglia in Nuova Zelanda, dove gode di una forma di asilo “religioso”.  


Non fu altrettanto fortunata nel 1994 la fine di 4 musulmani che si erano convertiti vent’anni prima al cristianesimo nella diocesi sudanese di Rumbek e diventati successivamente catechisti: vennero fustigati dalle forze di sicurezza governative e poi crocifissi per aver rifiutato di ritornare all’islam».


(Da Avvenire, 2-2-2002)