Islam e democrazie occidentali (I)

Di S. Em. il card. George Pell, arcivescovo di Sidney, in Australia. A Naples, nello Stato della Florida degli Stati Uniti d’America, il 4 febbraio 2006 si è tenuta una riunione della direzione dell’associazione d’imprenditori e di dirigenti cattolici Legatus. Nell’occasione è intervenuto S. Em. il card. George Pell, arcivescovo di Sidney, in Australia, con una relazione dal titolo Islam and Western Democracies. La traduzione del documento e le inserzioni fra parentesi quadre sia nel testo che nelle note sono della redazione della rivista cattolica Cristianità, N. 336 luglio-agosto 2006, info@alleanzacattolica.org.

Per me, personalmente, l’11 settembre [2001] è suonato come una sveglia. E mi sono reso conto che dovevo saperne di più sull’islam.
All’indomani dell’attacco [contro gli Stati Uniti d’America] vi era una cosa che lasciava perplessi. Molti dei commentatori e, apparentemente, anche dei governi della Coalition of the Willing [Coalizione dei Disponibili] sostennero che l’islam fosse essenzialmente pacifico e che gli attacchi terroristici fossero solo un’aberrazione. D’altro canto, incontrai un paio di persone, vissute in Pakistan dove avevano sofferto, che sostenevano che il Corano legittima l’uccisione dei non-musulmani.
Da trent’anni possedevo una copia del Corano, ma solo allora presi la decisione di leggere questo libro per mia cultura, come premessa per giudicare posizioni contrastanti. E raccomando anche la lettura di questo testo sacro dei musulmani, perché la sfida islamica è destinata a durare almeno per il resto della nostra vita.
È possibile che l’islam e le democrazie occidentali vivano insieme pacificamente? Che cosa dire delle minoranze islamiche nei paesi occidentali?
Le opinioni su questi punti vanno dall’ottimismo ingenuo al pessimismo più tetro. Quelli che pendono dal lato ottimistico della bilancia si appigliano alle garanzie degli specialisti per i quali il jihad è primariamente una questione di combattimento spirituale e per i quali estendere tale concetto al terrorismo si traduce in una distorsione dell’insegnamento coranico (1). Costoro mettono in risalto che l’islam stesso si autodefinisce come una «religione di pace». E additano le radici che l’islam ha in comune con l’ebraismo e con il cristianesimo e il culto che le tre grandi religioni monoteistiche rendono al solo vero Dio. E vi è anche l’impegno comune che musulmani e cristiani dimostrano verso la famiglia e la difesa della vita, come pure vi è il precedente della cooperazione che negli ultimi decenni è intercorsa fra paesi musulmani, Santa Sede e paesi come gli Stati Uniti, nel difendere la vita e la famiglia a livello internazionale, in particolare alle Nazioni Unite.
Molti commentatori rivolgono la loro attenzione alla varietà degli stili di vita musulmani — sunnita, sciita, sufi e alla miriade di variazioni loro proprie — nonché alla differenza delle forme che la devozione musulmana può assumere in luoghi come l’Indonesia e i Balcani — da una parte — e l’Iran e la Nigeria — dall’altra. Si sottolineano, del tutto a ragione, le interpretazioni assai divergenti che esistono riguardo al Corano e alla sharia e la capacità che l’islam ha mostrato nella sua storia di produrne nuove interpretazioni.
Nella situazione attuale, la lettura wahhabita, che sta al cuore dell’islamismo saudita, offre probabilmente l’esempio più importante di questa divergenza, ma la storia musulmana offre anche esempi più incoraggianti, come quella reinterpretazione della sharia, impostasi dopo la caduta dell’impero ottomano e soprattutto alla fine della seconda guerra mondiale, che ha permesso l’emigrazione di musulmani in paesi non musulmani (2).
Gli ottimisti prendono coraggio anche dal fatto rappresentato dalle conquiste culturali dell’islam nel Medioevo e dalle testimonianze di come esse si siano tradotte in tolleranza verso gli ebrei e i cristiani soggetti al dominio musulmano in quanto «genti del Libro». Alcuni negano o minimizzano l’importanza dell’islam come fonte di terrorismo o l’importanza dei problemi che più in generale affliggono i paesi musulmani, dandone la colpa a fattori quali il tribalismo e l’inimicizia interetnica, o al retaggio di lungo periodo del colonialismo e della dominazione occidentali, oppure al modo in cui i proventi del petrolio distorcono lo sviluppo economico dei ricchi Stati musulmani e sostengono governi oligarchici, oppure, ancora, alla povertà e all’oppressione politica vigenti nei paesi musulmani d’Africa; o alla situazione dei palestinesi e al presunto «problema» dello Stato d’Israele o, infine, a come la globalizzazione ha indebolito e distrutto la vita tradizionale e ha imposto valori loro estranei ai musulmani e ad altre realtà.
L’Indonesia e la Turchia sono additate come esempi di successo della democratizzazione delle società musulmane e il successo riportato da paesi come l’Australia e gli Stati Uniti nel presentarsi come crogiolo di diversità, nel quadro però di società stabili e che hanno riportato buoni risultati nell’assorbire persone provenienti da culture e da religioni assai diverse, viene spesso addotto come ragione di fiducia e di speranza nella crescita della popolazione musulmana in Occidente. La «normalizzazione» dei musulmani nei paesi occidentali — o, almeno, la normalizzazione così com’è intesa dalla maggioranza dei non musulmani — riposa sulla fenomenale capacità della modernità di allentare gradualmente i legami dei singoli con la famiglia, la religione e i modi di vita tradizionali e di trasformare e di assimilare sviluppi nati dalla ostilità nei suoi confronti — pensiamo al modo in cui la contro-cultura anticapitalistica degli anni 1960 e 1970 è stata assorbita nella normalità politica ed economica e nel consumismo.
Ulteriori motivi di ottimismo si ricavano talora dalla natura totalitaria dell’ideologia islamistica e dalla brutalità e dal rigore del regime islamico, di cui è esempio l’Afghanistan sotto i talebani. Proprio come il totalitarismo laicistico del secolo XX — nazionalsocialismo e comunismo — si è rivelato in ultima analisi insostenibile a causa dell’enorme dazio che esso imponeva sulla vita e sulla creatività dell’uomo, così avverrà per il totalitarismo religioso dell’islam radicale. Questa valutazione trae spunto da una più generale e a essa subordinata ragione di ottimismo — o almeno di speranza — per tutti noi, ossia la nostra comune umanità, e la fecondità del dialogo, quando lo s’intraprende con buona volontà da tutte le parti. La gente comune, musulmana e non musulmana, ha lo stesso desiderio di pace, di stabilità e di prosperità per sé e per le proprie famiglie.
Dal lato del pessimismo le preoccupazioni hanno inizio dal Corano medesimo. Leggendo per conto mio il Corano mi sono messo ad annotare i richiami alla violenza che vi si leggono. Ve ne sono talmente tanti, che ho dovuto smettere l’operazione dopo cinquanta o sessanta o settanta pagine. Tornerò più avanti sui problemi dell’interpretazione coranica, ma volendo, per esempio, giungere a una valutazione del vero significato del jihad, è importante tenere a mente quanto gli studiosi dicono sulla differenza fra le sure — capitoli — del Corano scritte durante i trent’anni che Muhammad passò alla Mecca e quelle scritte dopo il suo trasferimento a Medina.
Le letture irenistiche del Corano di solito si fondano in modo particolare sulle sure scritte alla Mecca, quando Muhammad era privo del potere militare e sperava ancora di conquistare il popolo, inclusi cristiani ed ebrei, alla sua rivelazione mediante la predicazione e l’attività religiosa. Dopo l’emigrazione a Medina, Muhammad strinse alleanza con due tribù yemenite e diede inizio alla diffusione dell’islam attraverso la conquista e la coercizione (3). È stato calcolato che Muhammad combatté 78 battaglie, una sola delle quali, la «battaglia della Trincea» — o della Khandaq —, fu di carattere difensivo (4).
Le sure del periodo di Medina riflettono questo decisivo cambiamento e sono ritenute come abrogative delle sure del periodo meccano (5).
La forma grammaticale prevalente in cui il termine jihad viene usato nel Corano implica il senso di combattimento o di guerra di aggressione.
Una diversa forma del verbo in arabo ha invece come significato «sforzarsi» o «lottare» e le traduzioni inglesi talora usano questa forma per edulcorare gl’incitamenti che il Corano fa alla guerra nei confronti dei non credenti (6). Ma, in ogni caso, i cosiddetti «versetti della spada» (sura IX, 5 e sura IX, 36) (7), comparendo proprio in quella che gli studiosi generalmente credono essere una delle ultime sure rivelate a Muhammad (8), sono usati al fine di sopprimere un gran numero di versetti precedenti su questo tema, più di 140 secondo un sito web radicale (9). L’opinione che il jihad sia principalmente una questione di sforzo spirituale è peraltro respinta con disprezzo da alcuni scrittori islamici che si sono occupati del tema. Uno di questi scrittori avverte che «la tentazione di reinterpretare sia il testo sia la storia al fine di conformarsi ai criteri del “politicamente corretto” è la prima trappola da evitare» (10), prima di continuare lamentandosi che «vi sono oggi musulmani, per esempio, che trasformerebbero il jihad in un lavacro sacro piuttosto che in una guerra santa, come se si trattasse solo di una ingiunzione a lavarsi dentro» (11).
L’abrogazione di molte delle sure meccane a opera delle più tarde sure di Medina si riflette sulle relazioni che l’islam ha con le altre fedi, in particolare con quelle cristiana ed ebraica. Le radici cristiane ed ebraiche implicite in gran parte del Corano (12) costituiscono una importante base di dialogo e di comprensione reciproca, anche se le difficoltà permangono. Forse la principale di esse è il concetto di Dio. È vero che il cristianesimo, l’ebraismo e l’islam rivendicano Abramo come padre e il Dio di Abramo come loro Dio. Tuttavia io accetto solo con riserva la pretesa che ebrei, cristiani e musulmani adorino un solo Dio — «Allah» è semplicemente la parola araba per «dio» — e che vi sia un solo vero Dio a disposizione per farsi adorare! Che essi adorino lo stesso dio è stato messo in discussione (13) non solo dai cattolici, che sottolineano la natura trinitaria di Dio, ma anche da alcuni cristiani evangelici e da alcuni musulmani (14). È difficile riconoscere il Dio del Nuovo Testamento nel Dio del Corano e dalla nozione di Dio propria dei cristiani e dei musulmani sono derivate due concezioni della persona umana assai diverse. Si pensi, per esempio, alla nozione cristiana di persona come unità di ragione, di libertà e d’amore e al modo in cui questi attributi connotano la relazione del cristiano con Dio. Ciò ha avuto conseguenze significative sulle due diverse culture cui cristianesimo e islam hanno dato vita e nel determinare lo spazio di quanto nel loro ambito è ritenuto possibile. Tuttavia queste difficoltà potrebbero diventare altrettanti fattori d’impulso al dialogo e non invece motivi per abbandonarlo.
La storia dei rapporti fra musulmani, da un lato, e cristiani ed ebrei, dall’altro, non offre sempre motivi di ottimismo come quelli che taluni adottano con tanta facilità. L’asserita tolleranza dei musulmani verso le minoranze cristiane ed ebraiche è ampiamente un mito, come così chiaramente dimostra la storia della conquista e della dominazione islamica in Medio Oriente, nella Penisola Iberica e nei Balcani. Nel territorio degli attuali Spagna e Portogallo, che furono dominati dai musulmani fin dal 716 e che, per essere definitivamente liberati dal dominio musulmano, dovettero attendere la resa di Granada nel 1491 — sebbene più di metà della Penisola fosse stata già riconquistata nel 1150 e l’intera Penisola, a eccezione della regione che circonda Granada, lo fosse stata già nel 1300 —, cristiani ed ebrei furono tollerati solo come dhimmi (15), cioè come persone soggette a una tassazione punitiva, alla discriminazione legale e a tutta una serie di umiliazioni piccole e grandi.
Se un dhimmi faceva del male a un musulmano, l’intera comunità cristiana perdeva la protezione legale e si esponeva alla libertà di saccheggio, alla riduzione in schiavitù e all’uccisione. Ai cristiani che si appellavano ai re cristiani per riceverne aiuto o che erano sospettati di essersi convertiti all’islam per opportunismo venivano inflitte dure ritorsioni, che comprendevano mutilazioni, deportazioni e crocifissioni.
Bande di razziatori venivano inviate parecchie volte all’anno contro i regni ispanici del nord e anche contro la Francia e l’Italia per fare bottino e catturare schiavi. Il califfo dell’Andalusia manteneva un esercito di decine di migliaia di schiavi cristiani provenienti da tutta Europa e un harem di donne cristiane fatte prigioniere. La comunità ebraica della Penisola Iberica soffriva un genere assai simile di discriminazioni e di penalizzazioni, comprese limitazioni al modo di vestire.
Un pogrom, un «massacro», avvenuto a Granada nel 1066, annientò la locale popolazione ebraica, facendo oltre cinquemila vittime. Nel corso della sua storia il dominio musulmano nella Penisola, nel momento in cui le diverse fazioni prendevano il potere e a misura che gl’ispanici gradualmente riguadagnavano terreno, fu caratterizzato da scoppi di violenza e di fanatismo (16).
Il dominio arabo in Spagna e in Portogallo è stato un disastro per cristiani ed ebrei, così come lo è stato il dominio turco nei Balcani.
La conquista ottomana dei Balcani cominciò a metà del secolo XV e fu completata nei duecento anni successivi.
Le chiese furono distrutte o ridotte a moschee e le popolazioni cristiane ed ebree divennero oggetto di trasferimenti forzati e ridotte in schiavitù. L’estensione o il ritiro della protezione sovrana dipendevano del tutto dalle disposizioni d’animo del signore ottomano del momento. Ai cristiani che rifiutavano di apostatare venivano imposte tasse e lavoro coatto. Se la pratica della fede cristiana non era strettamente proibita, essa veniva però ostacolata, per esempio, facendo della domenica l’unico giorno di mercato autorizzato. Ma la persecuzione violenta gravò costantemente come un’ombra. Uno studioso ritiene che fino alla guerra d’indipendenza greca del 1828 gli ottomani giustiziarono undici patriarchi di Costantinopoli, quasi cento vescovi e molte migliaia di preti, diaconi e monaci. Ai laici non musulmani era impedito di praticare determinate professioni e commerci, talora addirittura di andare a cavallo con la sella e, fino all’inizio del secolo XVIII, i figli adolescenti vivevano sotto la minaccia della riduzione in schiavitù militare e della conversione forzata, le quali, durante il dominio ottomano, fornirono quasi un milione di soldati «giannizzeri».
Sotto la dominazione bizantina la Penisola Balcanica godé di un alto grado di produttività economica e di sviluppo culturale. Ma furono spazzati via dalla conquista musulmana e sostituiti da un generalizzato e lungo declino della produttività (17).
La storia dell’influsso nocivo dell’islam sullo sviluppo culturale ed economico in certi tempi e in certi luoghi rimanda alla vera natura dell’islam.
Per coloro che propendono per una visione pessimistica questo è probabilmente il problema più difficile da trattare nel rapporto fra islam e democrazia. Qual è la capacità di sviluppo teologico dell’islam?
Secondo la concezione musulmana il Corano viene direttamente da Dio, senza mediazione. Muhammad ha semplicemente trascritto la parola di Dio eterno e immutabile così come gli fu dettata dall’arcangelo Gabriele. Il Corano non può essere cambiato e rendere il Corano oggetto di un’analisi e di una riflessione critiche significa affermare che l’autorità dell’uomo è al di sopra della rivelazione divina — il che equivale a una bestemmia — oppure metterne in discussione il carattere divino. La Bibbia, al contrario, è il prodotto della cooperazione dell’uomo e dell’ispirazione divina. Essa deriva dall’incontro fra Dio e l’uomo, un incontro caratterizzato da reciprocità, che nel cristianesimo viene messa in risalto dalla nozione trinitaria di Dio, nozione che l’islam interpreta come politeismo. Tutto ciò fornisce al cristianesimo una logica e una dinamica che non solo — fino a un certo e determinato punto — favoriscono lo sviluppo della dottrina, ma richiedono altresì analisi critica e capacità di applicare i propri princìpi a circostanze nuove. Ed esigono pure un’autorità docente.
(Continua)
 
NOTE
 
(1) Cfr. qualche esempio, in DANIEL PIPES, Jihad and the Professors, in Commentary, vol. III, n. 4, New York novembre 2002, pp. 17-21.
(2) Cfr. una descrizione di come alcuni giuristi musulmani trattano l’emigrazione su larga scala verso i paesi non islamici, in PAUL STENHOUSE M.S.C., Democracy, Dar al-Harb, and Dar al-Islam, inedito, senza data.
(3) Cfr. IDEM, Muhammad, Qur’anic Texts, the Shari’a and Incitement to Violence, inedito, 31-8-2002.
(4) Cfr. D. PIPES, Jihad and the Professors, cit., p. 19; un’altra fonte ritiene che Muhammad abbia preso personalmente parte a ventisette — su trentotto — battaglie, combattendo in nove di esse: cfr. ALFRED GUILLAUME, The Life of Muhammad by Ibn Ishaq, Oxford University Press, Karachi 1955, p. 659.
(5) Cfr. P. STENHOUSE M.S.C., Muhammad, Qur’anic Texts, the Shari’a
(6) Cfr. ibidem.
(7) Sura IX, 5: «Quando poi siano trascorsi i mesi sacri, uccidete questi associatori ovunque li incontriate, catturateli, assediateli e tendete loro agguati. Se poi si pentono, eseguono l’orazione e pagano la decima, lasciateli andare per la loro strada. Allah è perdonatore, misericordioso» [Il Corano, ed. integrale a cura di Hamza Roberto Piccardo, revisione e controllo dottrinale Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia, con Prefazione di Franco Cardini e Introduzione di Pino Blasone, Newton & Compton, Roma 2004, pp. 167-182 ( p. 168)]; e sura IX, 36: «[…] ma combattete tutti assieme i politeisti come essi vi combattono tutti assieme. Sappiate che Allah è con coloro che [Lo] temono» [ibid., p. 171].
(8) Cfr. RICHARD BONNEY, Jihad: From Qur’an to bin Laden, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2004, pp. 22-26.
(9) Cfr. The Will of Abdullaah Yusuf Azzam, , del 20-4-1986 [visitato il 15-9-2006].
(10) MOBASHAR JAWED AKBAR, The Shade of Swords. Jihad and the Conflict between Islam and Christianity, Routledge, Londra e New York 2002, p. XV.
(11) Ibidem.
(12) Cfr. ABRAHAM ISAAC KATSCH, Judaism and the Koran, Barnes & Co., New York 1962, passim.
(13) Cfr., per esempio, ALAIN BESANÇON, What Kind of Religion is Islam?, in Commentary, anno 113, New York maggio 2004.
(14) Cfr. D. PIPES, Is Allah God?, in New York Sun, New York 28-6-2005.
(15) Cfr. il concetto di «dhimmitudine», in BATYE’OR, The Decline of Eastern Christianity under Islam. From Jihad to Dhimmitude, trad. ingl. di Miriam Kochman e David Littman, Fairleigh Dickinson University Press, Madison 1996.
(16) Cfr. ANDREW BOSTOM, The Legacy of Jihad. Islamic Holy War and the Fate of Non Muslims, Prometheus Books, Amherst 2005, pp. 56-75.
(17) Ibidem.