CONSIDERAZIONI SUL MARTIRIO

  • Categoria dell'articolo:Apologetica

I caratteri dei martiri cristiani dei primi secoli. Rispetto dell’autorità politica, ma sopra ogni cosa l’amore per Cristo e per la Chiesa. E la certezza di una vita eterna

CONSIDERAZIONI SUL MARTIRIO


di Marta Sordi


 


Nei tre secoli fra Tiberio e Costantino la persecuzione dei Cristiani non fu costante e, spesso, non provocata dallo Stato, ma, specialmente in ambiente asiatico, da sollecitazioni popolari: il senatoconsulto su cui la persecuzione si fondava era estremamente generico, in quanto era nato dal rifiuto di una proposta di Tiberio nel 35 di riconoscere la liceità del culto di Cristo: la notizia di Tertulliano, che parla di questa proposta e del senatoconsulto che ne seguì (Apol. V,2), non è un’invenzione apologetica, perché dà anzi alla condanna dei Cristiani un fondamento giuridico ineccepibile, la libera decisione dell’organo (il senato) a cui spettava, ancora in età giulio-claudia, il riconoscimento della liceità di un culto. Il primo imperatore che applicò il senatoconsulto fu però Nerone, dopo la svolta del 62 d.C., con cui ruppe con la tradizione del principato giulio-daudio e dette un’impronta autocratica e teocratica al suo governo.


Nel 1º secolo i martiri furono numerosi sotto Nerone (specie dopo l’incendio del 64: Tacito parla di una multitudo ingens) e sotto Diocleziano, nel 95, che mise a morte per ateismo e costumi giudaici, cioè per cristianesimo, anche eminenti personaggi dell’aristocrazia romana, fra cui Flavio Clemente e Acilio Glabrione. I loro nomi ci sono noti però solo dalle fonti pagane (Cassie Dione), perché la letteratura cristiana sui martiri nacque, con forme varie (lettere di una Chiesa all’altra, Atti processuali, Passiones) solo nel II secolo. Si è molto discusso sull’origine di questa letteratura, sulle forme da essa assunte, sui modelli da cui ebbe origine: io ritengo che il testo più antico sia la lettera della Chiesa di Smirne a quella di Filamelo (ambedue in Asia) sul martirio di Policarpo, vescovo di Smirne, databile – io credo – al 155 d.C. sotto Antonino Pio. Ciò che caratterizza questo testo è il fatto che esso è un documento certamente ecclesiale e da leggere ai fedeli e, nello stesso tempo, un documento chiaramente polemico, teso a dimostrate quale è il vero martirio, il martirio secondo il Vangelo, in contrasto con una mentalità nuova che stava diffondendosi tra i Cristiani dell’Asia Minore e che stava per sfociare nell’eresia montanista.


All’esempio di Policarpo viene contrapposto, infatti, fin dall’inizio, il caso di un certo Quinto Frigio, che, con imprudenza e arroganza, si era autodenunciato come cristiano e poi, davanti alle minacce e ai tormenti, era arrivato all’apostasia, “dimostrando a tutti che non ci si deve esporre ai tormenti e alla morte per amore del pericolo”. L’arroganza provocatoria dell’autodenuncia sarà il comportamento preferito dal Montanismo, insieme al rifiuto dell’autorità statale e alla pretesa di una nuova rivelazione profetica.


Opponendosi a questa mentalità, Policarpo ribadisce, davanti al proconsole d’Asia, il rispetto che i Cristiani sono abituati a mostrare alle autorità stabilite da Dio e gli autori della lettera lo esaltano come “il maestro apostolico e profetico più degno di ammirazione dei nostri tempi”. La lettera diventa così una dimostrazione, attraverso il comportamento del martire e gli avvenimenti stessi, di quello che, secondo la coscienza ecclesiale, deve essere il martirio e del significato che la venerazione dei martiri ha per i Cristiani: non culto idolatrico che soppianta il culto di Cristo, ma manifestazione dell’amore per quelli che, di Cristo, sono stati “discepoli e imitatori”.


La Chiesa comincia con questa lettera ad approfondire il tema del martirio, rispondendo sia alla nascente eresia montanista, che lo cercava nello spirito delle rivolte giudaiche del I e II secolo e in conflitto con l’impero, sia alle accuse, che cominciavano a diffondersi anche tra i pagani, di rozza idolatria. Al di là della forma letteraria, che, come si è già detto, è diversa nei documenti autentici a noi giunti del II e del III secolo, il martirio, cioè la testimonianza del martire, si presenta sempre come un dialogo col suo giudice, che cerca di convincerlo all’abiura, minacciando la pena di morte e, poi, pronunziando la condanna.


Segno inconfondibile di autenticità è proprio la figura del giudice, che, nei documenti, pressoché contemporanei ai fatti, è quasi sempre ostile (fa eccezione il prefetto del pretorio Tigidio Perenne, che condannò il martire Apollonio) ma non è mai un sadico, come negli Atti manipolati in età tarda.


Nei dialoghi a noi conservati la testimonianza, implicita nella confessione stessa di Cristianesimo, riguarda innanzitutto Cristo, ma è spesso arricchita di toccanti accenti personali (“È il Re che mi ha salvato” dice Policarpo; “È il Figlio di Dio annunciato dai profeti e Maestro di buoni insegnamenti”, dice Giustino); la concezione della divinità; la vita eterna e la sopravvivenza dell’anima dopo la morte; la moralità dei Cristiani; l’atteggiamento dei Cristiani di fronte alla società e allo Stato. Il carattere comune a tutti i martiri è il coraggio davanti alla morte; quasi tutti accettano la condanna con un Deo gratias; la libertà di parola (la parresia), che essi mostrano, nasce dalla certezza con cui la fede è vissuta. Nella chiesa antica, che pure teorizzò, con Giustino, la possibilità di un’adesione inconsapevole a Cristo, non c’è posto per un Cristianesimo anonimo, che rifugge dalla proclamazione pubblica della propria fede.


La Chiesa antica, che condannò nel Montanismo la ricerca imprudente del martirio, condannò anche gli astuti sotterfugi con cui, comprando certificati attestanti un sacrificio agli dei che non era mai avvenuto, molti Cristiani tentarono di sottrarsi, sotto Decio, alla condanna e ritenne sempre che la confessione del martire davanti ai tribunali e ai poteri dei mondo fosse un fattore essenziale per la diffusione del Cristianesimo.


C’è un ultimo aspetto che ritengo degno di attenzione: il sentimento della libertà e della dignità umana, caratteristico dei martiri e che accomuna il senatore romano Apollonio, condannato in seguito ad una denuncia sotto Commodo nel 185, e la giovane matrona cartaginese Perpetua, condannata in Africa sotto Settimio Severo nei primi anni del III secolo: tale sentimento scaturisce da un modo nuovo di amare la vita. Al prefetto del pretorio che gli domanda se c’è in lui una volontà di morte, Apollonio risponde: “Volentieri vivo, ma l’amore della vita non mi induce ad avere paura della morte, perché niente è più prezioso della vita eterna, che è l’immortalità dell’anima che in questa vita ha vissuto bene”. E Perpetua, in nome della libertà per cui accetta di morire, rivendica il suo diritto di scendere nell’arena senza subire il travestimento di sacerdotessa di Cesare, e quando, lanciata in aria da una vacca infuriata, si accorge che le si è strappata la tunica e si sono scompigliati i capelli, li riordina e sistema la veste, perché non è conveniente che una martire soffra con i capelli disciolti, “come se fosse in lutto nel momento della sua gloria”.


 


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“Quando Policarpo si presentò al proconsole, rinnovata caldamente la sua professione di fede, sprezzò le cruente imposizioni del giudice. Il proconsole tentava di spingerlo a bestemmiare il Signore e gli ripeteva: “Pensa all’età che hai, se non badi a tutto il resto. Questa tua vecchiaia non potrà affrontare supplizi che spaventano anche i giovani! Devi giurare per Cesare e la sua fortuna e dire: morte agli empi’. Policarpo allora, con le labbra semichiuse, e, come se non lui stesso, ma un altro parlasse in lui, quasi senza articolare la voce, percorse con lo sguardo tutto il popolo empio e profano presente nell’arena. Trasse quindi un sospiro dal profondo del cuore e, mirando la maestà del cielo, disse: “Muoiano gli empi'”
[Martirio di san Policarpo secondo l’antica versione latina, IX]