CATTOLICI NELLA TEMPESTA

Il cedimento della maggioranza dei cattolici davanti alla “Contestazione” del 1968. Di Emanuele Samek Lodovici, tratto da: AA.VV, Dov’è finito il ’68. Un bilancio per gli anni ’80, Milano 1979.

Per parlare della posizione (prima ancora che delle responsabilità) dei cattolici di fronte alla contestazione, bisogna avere una totale assenza di complessi davanti alle proprie lacune e una buona dose di ignoranza semplificatrice. Il typus che si intende descrivere, infatti, è talmente vasto e sconsiglia talmente le sintesi, che le dichiarazioni di inabilità non sono una cautela astuta, ma il meno che si possa dire, pena il rischio di cadere nella scoperta dell’ovvio e del banale.
Come, infatti, evitare senza una simile dichiarazione di umiltà, quel tipo di verità sonore, caratteristiche della risposta “moderata” al nostro problema secondo cui per esempio, l’atteggiamento della Chiesa, è stato e deve essere improntato al sì ma, al ne quid nimis, alla giusta mediazione tra “l’anticipazione profetica del futuro” e “la fedeltà alla tradizione che vive nella continuità sempre rinnovantesi col passato”, oppure alla doppia presa di distanza, “in periodi di transizione come il nostro”, tanto dalla “tentazione di aggrapparsi al ricordo nostalgico di ciò che non è più” quanto “di rifugiarsi nel sogno di ciò che non è ancora” (1)?
Il genere e l’utilità di queste prescrizioni, come ben si vede, è pressoché nullo, per quanto la loro verità possa risultare incontrovertibile (anzi forse proprio per questo); sono affermazioni, infatti, più che correnti all’interno del mondo cattolico, ma che, non mostrando un contenuto chiaro e definito tale che abbia senso contrapporlo ad altri, non differiscono di molto da quelle proposizioni matematiche di cui parla W.O. Quine, secondo cui “un sessantenne non deve avere quarant’anni” (e neppure settanta).
Tuttavia la nostra dichiarazione di umiltà non toglie che in qualche modo si debba cominciare, liberandosi così dall’accusa che un giorno ci verrà fatta di non aver parlato quando ancora si poteva. Poiché tutti sanno e perciò tutti spiegano, tenteremo anche noi di indicare sotto forma di alcune proposizioni generali quelli che, a nostro avviso, sono stati gli errori (commessi a suo tempo, ma è un tempo che è tutt’ora in corso) di cui oggi i cattolici subiscono la pena del contrappasso; errori certamente uniti a grandiose intuizioni di verità, ed errori infinitamente minori di quelli che parallelamente sono stati compiuti dal mondo laico (per non parlare di quelli da addebitarsi all’incredibile insipienza del partito democristiano o all’empietà del progressismo cattolico dei vari Balducci, La Valle, Turoldo, fedeli al motto illuminista secondo il quale, in caso di battaglia, il mezzo migliore per far fronte ai traditori, è di precederli); ma che non per questo sono meno errori. Né di questo c’è da meravigliarsi. La Chiesa, come mysterium lunae, ovvero come realtà che vive con le sue fasi, secondo l’espressione di Agostino, per un verso nell’oscurità e nel pianto, per un altro nello splendore e nella luce di Cristo-Sole (2), come è noto, anche quando vive del chiarore visibile delle opere dei suoi membri è non meno coperta insieme dall’ombra e dalla opacità degli errori di quei membri stessi. Fatta di peccatori è santa; fatta di gente e di cose che vengono meno, è indefettibile; fatta di soggetti che sbagliano, è infallibile.
 
Una grande occasione perduta
Anzitutto il fatto : la contestazione del ‘68 e la crisi che come batacchio di campana è risuonata all’interno della società civile, è stata, possiamo dire, per i cattolici la grande occasione perduta. Una pausa: qui non ci interessa valutare se la mozione, i motivi, di quella crisi fossero artificiali, come in gran parte crediamo. Nessuno, infatti, ci toglierà dalla mente l’aspetto costruito dello scoppio della contestazione, signo dato, a segnale convenuto, dalla Svezia alla California, dalla Lombardia alla Germania, in situazioni sociali, ambientali, culturali, politiche, profondamente diverse. E nessuno, pure, ci toglierà dalla mente l’impressione che in quell’operazione non abbia avuto larga mano, da una parte, la grande industria culturale goscista (chi ha pubblicato Marcuse?) e, dall’altra, lo spirito borghese (3), stretti in un’alleanza indissolubile per distruggere ciò che resisteva dell’ordo catholicus e della sua nozione fondamentale, ovvero che l’uomo non può fare a meno di Dio. Non ci interessano, dunque, gli aspetti di sapiente strategia tesa a schiantare la cristianità, paludandosi delle vesti di chi vuole trasformarla da “sociologica” ad “autentica”; ci interessa indicare, invece, in che cosa consistette quell’occasione perduta. Ogni periodo di crisi pone chi abbia una concezione della realtà totale e derivantegli da lontano, di fronte alla possibilità di riaffermare i suoi valori, nel nostro caso i valori eminentemente religiosi, ma non solo quelli; anche, per esempio, i valori sociali e politici che discendono dalla visione religiosa (un certo concetto di famiglia come comunità naturale non fondata sull’interesse, e così via), e oltre a questi, anche i valori culturali consentanei a quelli di fede, ovvero tutti i temi della tradizione metafisica dell’occidente latino.
Ora, di fronte alla frantumazione della cultura accademica, della cultura storicista capace di far rivivere il passato solo come nozione, di fronte alla crisi dell’università laico-scientista in cui buffoni, nelle percentuali di rito, discutevano a suon di sevizie fìlologiche il rapporto tra le “due culture” (si ricordi il famigerato E. Snow o un Geymonat che esaltavano la scienza sulla filosofia “idealista” o sulla poesia solo perché capace, ci si scusi il paradosso, a costatare l’esistenza di un certo numero di usignoli afoni), di fronte all’evidente crisi della civiltà acristiana con i suoi miti della tecnologia sempre buona, dell’industrializzazione salvatrice, della produzione per il consumo, ebbene di fronte a tutto ciò che cosa fece il cattolicesimo ufficiale? Inventò la crisi del proprio schema, la crisi della propria cultura; si sentì coinvolto in una dissacrazione, quella inizialmente scatenata dalla contestazione, nei confronti della quale non aveva nessuna ragione per credersi oggetto.
Forse che la tecnologia forsennata, la mercificazione dell’amore, la cultura professorale, la distruzione dei piccoli mestieri, la criminalità, l’abbruttimento pubblicitario, l’infame devastazione della natura, erano un portato o una conseguenza del cristianesimo? Basta prendere in mano i testi della grande tradizione patristica e medievale, nonché i moralisti del Cinque-Seicento, per passare poi ai pensatori cattolici controrivoluzionari anti-industriali, anti-umanistici, anti-società di massa dell’Ottocento, per rendersi conto che una cultura cristiana conscia del proprio passato non aveva alcun motivo per accusare una chiamata di correo. Ma così, purtroppo, non fu; si credette che le urla dei contestatori fossero la vox populi e si trasferì la crisi del pensiero laico all’interno del proprio mondo, e quel mondo entrò effettivamente in crisi.
 
Colpevole oblio
Chi vuoi avere una conferma della incapacità dei cattolici dell’epoca di pensare che era proprio il loro momento, il momento di riproporre al posto del razzismo darwiniano, dello storicismo crociano, dell’esistenzialismo sartriano, autori magari come Rosmini, Manzoni, Vico, Malebranche, Agostino, Tommaso e altri più moderni ma in linea con quella tradizione (4), può scorrere il catalogo di una casa editrice come la Jaca Book, fiancheggiatrice di un movimento ecclesiale “G. S.”, che in male come in bene fu per molti aspetti protagonista di quegli anni (e sotto altro nome lo è ancora). Vi troverà reportages di stalinisti australiani come W. Burchett, diari anonimi di guerriglieri sudamericani, opere complete di Kim Il Sung (dittatore nord coreano), libri di R. Debray (compagno di lotta di Guevara), di S. Corvisieri (già leader di Avanguardia operaia) scritti e discorsi di Fidel Castro, libri di marxisti dichiarati come P. Naville, L. Althusser, R. Luxemburg, di terroristi brasiliani come C. Marighella o venezolani come D. Bravo e tanti altri ancora; insomma vi troverà un quadro completo di come un gruppo di cattolici ortodossi, non neomodernisti, in una parola fedeli alla Gerarchia, avesse esitazione ad essere se stesso e si facesse rimorchiare nel giudizio sulla società dal marxismo, prendendolo di fatto come metodo di analisi del sociale, scindibile dal suo intrinseco ateismo, a cui aggiungere estrinsecamente, come patetico “supplemento d’anima”, una esperienza cristiana.
Si accettò, in altri termini, il giudizio che altri dava della situazione (5) e si scambiò, ecco il primo grande errore conseguente, la mancanza di rigore nel riproporre integralmente la dottrina cristiana sulla società, come un atteggiamento di moderazione, come un atteggiamento positivo; si giustificò il fatto di non dire tutta la verità con il rifiuto che l’interlocutore prestava ad essa, facendo le viste di credere che quel rifiuto coinvolgeva solo la presentazione fino ad allora corrente della dottrina, senza neppure lontanamente supporre che nella gamma dell’atteggiamento umano (in particolare dell’atteggiamento umano di fronte al cristianesimo) si può passare dall’ignoranza invincibile alla malizia consapevole, al rifiuto in tutta cattiva fede di ciò che viene proposto. E così al posto di riproporre integralmente la propria visione ci si accusò di un torto che non c’era e si cominciò a rivedere delle parti, a smontarle, a dire inconsapevolmente “questo sì”, “questo no”.
II caso della dottrina sociale della Chiesa è forse il più vistoso; al posto di rendersi conto che essa era una risposta morale, traente cioè i propri canoni interpretativi non dalla storia ma dalla rivelazione naturale (e dal suo nerbo: l’uomo è immagine di Dio), si accettò l’interpretazione che di essa dava l’interlocutore, quella di essere una risposta ideologica, operativa, fatta per ottenere un’egemonia sociale, dedotta da situazioni storiche contingenti e in concorrenza perciò, nell’azione che prescriveva, con altri tipi di risposte ideologiche (fatalmente da preferirsi perché apparentemente più precise).
Mentre è chiaro, o doveva esserlo, che una risposta morale, pur non avendo ricette immediate per l’azione, nel prescrivere le condizioni negative di essa (quel che ha da evitarsi), dice già moltissimo sulla strada da intraprendere; per esempio nel caso concreto del diritto di proprietà, una volta chiaro che cosa si intenda per libertà, non sarà difficile smascherare le false risposte del liberismo e del regime pubblico dei beni economici.
Così comunque non fu, e, per tornare al nostro tema, fatte tutte le concessioni all’ingiustizia delle generalizzazioni, il primo grande errore dei cattolici fu questo: non si ebbe il coraggio di essere fino in fondo se stessi, non si credette di avere tendenzialmente, a partire dalla propria tradizione, la soluzione per tutti i problemi, e si cominciò a pensare di scegliere la via delle soluzioni intermedie, convinti che la via della mediazione, della ricerca del buono ad ogni costo negli altri, fosse quella giusta, dimenticando con ciò un antico adagio medievale: bonum ex integra causa, malum ex quocumque defectu.
E così dalla mancanza di ‘integralità’ si passò al secondo errore come per un facile piano inclinato: si cominciò ad accettare il fatto solo perché questo esisteva, dando ragione all’infame battuta napoleonica secondo cui una “forza, soprattutto quando l’abbiamo davanti, non è mai ridicola”. Si dirà che questo fu l’atteggiamento soprattutto del progressismo cattolico, ma va risposto, purtroppo, che in questo caso il progressismo non rappresentò se non la punta di un iceberg; non è difficile, infatti, trovare in certi strati della stessa Gerarchia un atteggiamento di accettazione del dato che contrasta con il dovere primario di giudicarlo. E la documentazione non manca. Fatto non fu (e non è) soltanto lo spirito borghese che si cercò di battezzare, il livellamento dell’istruzione gabellato per estensione della cultura, la stampa e la televisione come mezzi indifferenti all’uso che se ne poteva fare (6), la spinta alla socializzazione e alla vita di falansterio interpretata come una “grazia” (7), la motorizzazione come mezzo di promozione sociale (da lavoro), l’estendersi delle zone industriali salutata come beninteso dominazione della natura; non fu solo tutto questo. Fatto furono e sono anche i regimi comunisti che si sono costituiti di recente, come la Cina, magari salutati come il massimo modello di umanismo economico rispettoso dei valori culturali, o quelli di data più antica e la cui immane potenza consiglia di trattare, magari alle spalle e contro le richieste dei cattolici locali (8); fatto sono anche i gruppi anticristiani presenti nelle università cattoliche, presenze delle quali, per un incredibile concetto di pluralismo, bisogna tener conto (magari offrendo, come a Milano, un’aula l’ironia della sorte: l’aula S.Tommaso!) perché da lì possano concertare tutta la loro propaganda; fatto furono, e sono, tutte le istanze, tutte le richieste di tutte le categorie, purché siano autentiche e sociali, per esempio anche quelle che chiedono la soppressione di feste religiose di antichissima istituzione, perché, si sa, facendole diventare giornate lavorative il paese si salverà; fatto, infine, furono e sono i giovani, questa categoria inventata dalla contestazione e della quale non c’è modo di capire quando comincia e quando finisce, i cui bisogni e le cui ansie, purché abbiano la forza di farsi percepire un po’ minacciosamente, vanno religiosamente accolti, perché i “loro costumi”, come è stato detto senza un briciolo di umorismo, A) “ci mettano di fronte a delle realtà del mondo d’oggi”, B) “riflettono i mutamenti avvenuti nel nostro tempo”, C) e secondo quello Spirito “bisogna formarli” (9).

Generico sentimentalismo
E, con ciò, siamo arrivati al terzo errore, ovverosia a quel generico sentimentalismo, a quell’insopportabile pathos teso a tutto comprendere e a tutto perdonare, purché dall’altra parte si ravvisino i segni dell’impegno, della buona fede, dell’esperienza sofferta, della dedizione, quasi che la tradizione cattolica non avesse avvertito da secoli che martyres non facit poena sed causa (10). E invece, al posto della capacità di indignarsi, di utilizzare santamente l’ira che, come dicevano i classici, aiuta la ragione “ad ergersi più gagliarda contro il male” (11), abbiamo avuto (e abbiamo) tutte quelle clorotiche, timide, melense, cremose esortazioni all’abbraccio, all’amore. Che dire di tanto sentimentalismo sulla natura umana, che dire di un concetto di amore che sembra dimenticare quanto esso sia esigente? Tommaso e Aristotele, che di queste cose se ne intendevano, consigliavano di guardarsi dall’illecita pietà, dal confondere l’amore con la comprensione, perché dietro la pietà per gli altri vi può stare nascosta la pietà per se stessi, vi può stare nascosto una sorta di servizio reso anticipatamente ai nostri difetti, perdonandoli in altri. Il perdono può nascere da molte cose : dalla magnanimità, e sta bene, ma può nascere semplicemente dall’amnesia, o dalla non valutazione delle mostruosità compiute, e in questo caso diventa una sorta di cappello che si mette indifferentemente su tutto e su tutti. È questo il perdono cristiano? È tolleranza umanitaria?
Così, di atteggiamento sbagliato in atteggiamento sbagliato, se ne incorse in altri la cui proiezione dura tutt’ora, e dei quali non è difficile dare le coordinate. Segnaliamone ancora tre.

Il mito della partecipazione
Primo : la concezione della Chiesa come edificio di pubblica utilità, una sorta di para-Unesco il cui fine fondamentale per farsi giustificare agli occhi dei non credenti o degli indifferenti starebbe nell’esaltazione di un ecumenismo ‘zoologico’ tra tutti gli uomini, nella promozione sociale, nel recupero dei drogati, nel risolvere i conflitti razziali, nel far fronte, infine, insieme agli altri, mediante compromessi storici, agli impellenti problemi economici perché “in momenti di emergenza tutti devono mettere insieme le proprie forze per far sì che il tetto non crolli sulla testa”; e tutto questo senza un minimo di trasalimento di fronte alla prospettiva di un nuovo clericalismo (il clericalismo dell’alleanza altare-tribuni al posto del vecchio trono-altare) in cui la Chiesa interviene come Chiesa a fianco di un braccio secolare dal quale i cattolici sono “ancora divisi sui principii fondamentali” (12).
Secondo: l’incredibile esaltazione della democrazia come la forma politica più confacente al cristianesimo, senza percepirne, per converso, oltre agli innegabili pregi, tutte le possibilità di degradazione (13). Come non aspettarsi, dopo anni di sbornie sulle possibilità di libera scelta offerte dalla democrazia, sulla interscambiabilità dei ruoli pubblici, sulla investibilità e avocabilità dal basso, in ogni momento, dell’autorità, come non aspettarsi che l’antica, non-democratica, virtù cristiana e feudale della fedeltà non entrasse in crisi? Forse che il cavaliere, fidelis del signore, lo seguiva a seconda delle sue fortune, e interrompeva il proprio rapporto per scegliersene un altro quando le cose andavano male, o non piuttosto come è evidente si inabissava con lui a vele spiegate? Come non pensare che a lungo andare la convinzione dell’assoluta svincolatezza non si sarebbe riversata anche sulla concezione di quel che fosse il matrimonio e, in quel punto come non aspettarsi che la mentalità contrattualistica, propinata a piene mani, avrebbe condotto inesorabilmente al divorzio (per non parlare in questo caso delle altre concause)?

Terzo: (e molto legato al punto precedente) il mito della partecipazione, esaltato a tutti i livelli e in ogni situazione come il toccasana. Vogliamo solo dare due esempi degli esiti di questo inconsulto panegirico.
La partecipazione dei religiosi, chiamati a riscrivere le costituzioni dei loro ordini, e questo perché inchieste sociologiche hanno stabilito che la castità o l’obbedienza sono in questa o in quella misura difficili o sgradite (14). Era necessaria un’inchiesta per conoscere ciò che urta l’uomo naturale? Ma soprattutto, l’immagine di un ordine, come quella di una religione, la si ricostruisce dal basso sulla base delle richieste dei suoi membri, chiedendo magari loro se ritengono la preghiera meno importante dell’azione e comportandosi di conseguenza, o non invece, al posto di ricostruire il cristianesimo a partire dalla media dei dati psicologici e sociologici di ciascuno, lo si annuncia dall’alto, dicendo “è questo e non diversamente”; chi ci sta ci sta, chi non vuole vada altrove. Come non capire che la crisi degli ordini religiosi è cominciata tutta da qui?
La partecipazione dei fedeli nella liturgia: quasi che il seguito ininterrotto di declamazioni, acclamazioni, inviti a far questo e quello, didascalie che vogliono impegnare, far capire, rappresentare al fedele ciò che avviene nella santa Messa, non corra il rischio di ridurre la preghiera a un semplice atto umano, il cui fine sta nel perfezionare se stessi, le proprie capacità di concentrazione, di trar conclusioni, di eccitare affetti, e non piuttosto, come deve essere, un atto di adorazione di Dio, compiuto da Dio attraverso lo Spirito (15). Forse che andare a Messa significa andare a lezione di teologia? E ancora su questo tema: perché quell’incredibile paura di molti vescovi ad applicare il paragrafo 54 della costituzione su La Sacra Liturgia, dove l’uso del volgare viene soltanto ammesso in alcune parti? È vero che partecipando in italiano si capisce di più, ma non è forse anche vero che quella è la lingua di tutti i giorni, la lingua, dunque, sottoposta ad usura? E chi dice che si prega meglio quando si capisce il senso delle singole parole che si dicono ad una ad una e non piuttosto quando si capisce il senso unitario che sta sotto a tutte quelle, senso che non è necessariamente espresso in italiano?
E con questo crediamo che basti.
In una parola, insomma: se si vuole parlare degli errori dei cattolici compiuti in questi anni di fronte alla contestazione, non si riesce a stare purtroppo con il dito sulla bocca. La paura di essere se stessi, l’accettazione del fatto, la vocazione al perdono umanitario e l’incapacità di indignarsi, l’immagine promozionale e clericale in cui parte della Chiesa si riconosce i miti del democraticismo e del partecipazionismo, tutti questi punti rappresentano un insieme di vizi e di risposte errate, tutt’ora in corso, a quel fenomeno che fu la contestazione.
 
Ingiustificato ottimismo
Se si dovesse riassumere quegli errori riconducendoli ad un unica matrice, forse si dovrebbe dire che alla base di tutto vi fu (e vi è) un inguaribile e ingiustificato ottimismo; quell’ottimismo del tutto umano che discende dalla mancanza di coscienza che il male c’è, ed è all’opera tragicamente nel mondo. O ancora dall’indebita sovrapposizione di una visione naturalistica (in cui la storia è come un circuito chiuso nel quale le operazioni sono suggerite e portate a termine esclusivamente da uomini) a una visione religiosa, in cui si lascia posto anche all’inafferrabile Avversario, alla presenza terribile delle sue suggestioni.
Si noti: abbiamo detto che l’errore sta nella sovrapposizione di una visione naturalistica ad una visione religiosa, e non come vorrebbe qualcuno nella sovrapposizione di una visione fìlosofica a quella escatologico-cristiana. La visione filosofica di per se stessa non ha nulla di genericamente sentimentale, se è vero, come è vero, che il maestro universale della Chiesa, san Tommaso, 1’“ottimista” san Tommaso, ebbe a dire in una memorabile occasione che ad una conoscenza veramente penetrante delle cose create corrisponde, umanamente parlando, una fondamentale tristezza; che al dono della scientia corrisponde quel lutto di cui parla la beatitudine : “Beati coloro che piangono perché saranno consolati” (16).
 
Risposte positive
E con quest’ultimo richiamo al Diavolo e al pianto crediamo si possa paradossalmente concludere con una nota positiva questa breve analisi sugli errori dei cattolici. Non sono, infatti, essi ampiamente rimontati dalla perspicuità di un Magistero che ha promulgato l’Humanae vitae, il manifesto più grande e più profetico di non conformità al mondo del consumo sessuale? Non è questo stesso Magistero quello che si è opposto alle spinte secolarizzanti sul celibato ecclesiastico, indicando un modello di povertà radicale che spazza d’un colpo i pauperismi inventati a tavolino? Non è ancora questo stesso Magistero quello che ha proclamato di fronte al cretinismo della grande stampa che Satana, il più inquietante dei nostri ospiti interiori, non va mai in vacanza?
Che dire allora di questo doppio binario su cui sembra giocarsi il destino della Chiesa, da una parte pronta a diplomare in innocenza anche il turco a Lepanto, dall’altra pronta a richiamare il cattolico al suo compito, sgradevole ma salutare, di interrompere lo spettacolo e dire agli altri come andrà a finire? Si tratta di un atteggiamento schizoide?
Non lo crediamo.
Crediamo invece (nel senso antico della parola ‘credo’, ovvero , sono certo che, e non in quello moderno e svirilizzato di ‘non son sicuro di’) crediamo, lo ripetiamo, che si possa dire della Chiesa cattolica quello stesso che fu detto della Svizzera : Hominum confusione et divina providentia Helvetia regitur.

Emanuele Samek Lodovici
Tratto da:
AA.VV, Dov’è finito il ’68. Un bilancio per gli anni ’80, Milano 1979
per gentile concessione delle © Edizioni Ares http://www.ares.ed.mi/.


NOTE
(1) Queste parole sono contenute in un editoriale de La civiltà cattolica sul tema Credere oggi (dicembre 1971), p. 422.
(2) Cfr S. agostino, Enarratio in Psalmos, 10, 3
(3) Si provi, per una verifica, a cercare di scrìvere la biografia di Mario Capanna senza il Corriere della Sera
(4) Come, per esempio, E. Zolla, S. Weil, E. Gilson, A. Del Noce, T. S. Eliot e molti altri i cui nomi si troveranno quasi tutti tra gli autori di questo numero di Studi cattolici.
(5) Caratteristico il giudizio, riassuntivo di questo atteggiamento, dell’ex cardinale di Torino, a proposito del marxismo: “ … In quanto ideologia è chiaro che l’opposizione [dei cattolici al marxismo] è radicale; per il resto, la collaborazione in tutto ciò che serve alla promozione umana è, non dico legittima, ma doverosa… Io mi domando se sappiamo valerci abbastanza degli apporti che a questo riguardo ci possono dare non solo i cristiani, ma tutti: la Gaudium et Spes dice apertamente che la Chiesa non è solo lì per insegnare, ma anche per imparare dal mondo” (cfr Nuova Società, 1975, anno III. n. 64, inserto Cristianesimo e marxismo, p. 24).
(6) Rinvio, per i gravi rischi di questa concezione asettica dei mezzi di comunicazione, a quanto ho tentato di dire in Studi cattolici, n. 201, novembre 1977
(7) “La socializzazione non è più soltanto un fatto ineluttabile della storia del mondo. È anche una grazia” (Bulletin officiel de l’évecquè de Metz, settembre 1967, p. 4)
(8) Si consulti, al proposito, l’amarissimo Cronaca della Chiesa cattolica in Lituania, La Casa di Matriona, Milano 1976
(9) Da un resoconto de Le Figaro del 12 ottobre 1967, a proposito di un intervento di un cardinale di Curia.
(10) Cfr S. agostino, Enarratio in Psalmos, 34, 13; Epistula 185, 2, 9. Quello che importa non è soffrire, ma soffrire propter iustitiam.
(11) Così S. gregorio magno, Mordila in Job, 5, 45; San Tommaso aggiunge anche che fortis assumit iram ad actum suum, cioè che il forte si vale dell’ira per condurre a termine il suo atto.
(12) Così dichiara l’organizzatore del convegno su Evangelizzazione e promozione umana, p. Bartolomeo Sorge, all’intervistatore de La Stampa (15 settembre 1977).
(13) Si legga come esempio tipico la tavola rotonda organizzata nel 1967 dalla rivista  sul tema: Cristianesimo e democrazia.
(14) Stiamo pensando, tra tutti, all’inchiesta che l’ordine dei Cappuccini ha commissionato a degli esperti per ricostruire l’immagine dell’ordine: cfr R. carli, F. crespi, G. pavan, Analisi dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, Etas Kompass Libri, Milano 1974; un’inchiesta corredata di grafici, questionari, variabili, indici di gradimento, e che non ci risulta aver strappato a nessun padre l’immortale biglietto-replica fatto stampare da Courteline a scorno di tutte le inchieste sociologiche: “Monsieur Courteline a pris connaissance de l’objet de votre enquète. Il a l’honneur de vous faire savoir qu’il s’en fout complètement”.
(15) Si legga l’ancora bellissimo articolo di bryan houghton, Orazione grazia, liturgia, in Conoscenza religiosa, 1969, pp. 90-108.
(16) Et ideo beatitudo luctus ponitur respondere dono scientiae (Summa theol., IIa, IIae, art. 4)