Compendio di Teologia Ascetica e Mistica (818-837)

Di Adolfo Tanquerey. Parte seconda. Le Tre Vie. LIBRO I. La purificazione dell’anima o la via purgativa. CAPITOLO IV. Lotta contro i peccati capitali. Art I. L’orgoglio e i vizi che vi si connettono. § I. L’orgoglio in sè. I. Le principali forme dell’orgoglio. II. I difetti che nascono dall’orgoglio. III. La malizia dell’orgoglio.

Lotta contro i peccati capitali 818-1.

818. Questa lotta è in sostanza una
specie di mortificazione.

Per dar compimento alla purificazione dell’anima e impedirle di ricader nel
peccato, bisogna prender di mira la fonte del male in noi, cioè la
triplice concupiscenza. L’abbiamo già descritta nei suoi caratteri generali, n. 193-209;
ma, essendo ella radice dei sette peccati capitali, conviene pur
conoscere e combattere queste cattive tendenze. Più che peccati sono infatti
tendenze; si dicono però peccati perchè sono fonte o capo
d’una moltitudine di altri peccati.

Ecco come queste tendenze si connettono con la triplice concupiscenza: dalla
superbia nasce l’orgoglio,
l’invidia,
e la collera;
la concupiscenza della carne genera la gola, la lussuria e
l’accidia; la concupiscenza poi degli occhi s’identifica
con l’avarizia
o amore disordinato delle ricchezze.

819. La lotta contro i sette peccati
capitali tenne sempre gran posto nella spiritualità cristiana. Cassiano ne
tratta a lungo nelle Conferenze e nelle
Istituzioni 819-1; ma ne enumera otto invece di sette,
separando l’orgoglio e la vanagloria. S. Gregorio Magno 819-2 distingue nettamente i sette peccati
capitali che fa derivar tutti dall’orgoglio. Anche S. Tommaso li connette
all’orgoglio, e mostra come se ne può fare una classificazione filosofica,
tenendo conto dei fini speciali a cui l’uomo tende. La volontà può
portarsi verso un oggetto per un doppio motivo che è o la ricerca di un bene
apparente, o l’allontanamento da un male apparente. Ora il bene apparente
a cui tende la volontà può essere: 1) la lode o l’onore, beni
spirituali perseguiti disordinatamente: è questo il fine speciale dei
vanitosi; 2) i beni corporali, che hanno per fine la
conservazione dell’individuo o della specie, cercati in modo eccessivo, sono il
fine particolare dei golosi e dei lussuriosi; 3) i beni
esterni, amati in modo sregolato, sono il fine dell’avaro. — Il
male apparente da cui uno rifugge può essere: 1) lo sforzo
necessario all’acquisto d’un bene, sforzo sfuggito dall’accidioso;
2) la diminuzione della propria eccellenza che è temuta e sfuggita,
sebbene in modo diverso, dal geloso e dal collerico. Così la
distinzione dei sette peccati capitali si trae dai sette fini speciali a cui
tende il peccatore.

In pratica noi seguiremo la divisione che connette i vizi
capitali con la triplice concupiscenza, perchè è la più semplice.

ART. I. L’ORGOGLIO E I VIZI
CHE VI SI CONNETTONO 820-1.

§ I. L’orgoglio in sè.

820. L’orgolio è una deviazione di quel legittimo sentimento che ci porta a stimare il bene
che è in noi, e a ricercar la stima altrui fin dove è utile alle buone relazioni
che dobbiamo avere con loro. Si può e si deve certamente stimare
quanto di buono Dio ha messo in noi, riconoscendonelo come primo
principio
e ultimo fine: è sentimento che onora Dio e ci fa rispettar
noi stessi. Si può anche desiderare che gli altri vedano questo bene, lo stimino
e ne rendano gloria a Dio, come noi dobbiamo riconoscere e stimare le buone
qualità del prossimo: questa mutua stima fomenta le buone relazioni che corrono
tra gli uomini.

Ma vi può essere deviazione o eccesso in queste due tendenze. Si dimentica
talora che autore di questi doni è Dio e uno li attribuisce a se stesso:
il che è disordine, perchè è negare, almeno implicitamente, che Dio è il nostro
primo principio. Parimente si è tentati di operare per sè, per
guadagnarsi la stima altrui, in cambio di operare per Dio e riferire a
lui tutto l’onore di ciò che facciamo: il che pure è disordine, perchè è negare,
almeno implicitamente, che Dio è il nostro ultimo fine. Tal è il doppio
disordine che si trova in questo vizio; onde si può definirlo: un amore
disordinato di sè, per cui uno, esplicitamente o implicitamente, si stima come
primo suo principio o ultimo suo fine.
È una specie d’idolatria, perchè uno
fa di sè il proprio Dio, come ben fa notare Bossuet, n. 204.
— A meglio combattere l’orgoglio, ne esporremo: 1° le principali
forme;
2° i difetti
che produce; 3° la malizia;
4° i rimedi.

I. Le principali forme dell’orgoglio.

821. 1° La prima forma consiste nel
considerarsi, esplicitamente o implicitamente, come il proprio primo
principio.


A) Pochi sono quelli che esplicitamente si amino in modo così
disordinato da considerar se stessi come il loro primo principio.

a) È il peccato degli atei che volontariamente rigettano Dio
perchè non vogliono padrone: nè Dio nè padrone; di costoro parla il
Salmista quando dice: “Dixit insipiens in corde suo: non est
Deus”
 821-1. b) Fu
equivalentemente questo il peccato: di Lucifero, che, volendo
essere autonomo, ricusò di assoggettarsi a Dio; dei nostri progenitori,
che, desiderando essere come Dei, vollero conoscere da sè il bene ed il male;
degli eretici, che, come Lutero, ricusarono di riconoscere l’autorità
della Chiesa stabilita da Dio; è il peccato dei razionalisti, che,
superbi della loro ragione, non vogliono assoggettarla alla fede. Ed è pure il
peccato di certi dotti che, troppo orgogliosi da accettare la
tradizionale interpretazione dei dommi, li attenuano e deformano per conciliarli
con le proprie idee.

822. B)
Altri in maggior numero cadono implicitamente in questo difetto, operando
come se i doni naturali e soprannaturali da Dio largitici fossero intieramente
nostri. In teoria si riconosce, è vero, che Dio è il nostro primo principio; ma
in pratica poi uno ha tale smodata stima di sè come fosse egli stesso l’autore
delle buone qualità che sono in lui.

a) Ce ne sono di quelli che si compiaccono delle proprie doti e
dei propri meriti come ne fossero essi i soli autori: “L’anima, vedendosi bella,
dice Bossuet, 822-1 se ne compiacque in se stessa e
s’addormentò nella comtemplazione della propria eccellenza; cessò un momento di
riferir se stessa a Dio, dimenticò la sua dipendenza, prima si fermò e poi
s’abbandonò alla propria libertà. Ma, cercando di esser libero fino al punto di
emanciparsi da Dio e dalle leggi della giustizia, l’uomo divenne schiavo del suo
peccato”.

823. b) Più grave è
l’orgoglio di coloro che attribuiscono a se stessi la pratica della
virtù,
come gli Stoici; o che pensano che i doni gratuiti di Dio siano
frutto dei nostri meriti; che le nostre opere buone appartengano a noi
più che a Dio, mentre in verità ne è lui la causa principale; e che vi si
compiacciono come fossero unicamente nostre 823-1.

824. C) È
questo stesso principio che fa esagerar le proprie doti.

a) Si chiudono gli occhi sui propri difetti o si guardano le proprie
doti con lenti d’ingrandimento; si giunge ad attribuirsi pregi che non si hanno
o che hanno la sola apparenza di virtù: così si fa l’elemosina per ostentazione
e si crede di essere caritatevoli mentre invece si è superbi; uno crede di esser
santo perchè ha consolazioni sensibili, o perchè scrisse bei pensieri o buone
risoluzioni, ed è invece ancora ai primi scalini della perfezione. Altri credono
di avere mente larga perchè fanno poco conto delle piccole regole, volendo
santificarsi con le grandi virtù. b) Di qui a preferirsi
ingiustamente agli altri
non vi è che un passo; si esaminano gli altrui
difetti col microscopio e dei propri è gran cosa se uno ne ha coscienza; si vede
la pagliuzza che è nell’occhio del vicino e non la trave che è nel nostro. Si
giunge talora, come il Fariseo, a disprezzare i fratelli; 824-1 altre volte, senza arrivare a tanto, uno
ingiustamente li abbassa nella propria stima e se ne crede migliore mentre in
realtà ne è inferiore. È sempre in virtù dello stesso principio che si cerca di
dominarli e di far riconoscere la propria superiorità su di loro.

825. 2° La seconda
forma dell’orgoglio consiste nel considerarsi, esplicitamente o implicitamente,
come il proprio ultimo fine, facendo le azioni senza riferirle a Dio, e
desiderando di esserne lodati come se ne fossero intieramente nostre. È difetto
che deriva dal primo; perchè chi si considera come il proprio primo principio
vuole anche esserne l’ultimo fine. Bisognerebbe ripetere qui le distinzioni che
abbiamo già fatto.

A) Sono pochi che si considerino esplicitamente come loro
ultimo fine, se ne togli gli atei e gli increduli.

B) Ma in pratica molti operano come se partecipassero di questo
errore. a) Vogliono essere lodati e complimentati per le opere
buone, come ne fossero essi i principali autori, e come se avessero il diritto
di operare per proprio conto, per soddisfare la propria vanità. In cambio di
riferire tutto a Dio, vogliono essere applauditi per i pretesi buoni successi,
come se avessero diritto a tutto l’onore che ne deriva. b) Operano
per egoismo, per i propri interessi, poco curandosi della gloria di Dio e
meno ancora del bene del prossimo. Arrivano perfino all’eccesso di pensare in
pratica che gli altri debbano ordinare la vita a far loro piacere e a rendere
loro servizi: si fanno quindi centro degli altri e, a così dire, loro
fine. Non è questa un’inconscia usurpazione dei diritti di Dio?

c) Senza giungere a questo punto, ci sono persone pie che nella pietà
cercano se stesse, si lagnano di Dio quando non le inonda di consolazioni, si
desolano quando sono nell’aridità, falsamente, pensando che il fine della pietà
sia di goder consolazioni, mentre in realtà la gloria di Dio dev’essere il
nostro fine supremo in tutte le azioni e soprattutto nella preghiera e negli
esercizi spirituali.

826. Bisogna dunque
confessare che l’orgoglio, sotto una forma o sotto un’altra, è comunissimo
difetto che ci segue in tutte le tappe della vita spirituale e che muore solo
con noi. Gl’incipienti non ne hanno gran fatto coscienza, perchè non si studiano
abbastanza profondamente. Conviene assai chiamarne l’attenzione su questo punto,
indicando le forme più ordinarie di tal difetto, perchè ne facciano materia
dell’esame particolare.

II. I difetti che nascono
dall’orgoglio.


I principali sono la presunzione,
l’ambizione
e la vanagloria.

827. 1° La presunzione è il
desiderio e la speranza disordinata di voler fare cose superiori alle proprie
forze. Nasce dal fatto che uno ha troppo buona opinione di sè, delle proprie
facoltà naturali, della propria scienza, delle proprie forze, delle proprie
virtù.

a) Sotto l’aspetto intellettuale, uno si crede capace
d’affrontare e di risolvere i problemi più difficili e le più ardue questioni, o
almeno di imprendere studi sproporzionati al proprio ingegno.

Un altro si persuade facilmente di aver molto giudizio e molto senno, e, in
cambio di saper dubitare, risolve con gran disinvoltura le più controverse
questioni. b) Sotto l’aspetto morale, uno crede di aver lumi
sufficienti per regolarsi da sè e che non sia poi gran che utile consultare un
direttore. Altri crede che, nonostante i peccati passati, non vi sia da temer
ricadute, e imprudentemente si getta in occasioni di peccato in cui soccombe;
onde poi scoraggiamenti e dispetti che diventano spesso causa di nuove ricadute.

c) Sotto l’aspetto spirituale, si ha poco gusto per le virtù
nascoste e penose, preferendo le virtù appariscenti; e invece di costruire sul
fondamento sodo dell’umiltà, si va fantasticando di grandezza d’animo, di forza
di carattere, di magnanimità, di zelo apostolico, di trionfi immaginari che si
assaporano già nell’avvenire. Ma alle prime gravi tentazioni uno s’accorge
subito quanto ancor debole e vacillante è la volontà. Qualche volta pure si
disprezzano le preghiere comuni e quelle che si chiamano le piccole pratiche di
pietà; e si aspira a grazie straordinarie quando invece si è appena ai principi
della vita spirituale.

828. 2° Questa
presunzione, congiunta all’orgoglio, genera l’ambizione, vale a dire l’amor
disordinato degli onori, delle dignità, dell’autorità sugli altri.

Presumendo troppo delle proprie forze e stimandosi superiore agli altri, uno
vuol dominarli, governarli, impor loro le proprie idee.

Il disordine dell’ambizione, dice S. Tommaso, può manifestarsi in tre
modi 828-1: 1) cercando onori che non si
meritano e che sono superiori alle nostre facoltà; 2) cercandoli per sè,
per la propria gloria, e non per la gloria di Dio; 3) compiacendosi degli
onori in se stessi, senza farli servire al bene altrui, contrariamente
all’ordine stabilito da Dio, il quale vuole che i superiori lavorino pel bene
degli inferiori.

Quest’ambizione invade tutti i campo: 1) il campo politico, dove
si aspira a governar gli altri, a costo qualche volta di molte bassezze, di
molti compromessi, di mille viltà che si commettono per avere i voti degli
elettori; 2) il campo intellettuale, ostinatamente cercando
d’imporre agli altri le proprie idee, anche in questioni liberamente discusse;
3) la vita civile, ove avidamente si cercano i primi
posti, 828-2 gli uffici più pomposi, gli ossequi della
folla; 4) e anche la vita ecclesiastica; perchè, come dice
Bossuet, 828-3 “quante precauzioni non si dovettero
prendere per impedire nelle elezioni, anche ecclesiastiche e religiose,
l’ambizione, gli intrighi, le brighe, le segrete sollecitazioni, le promesse e
le pratiche più criminali, i patti simoniaci e gli altri disordini troppo comuni
in questa materia; eppure non si è riusciti a intieramente estirpare questi
vizi, ma forse solo a coprirli o a palliarli”. Anche nel clero, osserva
S. Gregorio Magno 828-4, vi sono di quelli che vogliono essere
chiamati dottori, e cercano avidamente i primi posti e i complimenti.

È dunque difetto più comune di quello che a prima vista si crederebbe e che
si connette con la vanità.

829. 3° La
vanità è l’amore disordinato della stima altrui; si distingue
dall’orgoglio che si compiace nella propria eccellenza, ma ne è ordinariamente
una derivazione, perchè, quando uno si stima in modo eccessivo, è naturale che
desideri d’essere stimato anche dagli altri.

830. A) Malizia della
vanità.
Vi è un desiderio d’essere stimato che non è disordine: chi desidera
che le sue doti, naturali o soprannaturali, siano riconosciute perchè Dio ne sia
glorificato e se avvantaggi la sua influenza in fare il bene, per sè non fa
peccato, essendo conforme all’ordine che ciò che è buono venga stimato, a patto
però che se ne riconosca Dio come autore e a lui solo se ne dia
lode 830-1. Tutto al più si potrà dire che è
pericoloso fissare il pensiero sopra desideri di questo genere, correndo rischio
di desiderare la stima altrui per fini egoistici.

Il disordine quindi consiste nel voler essere stimati con la mira a
sè,
senza riferir questo onore a Dio che pose in noi quanto c’è di buono; o
nel voler essere stimati per cose vane che non meritano lode; o infine
nel cercar la stima di quelli il cui giudizio non ha valore, dei mondani,
per esempio, che pregiano solo le vanità.

Nessuno descrisse questo difetto meglio di S. Francesco di
Sales 830-2: “Vana chiamasi la gloria che uno si dà o
per cosa che non sia in noi, o per cosa che sia in noi ma non nostra, o per cosa
che sia in noi e nostra ma non meritevole che uno se ne glorii. La nobiltà della
famiglia, il favore dei grandi, l’aura popolare sono cose che non sono in noi ma
o nei nostri antenati o nell’opinione altrui. Vi sono di quelli che vanno
superbi e pettoruti perchè cavalcano un bel destriero; perchè hanno un bel
pennacchio al cappello; perchè sono riccamente vestiti; ma chi non vede che
questo è follia? Poichè se in ciò vi è gloria, la gloria spetta al cavallo,
all’uccello, al sarto… Altri si stimano e si pavoneggiano per due baffi ben
rilevati, per la barba ben ravviata, per i cappelli crespi, per le mani
delicate, per saper danzare, sonare, cantar bene; ma non sono vili costoro a
volersi rialzare in valore e in riputazione per ragioni così frivole e così
goffe? Altri poi, per un poco di scienza, vogliono essere da tutti onorati e
rispettati, come se ognuno dovesse andare a scuola da loro e tenerli per
maestri; onde sono chiamati pedanti. Altri si pavoneggiano pensando alla propria
bellezza e credono che tutti li vagheggino. Tutto ciò è grandemente vano, goffo
e insulso, e la gloria che si trae da cose così meschine si chiama vana, goffa e
frivola”.

831. B)
Difetti che derivano dalla vanità. La vanità produce parecchi
difetti, che ne sono come la manifestazione esteriore, in particolare: la
millanteria, l’ostentazione e l’ipocrisia.

1) La millanteria o iattanza è l’abitudine di parlare di sè o di ciò
che può tornare a proprio vantaggio con la mira di farsi stimare. Ce ne son di
quelli che parlano di sè, della propria famiglia, dei propri trionfi con
un’ingenuità che fa sorridere gli ascoltatori; altri fanno destramente piegare
la conversazione su un argomento in cui possono brillare; altri poi parlano
timidamente dei propri difetti con la segreta speranza di trovare chi li scusa
ponendone in rilievo le buone qualità 831-1.

2) L’ostentazione consiste nell’attirarsi l’attenzione con certi modi
di fare, col fasto di cui si fa pompa, con certe singolarità.

3) L’ipocrisia prende la veste o le apparenze della virtù, nascondendo
sotto veri vizi segreti.

III. La malizia dell’orgoglio.

A ben giudicare questa malizia, si può considerar l’orgoglio in
o negli effetti.

832.In sè:
A
l’orgoglio propriamente detto, quello che coscientemente e
volontariamente usurpa, anche solo implicitamente, i diritti di Dio, è peccato
grave, anzi il più grave dei peccati, dice S. Tommaso, perchè non vuol
sottomettersi al sovrano dominio di Dio.

a) Voler quindi essere indipendente e rifiutar d’obbedire a Dio
o ai suoi legittimi rappresentanti in materia grave, è peccato mortale, perchè
in tal modo uno si rivolta contro Dio, legittimo nostro sovrano.

b) È pur peccato grave l’attribuire a sè ciò che viene chiaramente da
Dio, massime i doni della grazia; perchè è implicitamente negare che Dio è il
primo principio di tutto il bene che è in noi. Eppure molti lo fanno, dicendo,
per esempio: io mi sono fatto da me.

c) Si pecca anche gravemente quando si vuole operare per sè,
escludendo Dio;
è infatti negargli il diritto d’essere l’ultimo nostro fine.

833. B)
L’orgoglio attenuato, che, pur riconoscendo Dio come primo principio e
come ultimo fine, non gli rende tutto ciò che gli è dovuto e implicitamente gli
toglie parte della sua gloria, è peccato veniale qualificato. Tal è il
caso di quelli che si gloriano delle loro buone qualità e delle loro virtù,
quasi che tutto ciò fosse cosa di loro esclusiva proprietà; oppure di quelli che
sono presuntuosi, vanitosi, ambiziosi, senza però far nulla che sia contrario a
una legge divina od umana in materia grave. Questi peccati possono anche farsi
mortali, se spingono ad atti gravemente riprensibili. Così la vanità, che in sè
è solo peccato veniale, diventa peccato grave quando fa contrar debiti che non
si potranno poi pagare, o quando si cerca di eccitare in altri amore
disordinato. Bisogna quindi esaminar l’orgoglio anche negli effetti.

834.Negli effetti: A)
l’orgoglio, non represso, riesce talora a perniciosissimi effetti. Quante
guerre non furono suscitate dall’orgoglio dei governanti e qualche volta degli
stessi popoli! 834-1 E senza andar tanto lontano, quante
divisioni nelle famiglie, quanti odii tra gli individui devono attribuirsi a
questo vizio! I Padri giustamente insegnano che è radice di tutti gli altri
vizi, e che corrompe pure molti atti virtuosi, facendoli fare con egoistica
intenzione 834-2.

835. B) Se guardiamo la cosa
sotto il rispetto della perfezione, che è quello di cui stiamo trattando,
si può dire che l’orgoglio è il gran nemico della perfezione perchè produce
nell’anima una desolante sterilità ed è fonte di numerosi peccati.

a) Ci priva infatti di molte grazie e di molti meriti:

1) Di molte grazie, perchè Dio, il quale dà liberalmente la grazia
agli umili, la nega ai superbi: Deus superbis resistit, humilibus autem dat
gratiam
 835-1. Pesiamo bene queste parole: Dio resiste
ai superbi, “perchè, dice l’Olier 835-2, il superbo assale direttamente Dio e se
la prende con la stessa sua persona, onde Dio resiste alle insolenti e orribili
sue pretese; e poichè vuol conservarsi in ciò che è, abbatte e distrugge quanto
si leva contro di lui”.

2) Di molti meriti: una delle condizioni essenziali del merito è la
purità d’intenzione; ora l’orgoglioso opera per sè, o per piacere agli
uomini, invece di operare per Dio, e merita quindi il rimprovero rivolto ai
Farisei che facevano le opere buone con ostentazione, per essere visti dagli
uomini, onde non potevano aspettarsi di essere ricompensati da Dio: “alioquin
mercedem non habebitis apud Patrem vestrum qui in cælis est…. amen, amen dico
vobis, receperunt mercedem suam”
 835-3.

836. b) È pure fonte di
numerose colpe;
1) colpe personali: per presunzione uno si
espone al pericolo e vi soccombe; per orgoglio non si chiedono
istantemente le grazie di cui si ha bisogno e si cade; viene poi lo
scoraggiamento e si corre pericolo di dissimulare i peccati in confessione;
2) colpe contro il prossimo: per orgoglio non si vuol cedere anche quando
si ha torto; si è mordaci nelle conversazioni, si intavolano discussioni aspre e
violenti che generano dissensioni e discordie; quindi parole amare e anche
ingiuste contro i rivali per umiliarli, critiche acerbe contro i Superiori e
rifiuti d’obbedienza ai loro ordini.

837. c) Finalmente è causa
di disgrazie
per chi si abbandona abitualmente all’orgoglio: l’orgoglioso,
volendo grandeggiare in tutto e dominare il prossimo, non trova più nè pace nè
riposo. Non è infatti tranquillo finchè non abbia potuto trionfar degli emuli;
or ciò non riuscendogli mai intieramente, ne resta turbato, agitato, infelice.
Convien dunque cercar rimedio a vizio così pericoloso.

NOTE

818-1 Cassiano, De
cœnobiorum institutis,
l. V, c. I, P. L., XLIX, 202 sq; Collationes, coll. V, c. X, ibid. 621 sq;
S. Giovanni
Climaco,
La Scala del Paradiso, grad. XXII, P. G.,
LXXXVIII, 948 sq; S. Gregorio Magno, Moral., l. XXXI, c. XLV,
P. L. LXXVI, 620 sq; S. Tommaso, Iª IIæ,
q. 84, a. 3-4; De Malo, q. 8, a. I; S. Bonaventura, In II
sentent.,
dist. XLII, dub. III; Melchior Cano, La victoire sur
soi-même,
trad. da M. Legendre, Parigi, 1923; Natale Alessandro,
De peccatis (Theol.
cursus Migne, XI, 707-1168); Alvarez de Paz, t. II, l. 1, P. 2ª,
De extinctione vitiorum; Filippo della SS. Trinità, P. Iª,
Tr. II, disc. II e III, De vitiorum eradicatione et passionum mortificatione; Card. Bona,
Manuductio ad cælum, c. III-IX; Alibert, Physiologie des passions, 1827;
Descuret, La medicina delle passioni; Paulhan, Les Caractères, Parigi, 1902;
J. Laumonier, La Thérapeutique des péchés
capitaux,
Parigi, Alcan, 1922.

819-1 De cænobiorum
institutis,
l. V, c. I; Collat., col. V, c. X.

819-2 Moral., l. XXXI, c. 45, P. L., LXXVI, 620-622.

820-1 S. Tommaso, IIª
IIæ, q. 162 e 132; de Malo, q. 8. 9; Bossuet, Trattato della Concupiscenza, c. 10-23;
Sermone sull’Ambizione; Bourdaloue, Quaresimale, Serm. pel mercoledì della 2ª settimana;
Alibert, op.
cit.
, t. I, p. 23-57; Descuret, op.
cit.
, t. II, p. 191-240; Paulhan, Les Caractères, p. 167;
Beaudenom, Formation à l’Humilité, Parigi, 1902, p. 33-55; Thomas,
L’Education des sentiments, Parigi,
Alcan, 1904, p. 113-124, e 133-148; Laumonier, op.
cit.
, c. VII.

821-1 Ps. XIII, 1.

822-1 Trat. della
concupiscenza,
c. XI.

823-1 Ibid. c. XXIII;
J. J. Olier, Introd. c. VII.

824-1 Luc. XVIII, 9-14.

828-1 Sum. theol., IIª
IIæ, q. 131, a. I.

828-2 Questo difetto non si trova
solo presso i dotti e i ricchi: Bossuet parla (Trat. della Concupiscenza,
c. XVI) di contadini, che nelle chiese si contendono aspramente i banchi più
onorifici, fino al punto di dire che non andranno più in chiesa se non vengono
appagati.

828-3 Trat. della
Concupiscenza,
c. XVI.

828-4 “Videri doctores appetunt,
transcendere ceteros concupiscunt, atque attestante veritate, primas
salutationes in foro, primos in cœnis recubitus, primas in conventibus cathedras
quærunt”. (Pastoral., p. I, c. I, P. L., XXXVII, 14).

830-1 Molto bene spiega questo
S. Tommaso, IIª IIæ, q. 132, a. I: “Quod autem
aliquis bonum suum cognoscat et approbet, non est peccatum. … Similiter
etiam non est peccatum quod aliquis velit bona opera sua approbari: dicitur enim
(Matth., V, 16): Luceat lux vestra coram hominibus. Et ideo
appetitus gloriæ de se non nominat aliquid vitiosum. … Potest autem
gloria dici vana tripliciter: uno modo ex parte rei de qua quis gloriam quærit,
puta cum quis quærit gloriam de eo quod non est gloria dignum, sicut de aliqua
re fragili et caduca; alio modo ex parte ejus a quo quis gloriam quærit, puta
hominis cujus judicium non est certum: tertio modo ex parte ipsius qui…
appetitum gloriæ suæ non refert in debitum finem”.

830-2 La Filotea, P. III, C.
IV (Salesiana, Torino).

831-1 “Chi sparla di sè, dice S.
Francesco di Sales, (Lo Spirito etc., c. XIX) cerca indirettamente la
lode, e fa come chi rema, che volge il dorso al luogo a cui tende con tutte le
forze. E resterebbe molto afflitto se si credesse al male che dice di sè,
essendo l’orgoglio quello che gli fa desiderare di essere stimato umile”.

834-1 Hominem efficit dæmonem
contumeliosum, blasphemum, perjurum, facit ut appetantur cædes…
(S. Giov. Crisostomo, in ep. II ad Thess., C. I, homil. I, n.
2, P. G., 471.)

834-2 “Alia vitia eas solum virtutes
impetunt quibus ipsa destruuntur… ; superbia autem, quam vitiorum
radicem
diximus, nequaquam unius virtutis exstinctione contenta, contra
cuncta animæ membra se erigit, et quasi generalis ac pestifer morbus corpus omne
corrumpit, ut quidquid illâ invadente agitur, etiamsi esse virtus ostenditur,
non per hoc Deo, sed soli vanæ gloriæ servitur”. S. Gregorio, Moral.
l. XXXIV, c. 33, n. 48, P. L. LXXVI, 744.

835-1 Jac., IV, 6.

835-2 Introd., C. VI, S. 1ª.

835-3 Matth., VI, 1-2.

Quest’edizione digitale preparata da Martin Guy <martinwguy@yahoo.it>.

Ultima revisione: 2 febbraio 2006.