B. FRANCESCO FERNANDEZ DE CAPILLAS (1607-1648)

Timoroso che Dio, a cagione dei suoi peccati, non usasse misericordia ai villaggi ai quali era diretto, prima di entrarvi si prostrava con la faccia per terra e implorava da lui perdono e pietà. La sua virtù era ammirata da tutti. I non credenti rimanevano conquistati specialmente dalla sua modestia. Dicevano infatti: “È un Padre che non guarda né a destra, né a sinistra”. Un giorno nel recarsi al villaggio chiamato Moriang, cadde a terra due volte. Il superiore appena si accorse che era stanco, cercò di consolarlo, ma egli gli rispose: “Padre mio, sono troppo contento di queste tribolazioni; ringrazio il Signore perché, maltrattando il mio corpo, mi offre la possibilità di patire un poco per suo amore”.

15 gennaio
Questo missionario domenicano, protomartire della Cina, fu beatificato da S. Pio X l’11-4-1909. Francesco nacque il 24-8-1607 a Baquerin dos Campos, nella diocesi di Valencia (Spagna), da nobili genitori. A dieci anni, come già S. Domenico di Guzmàn ( +1221), frequentò l’università di Pàlencia, nel regno del Leon. I progressi che fece nella virtù dovettero essere più notevoli ancora di quelli da lui fatti nel sapere se, a sedici anni, si sentì spinto ad abbracciare la vita religiosa dei Frati Predicatori nel convento di San Paolo in Valladolid.

Nel corso degli studi il Beato, sentendo nascere in sé la vocazione missionaria, chiese di far parte della provincia domenicana del SS. Rosario nelle Isole Filippine, eretta dal capitolo generale dell’Ordine nel 1592 per la diffusione del Vangelo nelle Indie Orientali. Il suo viaggio da Siviglia al Messico e dal Messico a Manila durò quasi un anno. Il 5-6-1632, un mese dopo il suo arrivo, fu ordinato sacerdote e destinato ad esercitare la cura pastorale nel distretto di Cagayàn (Luzón).

Fu meravigliosa la messe che egli raccolse percorrendo per dieci anni da un capo all’altro la regione, perché, afferma un testimone, “la via per la quale aveva cominciato a servire il Signore era stata quella di contrariare se stesso in ogni cosa, la propria volontà, il proprio gusto. Non meraviglia quindi se, da molti anni, non facesse che chiedere al Signore molte croci così da renderlo simile a Lui die tanto aveva patito per noi in questo mondo”.

Tocolana fu il primo borgo in cui rifulse lo zelo e la carità del P. Francesco. I domenicani avevano eretto un ospedale, attiguo al convento, per gli indiani e ne affidarono la cura al Beato. Era edificante vederlo portare di propria mano il cibo ai malati. Quando incontrava per strada degli spagnuoli, il rispetto umano gli prospettava che era sconveniente per un sacerdote andare così carico di piatti e di pignatte per la strada. Allora egli diceva a se stesso: “O miserabile asinello ti vergogni? Ricalcitri? Devi camminare benché ti sia gravosa la soma”. Sottoponeva il proprio corpo alle punture delle zanzare che infestavano la regione, al caldo soffocante della stanza, a digiuni prolungati. Di notte dormiva poco, quasi sempre vestito, disteso e legato sopra una croce di legno che aveva messo sul letto. Malgrado tante penitenze, appariva lieto e sereno, andava a piedi di villaggio in villaggio per catechizzare i bambini, amministrare i sacramenti e confortare i morenti. Un giorno un sassolino gli penetrò nella scarpa. Considero un dono del Signore il dolore che gli cagionava. Dopo un po’ di tempo, però, gli penetrò nelle carni. Per impedire che il piede si gonfiasse dovette fare ricorso all’opera del chirurgo.

P. Francesco impiegava il tempo che gli rimaneva libero dalle occupazioni nella preghiera, nello studio e nello scrivere a quanti ricorrevano a lui per consiglio. Per meditare e comporre le prediche stava inginocchiato tanto a lungo che sulle rotule gli si formarono dei grossi calli. Era convinto che, con la sofferenza, avrebbe reso feconde le sue fatiche apostoliche.

Nel Capitolo provinciale, radunato nel 1641 a Manila, il Beato fu nominato Vicario di Tuao, ma egli disse ai superiori che preferiva essere inviato in qualche missione del Giappone o della Cina. Fu destinato alla città cinese di Fogan, nella provincia di Fukien. Vi giunse nel 1642 passando per Formosa. Appena fu in grado di esprimersi in lingua mandarino, cercò di essere padre e maestro dei cristiani affidati alle sue cure. Il suo servo attestò: “P. Francesco quando cammina non va, ma vola; e io non posso tenergli dietro nel viaggio”. Difatti, niente poteva trattenerlo dal recarsi dove c’era una persona da salvare. Per due anni fu tormentato da febbre intermittente. Certi giorni doveva starsene a letto immobile, ma se il superiore gli dava qualche obbedienza, quasi per miracolo riprendeva vigore. Costui del suo suddito affermò: “Il frutto che produsse nelle anime fu assai grande perché straordinaria era la sua diligenza nell’adempimento del ministero”.

Eppure per lutti i sei anni che rimase a Fogan, P. Francesco non cessò un solo giorno dal ritenersi un servo inutile. Timoroso che Dio, a cagione dei suoi peccati, non usasse misericordia ai villaggi ai quali era diretto, prima di entrarvi si prostrava con la faccia per terra e implorava da lui perdono e pietà. La sua virtù era ammirata da tutti. I non credenti rimanevano conquistati specialmente dalla sua modestia. Dicevano infatti: “È un Padre che non guarda né a destra, né a sinistra”. Un giorno nel recarsi al villaggio chiamato Moriang, cadde a terra due volte. Il superiore appena si accorse che era stanco, cercò di consolarlo, ma egli gli rispose: “Padre mio, sono troppo contento di queste tribolazioni; ringrazio il Signore perché, maltrattando il mio corpo, mi offre la possibilità di patire un poco per suo amore”.

Le croci più gravi gli provennero dai seguaci di Confucio. Già nel 1635 essi erano insorti contro i cristiani di Fogan distruggendo la loro chiesa. I missionari dovettero riparare quelle rovine e prepararsi a subirne delle peggiori. Nel 1644 P. Francesco fu destinato a evangelizzare la città di Xeuning dove molti cristiani avevano apostatato ed i letterati buddisti esercitavano un incontrastato influsso sul popolo. Con la singolare sua dolcezza il Beato ne ricondusse molti all’ovile.

In quello stesso anno i tartari, che già si erano impadroniti di Pechino rovesciando la dinastia dei Ming, invasero il F’ukien e occuparono la città di Fogan. I buddisti ne approfittarono per inventare nuove calunnie contro i cristiani e i missionari asserendo che costoro cospiravano contro l’ordine stabilito, che mediante il battesimo reclutavano donne per fini innominabili e inducevano le giovani a non maritarsi per averle più ubbidienti ai loro capricci. Per tre anni il viceré non prestò loro fede e i cristiani continuarono a moltiplicarsi nonostante le continue minacce. Il Beato stesso che, senza ombra di timore, esercitava il ministero nei dintorni delle residenze Ting-teu e di Moyan scrisse nella sua Relazione: “Quando passiamo tra i buddisti essi non fanno altro che maledirci, trattandoci da ladroni stranieri, burlandoci e schernendoci. Talvolta raccolgono pietre, facendo atto di tirarcele, e talvolta ce le tirano di fatto. Però non essendo giunta l’ora nostra, non ci recano danno, né ci feriscono”.

Soltanto il 9-8-1647 il governatore tartaro del Fukien, al quale i pagani avevano dato ad intendere che i cristiani incitavano il popolo alla sollevazione e alla ribellione contro il nuovo imperatore, si lasciò indurre a emanare un decreto di proibizione della fede cristiana, pena la confisca dei beni, l’esilio e la carcerazione. I soldati riuscirono a mettere le mani addosso al P. Francesco il 13-11-1647, nei pressi di Fogan, mentre tornava da confessare un infermo. Con sé non aveva che un crocifisso d’avorio e l’occorrente per celebrare la Messa. Rimasero quindi delusi i soldati che lo spogliarono degli abiti per impossessarsi del denaro che supponevano portasse con sé.

Il mandarino civile chiese al prigioniero che cosa era venuto a fare in Cina e dove abitava. Il martire gli rispose: “Sono venuto a predicare e a insegnare la legge di Dio alla povera gente che non lo conosce e serve invece il demonio, adorandolo in vani e falsi idoli, opere delle mani degli uomini. Quanto poi al luogo di mia dimora sappi che la mia casa è tutto il mondo, il mio tetto il cielo, il mio letto qualunque lembo di terra. È Iddio che mi provvede di tutto il necessario alla vita… Quanto alle accuse che ci fanno i nostri nemici, verificale tu stesso che sei giudice, e vedrai che non hanno fondamento alcuno, ma procedono solamente dall’odio che nutrono contro di noi, e dal desiderio che nessuno dia il consenso a ciò che predichiamo. Del resto, non credere che mi spaventino questi tormenti ed altri maggiori, nei quali potrei trovarmi, poiché li ritengo come una fortuna per me”. Il mandarino non volle intendere ragione, ritenne il missionario degno di morte perché “bestemmiatore degli dei, spregiato re dei sacri riti e cerimonie dell’impero, sollevatore del popolo, introduttore di leggi nuove, false, sommamente nocive e perniciose a tutto il regno”.

Non mancarono le petizioni di influenti cristiani perché il P. Francesco fosse scarcerato, ma il mandarino se ne fece beffe e il giorno dopo ordinò che il prigioniero fosse torturato. Al cenno del giudice i carnefici gli chiusero i malleoli tra due tavolette, al punto degli incavi, e le tirarono fortemente in maniera da spostare e fare ritorcere le ossa dei piedi. Lo strazio cagionato dall’infernale strumento è tale da far desiderare qualsiasi morte, anziché sottostarvi per brevi istanti. Il Beato tra quei tormenti si limitò soltanto a gemere: “Grazia, Signore, grazia, se non mi aiuti, perisco”. Quasi ciò non bastasse, l’iniquo giudice diede ordine ai manigoldi di percuotergli i piedi con un bastone. Al ventesimo colpo il tiranno non aveva ancora avuto la soddisfazione di cavare dalla bocca del paziente un solo sospiro. Ordinò allora che fosse trascinato per due volte da una parte all’altra del tribunale per accrescergli i dolori, ma il martire, evidentemente sostenuto dalla grazia di Dio, non perse la sua abituale serenità.

Il giudice promise all’intrepido figlio di S. Domenico “grandi cose” se ritornava in sé e abbandonava le passate follie, ma egli ne approfittò per tessere l’elogio della fede che aveva predicato. Per tutta risposta il giudice lo fece flagellare con delle canne spaccate di bambù. Ne rimase così malconcio e sfinito da essere incapace di rivestirsi delle proprie vesti da solo.

Nell’attesa del supplizio, P. Francesco dispiegò un’ammirabile zelo a vantaggio dei compagni di prigionia. Diversi ne consolò spartendo con loro le vesti e il cibo che gli procuravano i cristiani. Per il resto, nulla era più lontano dai suoi pensieri come l’uscire dal carcere. Perciò non volle mai che fosse dato del denaro per il suo riscatto. Quasi non fossero sufficienti i tormenti patiti, tutti i giorni si disciplinava e recitava il rosario con i prigionieri divenuti catecumeni. Scrisse al P. Giovanni Garcia, suo superiore: “Io sto qui con tanto piacere, come se mi trovassi in Ting-teu, giacché mi ci trovo per volontà di Dio. Oh, e quando sognasti tu, Capillas, di possedere ciò che tanti santi desiderarono?… Aiutatemi a rendere grazie a Dio per questo così singolare beneficio che mi ha fatto”. Al P. Commissario, Fra Giovanni degli Angeli, confidò di essere lieto di soffrire “giacché non sempre si trovano tali pietre preziose, come le ho trovate io in questi giorni”. Scrisse ancora al P. Garcia: “Sono pronto a tutto, e pienamente rassegnato alla volontà di Dio. Già so che cosa sia il patire: e l’altro giorno ebbi occasione di sperimentare la verità delle parole di Gesù Cristo, giacché sentii nei tormenti un così grande coraggio, che troppo differiva dal coraggio naturale. E che così fosse, ne sia prova che io, oltre a non fare caso del corpo, lo riguardavo come se non mi appartenesse”.

Il giudice, vistosi privo dell’oro dei cristiani e adirato perché il missionario si ostinava a seguire la legge di Dio, lo fece flagellare a sangue ancora una volta. Nel carcere il Beato dovette rimanere immobile per tre giorni essendo ridotto tutto una piaga. Siccome era irremovibile nella professione della fede, fu condannato ad essere decapitato insieme a un malfattore. Il boia gli troncò la testa nella città di Fogan il 15-1-1648 con un solo colpo di scimitarra. Per umiliarlo maggiormente ed esporlo al ludibrio della plebe era stato condotto al supplizio senza vesti.

Il corpo del martire fu precipitato nel fossato che circondava la città. Dopo due mesi il P. Giovanni Garcia lo riconobbe tra gli altri giustiziati dalle calze bianche che i carnefici non erano riusciti a togliergli dai piedi. I resti del Beato andarono dispersi. Non rimane che il capo, conservato nel convento di Valladolid, e la mandibola inferiore, conservata nel convento di Manila.

Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 1, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 189-193.
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