Compendio di Teologia Ascetica e Mistica (736-750)

Di Adolfo Tanquerey. Parte seconda. Le Tre Vie. LIBRO I. La purificazione dell’anima o la via purgativa. CAPITOLO II. Art. II. Motivi e mezzi di riparare il peccato. I. Motivi di penitenza. 1° Un dovere di giustizia rispetto a DIO. 2° Un dovere risultante dalla nostra incorporazione a Cristo. 3° Un dovere di carità. II. La pratica della penitenza. III. Le opere di penitenza.

ART. II. MOTIVI E MEZZI DI
RIPARARE IL PECCATO.

I. Motivi di penitenza.

Tre motivi principali ci obbligano a far penitenza dei nostri peccati:


  • un
    dovere di giustizia rispetto a Dio;

  • un
    dovere risultante dalla nostra incorporazione a Gesù Cristo;

  • un
    dovere di proprio interesse e di carità.



1° UN
DOVERE DI GIUSTIZIA RISPETTO A DIO.

736. Il peccato infatti è una vera
ingiustizia, perchè toglie a Dio una parte di quella gloria esterna a cui
ha diritto; richiede quindi per giustizia una riparazione, che consisterà
nel restituire a Dio, per quanto possiamo, l’onore e la gloria di cui l’abbiamo
colpevolmente privato. Or quest’offesa, essendo, almeno oggettivamente infinita,
non sarà mai intieramente riparata. Dobbiamo quindi espiare per tutta la vita;
obbligo tanto più esteso quanto maggiori furono i benefici di cui siamo stati
colmati, e più gravi e più numerose le colpe.

È quanto osserva Bossuet 736-1: “Non dobbiamo giustamente temere che la
bontà di Dio, così indegnamente disprezzata, si cambi in implacabile furore? Che
se la giusta sua vendetta è così grande contro i gentili…, non sarà la sua
collera tanto più terribile per noi quanto più doloroso è per un padre l’aver
perfidi figli e servi cattivi?” Dobbiamo quindi, egli dice, prendere le parti di
Dio contro di noi. “Prendendo così contro di noi le parti della divina
giustizia, obblighiamo la sua misericordia a prendere le parti nostre contro la
sua giustizia. Quanto più deploreremo la miseria in cui siamo caduti, tanto più
ci avvicineremo al bene che abbiamo perduto: Dio riceverà pietosamente il
sacrificio del cuore contrito che noi gli offriremo in soddisfazione dei nostri
delitti; e senza considerare che le pene che c’imponiamo non sono proporzionata
vendetta, questo buon padre terrà conto soltanto che è volontaria”. Renderemo
del resto più efficace la nostra penitenza unendola a quella di Gesù Cristo.

2° UN
DOVERE RISULTANTE DALLA NOSTRA INCORPORAZIONE A CRISTO.

737. Fummo col battesimo incorporati
a Cristo (n. 143), onde dobbiamo, partecipandone la vita, parteciparne pure
le disposizioni. Ora Gesù, benchè impeccabile, prese sopra di sè, come capo d’un
corpo mistico, il peso e, per così dire, la responsabilità dei nostri peccati,
“posuit Dominus in eo iniquitatem omnium nostrum” 737-1. Ecco perchè condusse vita penitente dal
primo istante della sua concezione sino al Calvario. Ben sapendo che il Padre
non poteva essere placato dagli olocausti dell’Antica Legge, offre sè stesso
come ostia per sostituir tutte le vittime; tutte le sue azioni saranno
immolate con la spada dell’ubbidienza, e dopo una lunga vita, che altro non è se
non continuo martirio, muore sulla croce, vittima dell’ubbidienza e dell’amore
“factus obediens usque ad mortem, mortem autem crucis”. Ma vuole che i
suoi membri, per essere mondati dai loro peccati, s’uniscano al suo sacrifizio e
siano vittime espiatrici insieme con lui: “Per essere il Salvatore del genere
umano, ne volle essere la vittima. Ma l’unità del suo corpo mistico richiede
che, essendosi immolato il capo, tutte le membra debbano pur essere ostie
viventi.” 737-2. È infatti evidente che se Gesù, benchè
innocente, espiò i nostri peccati con così rigorosa penitenza, noi, che siamo
colpevoli, dobbiamo associarci al suo sacrifizio con tanto maggior generosità
quanto maggiori furono i nostri peccati.

738. Ad agevolarci questo dovere,
Gesù penitente viene a vivere in noi per mezzo del divino suo Spirito con le sue
disposizioni di vittima.

“Così, dice l’Olier 738-1, leggendo i salmi bisogna onorare in
David lo spirito di penitenza e ammirare con grande religione e posatezza le
disposizioni dello Spirito interiore di Gesù Cristo, fonte di penitenza, diffuso
in questo Santo. Bisogna chiedere di parteciparvi con umiltà di cuore, con
insistenza, fervore e perseveranza, ma soprattutto con l’umile fiducia che
questo Spirito ci sarà comunicato. Certo non sentiremo sempre l’azione di
questo Spirito divino, perchè opera spesso insensibilmente; ma se umilmente lo
chiediamo, lo riceviamo, e opera in noi per renderci conformi a Gesù penitente,
farci detestare ed espiare con lui i nostri peccati. La nostra penitenza è
allora assai più efficace, perchè partecipa della virtù stessa del Salvatore:
non siamo più noi soli a riparare, è Gesù che espia in noi e con noi. “Ogni
penitenza esterna che non esce dallo Spirito di Gesù Cristo, dice
l’Olier 738-2, non è vera e reale penitenza. Si possono
esercitare su di sè rigori anche molto violenti; ma se non emanano da Nostro
Signore penitente in noi, non possono essere penitenze cristiane. Solo per mezzo
di lui si fa penitenza; ei la cominciò quaggiù sulla terra nella sua persona e
la continua in noi… animando l’anima nostra delle interne disposizioni
d’annientamento, di confusione, di dolore, di contrizione, di zelo contro noi
stessi e di fortezza per compir su di noi la pena e la misura della
soddisfazione che Dio Padre vuol ricevere da Gesù Cristo nella nostra carne”.
Questa unione con Gesù penitente non ci dispensa dunque dai sentimenti e dalle
opere di penitenza ma vi dà un maggior valore.

3° UN
DOVERE DI CARITÀ.

La penitenza è un dovere di carità verso di noi e verso il prossimo.

739. A) Verso di noi:
il peccato infatti lascia nell’anima funeste conseguenze, contro cui è
necessario reagire. a) Anche quando la colpa o il fallo è
perdonato, ci resta generalmente da subire una pena più o meno lunga
secondo la gravità e il numero dei peccati e secondo il fervore della
contrizione nel momento del nostro ritorno a Dio. Questa pena dev’essere subìta
in questo mondo o nell’altro. Ora è assai più utile espiarla in questa vita,
perchè, quanto più prontamente e perfettamente paghiamo questo debito, tanto più
l’anima diviene atta all’unione divina; d’altra parte più facile è questa
espiazione sulla terra, perchè la vita presente è tempo di misericordia; è anche
più feconda, perchè gli atti sodisfattorii sono nello stesso tempo meritorii
(n. 209). Ama quindi l’anima propria chi fa pronta e generosa penitenza.

b) Ma il peccato lascia pure in noi una deplorevole facilità a
commettere nuove colpe, appunto perchè accresce in noi l’amore disordinato del
piacere. Ora nulla corregge meglio questo disordine quanto la virtù della
penitenza; facendoci valorosamente tollerare le pene che la Provvidenza ci
manda, stimolando il nostro ardore per le privazioni e le austerità compatibili
con la salute, essa smorza gradatamente l’amor del piacere e ci fa paventare il
peccato che esige tali riparazioni; facendoci praticar atti di virtù contrari
alle cattive nostre abitudini, ci aiuta a correggercene e ci dà maggior
sicurezza per l’avvernire 739-1. È dunque atto di carità verso sè stesso
il far penitenza.

740. B) È pure atto di carità
verso il prossimo. a) In virtù della nostra incorporazione a Cristo,
siamo tutti fratelli, tutti solidari gli uni degli altri (n. 148). Potendo
dunque le nostre opere sodisfattorie essere utili agli altri, perchè la carità
non ci indurrà a far penitenza non solo per noi ma anche per i fratelli? Non è
questo il mezzo migliore d’ottenerne la conversione, o, se sono già convertiti,
la perseveranza? Non è questo il miglior servizio che possiamo loro prestare,
servizio mille volte più utile di tutti i beni temporali che potremmo lor dare?
Non è un corrispondere alla divina volontà che, avendoci adottati tutti per
figli, ci chiede di amare il prossimo come noi stessi e di espiarne le colpe
come espiamo le nostre?

741. b) Questo dovere di
riparazione spetta più specialmente ai sacerdoti: è dovere del loro stato
l’offrir vittime non solo per se stessi ma anche per le anime di cui sono
incaricati: “prius pro suis delictis, deinde pro
popoli”
 741-1. Ma ci sono, fuori del sacerdozio,
anime generose che, così nel chiostro come nel mondo, si sentono attirate
a offrirsi vittime per espiare i peccati altrui. Vocazione nobilissima
che le associa all’opera redentrice di Cristo, e a cui è bene animosamente
corrispondere procurando di consultare un savio direttore per fissar con lui le
opere di riparazione a cui dedicarsi 741-2.

742. Diremo terminando che lo
spirito di penitenza non è dovere imposto soltanto agl’incipienti e per
brevissimo tempo. Quando si è ben capito che cos’è il peccato e quale offesa
infinita infligge alla maestà divina, uno si crede obbligato a far penitenza per
tutta la vita, perchè la vita stessa è troppo breve per riparare
un’offesa infinita. Non bisogna quindi stancarsi mai di far penitenza.

Questo punto è così importante che il P. Faber, dopo aver lungamente
riflettuto sulla causa per cui tante anime fanno così poco progresso, venne alla
conclusione che questa causa sta “nella mancanza di costante dolore
eccitato dal ricordo del peccato” 742-1. Se ne ha del resto la conferma negli
esempi dei Santi, che non cessarono mai di espiar le colpe, talora assai
leggiere, commesse in passato. Anche la condotta di Dio verso le anime che vuole
innalzare alla contemplazione lo dimostra assai bene. Faticato che hanno per
lungo tempo a purificarsi con gli esercizi attivi della penitenza, Dio, a dar
l’ultima mano alla loro purificazione, invia quelle prove passive che
descriviamo nella via unitiva. Infatti solo i cuori intieramente puri o
purificati possono giungere alle dolcezze dell’unione divina: “Beati mundo
corde quoniam ipsi Deum videbunt”!


II. La pratica della penitenza.

A praticar la penitenza in modo più perfetto, conviene unirsi a Gesù
penitente chiedendogli di vivere in noi col suo spirito di vittima (n. 738);
e poi associarsi ai suoi sentimenti e alle sue opere di penitenza.

743. Questi sentimenti sono assai
bene espressi nei salmi specialmente nel Miserere.

a) Prima di tutto la memoria abituale e dolorosa dei propri
peccati: “peccatum meum contra me est semper”
 743-1. Non conviene certi riandarli
distintamente nella mente potendosi con ciò turbar l’immaginazione e cagionar
nuove tentazioni. Bisogna ricordarsene in generale e soprattutto nutrirne
sentimenti di contrizione e d’umiliazione.

Abbiamo offeso Dio alla sua presenza “et malum coram te
feci”
 743-2, quel Dio che è la santità stessa e che
odia l’iniquità, quel Dio che è tutto amore e che noi abbiamo oltraggiato
profanandone i doni. Non ci resta che ricorrere alla sua misericordia e
implorarne il perdono, e bisogna farlo spesso: “Miserere mei, Deus, secundum
magnam misericordiam tuam”
 743-3. Abbiamo, è vero, speranza d’essere stati
perdonati; ma, bramosi di sempre più perfetta mondezza, chiediamo umilmente a
Dio di purificarci ognor più nel sangue di suo Figlio: “amplius lava me ab
iniquitate mea et a peccato meo munda me”
 743-4. Per unirci più intimamente a lui,
vogliamo che i nostri peccati siano distrutti, che non ne resti più traccia:
“omnes iniquitates meas dele”; desideriamo che la mente e il cuore siamo
rinnovati: “cor mundum crea in me, Deus, et spiritum rectum innova in
visceribus meis”,
che ci sia resa la gioia della buona coscienza: “Redde
mihi lætitiam salutaris tui”
 743-5.

744. b)
Questa dolorosa memoria è accompagnata da un senso di perpetua
confusione
: “operuit confusio faciem meam” 744-1. Confusione che portiamo davanti a Dio,
come Gesù Cristo portò davanti al Padre l’ontà delle nostre offese, massimamente
nell’orto dell’agonia e sul Calvario. La portiamo davanti agli uomini,
vergognosi di vederci carichi di delitti nell’assemblea dei Santi. La portiamo
davanti a noi stessi, non potendoci soffrire nè sopportare nella nostra
vergogna, ripetendo sinceramente col prodigo: “Padre, ho peccato contro il cielo
e contro di voi” 744-2; e col pubblicano: “O Dio, abbi pietà di
me, peccatore” 744-3.

745. c) Ne nasce un
salutare timor del peccato, un orrore profondo per tutte le occasioni che
vi ci possono condurre. Perchè, non ostante la buona volontà, restiamo esposti
alla tentazione e alle ricadute.

Rimaniamo quindi sommamente diffidenti di noi stessi e dal fondo del cuore
ripetiamo la preghiera di S. Filippo Neri: O Signore, non vi fidate di
Filippo, chè altrimenti vi tradirà; aggiundendovi: “non ci lasciate cadere nella
tentazione: et ne nos inducas in tentationem”. Questa diffidenza ci fa
prevedere le occasioni pericolose in cui potremmo soccombere, i mezzi
positivi per assicurar la nostra perseveranza e ci rende vigilanti a schivar le
minime imprudenze. Evita però con ogni premura lo scoraggiamento: quanto
maggior coscienza abbiamo della nostra impotenza, tanto maggior fiducia dobbiamo
riporre in Dio, sicuri che per l’efficacia della sua grazia riusciremo
vittoriosi, soprattutto se a questi sentimenti uniamo le opere di
penitenza.

III. Le opere di penitenza.

746. Queste opere, per quanto
penose possano essere, ci parranno facili, se abbiamo continuamente davanti agli
occhi questo pensiero: io sono uno scampato dall’inferno, uno scampato
dal purgatorio,
e, senza la divina misericordia, sarei già là a subirvi il
castigo che ho pur troppo meritato; nulla quindi di troppo umiliante, nulla di
troppo penoso per me.

Le principali opere di penitenza che dobbiano fare, sono:

747. 1° L’accettazione, prima
rassegnata poi cordiale e gioconda, di tutte le croci che
la Provvidenza vorrà mandarci. Il Concilio di Trento ci insegna che è gran segno
di amore per noi il degnarsi Dio di gradire come soddisfazione dei nostri
peccati la pazienza con cui accettiamo tutti i mali temporali, che egli ci
infligge 747-1. Se abbiamo dunque da soffrir prove
fisiche o morali, per esempio le intemperie delle stagioni, le strette della
malattia, i rovesci di fortuna, la mala riuscita, le umiliazioni; in cambio di
amaramente lamentarcene, come la natura vorrebbe, accettiamo tutti questi
patimenti con dolce rassegnazione, persuasi che pei nostri peccati li meritiamo
e che la pazienza in mezzo alle prove è uno dei migliori mezzi d’espiazione. Non
sarà da principio che semplice rassegnazione, ma poi, accorgendoci che i nostri
dolori ne restano addolciti e fecondi, riusciremo a poco a poco a sopportarli
valorosamente e anche giocondamente, lieti di poterci così abbreviare il
purgatorio, di rassomigliar meglio al divin crocifisso, di glorificar Dio che
abbiamo oltraggiato. La pazienza produrrà allora tutti i suoi frutti e ci
purificherà intieramente l’anima appunto perchè opera di amore: “remittuntur
ei peccata multa, quoniam dilexit multum”
 747-2.

748. 2° A questa pazienza
aggiungeremo il fedele adempimento dei doveri del nostro stato in spirito
di penitenza e di riparazione. Il sacrificio più gradito a Dio è quello
dell’ubbidienza “melior est obedientia quam victimæ” 748-1. Ora i doveri del nostro stato sono per
noi la chiara espressione della volontà di Dio. L’adempierli il più
perfettamente possibile è dunque un offrire a Dio il sacrificio più perfetto,
l’olocausto perpetuo, perchè questi doveri ci stringono dalla mattina alla sera.
Il che è certamente vero per le persone che vivono in comunità: obbedendo
fedelmente alla regola, generale o particolare, adempiendo generosamente quanto
viene prescritto o consigliato dai superiori, moltiplicando gli atti di
obbedienza, di sacrificio e d’amore, e possono ripetere con San Giovanni
Berchmans che la vita comune è per essi la migliore di tutte le penitenze: mea maxima pænitentia vita communis. Ma è anche vero per le persone del
mondo che vivono cristianamente; quante occasioni si presentano ai padri e alle
madri di famiglia che osservano tutti i doveri di sposi e di educatori, di
offrire a Dio numerosi ed austeri sacrifici che servono grandemente a purificar
le loro anime! Tutto sta nell’adempiere questi doveri cristianamente,
valorosamente, per Dio, in ispirito di riparazione e di penitenza.

749. 3° Vi sono pure altre opere
specialmente raccomandate dalla Sacra Scrittura, come il digiuno e
l’elemosina.

A) Il digiuno era nell’antica Legge uno dei grandi mezzi di
espiazione; veniva indicato con l’espressione “affliggere la propria
anima”; 749-1 ma per ottenerne l’effetto doveva essere
accompagnato da sentimenti di compunzione e di misericordia 749-2. Nella nuova Legge il digiuno è pratica
di duolo e di penitenza; quindi gli Apostoli non digiunano finchè è con loro lo
Sposo, digiuneranno, quando non vi sarà più 749-3. Nostro Signore, per espiare i nostri
peccati, digiuna quaranta giorni e quaranta notti, ed insegna agli apostoli che
certi demoni non possono essere cacciati che col digiuno e colla
preghiera 749-4. Fedele a questi insegnamenti, la Chiesa
istituì il digiuno della Quaresima, delle Vigilie e delle Quattro Tempora per
dare ai fedeli occasione di espiare i peccati. Molti peccati infatti provengono,
direttamente o indirettamente, dalla sensualità, dagli eccessi del bere e del
mangiare, onde nulla è più efficace a ripararli della privazione del nutrimento
che va alla radice del male mortificando l’amore dei sensuali diletti. Ecco
perchè i Santi lo praticarono con tanta frequenza anche fuori dei tempi
stabiliti dalla Chiesa; i cristiani generosi li imitano o almeno s’accostano al
digiuno propriamente detto, privandosi di qualche cosa in ogni pasto, per domare
così la sensualità.

750. B) L’elemosina
poi è opera di carità e privazione: a questo doppio titolo ha grande efficacia
per espiare i peccati: “peccata eleemosynis redime” 750-1. Quando uno si priva d’un bene per darlo
a Gesù nella persona del povero, Dio non si lascia vincere in generosità, e ci
rimette volentieri parte della pena dovuta ai nostri peccati. Quanto più dunque
si è generosi, ognuno secondo le proprie facoltà, e quanto pure è più perfetta
l’intenzione con cui si fa l’elemosina, tanto più intiera è la remissione che ci
si concede dei nostri debiti spirituali. Ciò che diciamo dell’elemosina
corporale s’applica a più forte ragione all’elemosina spirituale, che
mira a far del bene alle anime e quindi a glorificar Dio. È quindi una delle
opere di penitenza che il Salmista promette di fare quando dice al Signore che,
per riparare il suo peccato, insegnerà ai peccatori le vie del pentimento:
“Docebo iniquos vias tuas et impii ad te
convertentur”
 750-2.

4° Restano finalmente le privazioni e le mortificazioni
volontarie
che imponiamo a noi stessi in espiazione dei nostri peccati,
quelle specialmente che vanno alla sorgente del male, castigando e disciplinando
le facoltà che contribuirono a farceli commettere. Le esporremo trattando della
mortificazione.

NOTE

736-1 Primo Panegirico di S.
Francesco da Paola.


737-1 Isai., LIII, 6.

737-2 Bossuet, Sermone 1°
per la Purificazione,
ed. Lebarq. t. IV, p. 52.

738-1 Introd., c. VII.

738-2 Op. cit., c. VII; IIª
sezione.

739-1 È appunto ciò che insegna il
Concilio di Trento (sess. XIV, c. 8): “Procul dubio enim magnopere a peccato
revocant, et quasi freno quodam coercent hæ satisfactoriæ pœnæ, cautioresque et
vigilantiores in futurum pœnitentes efficiunt: medentur quoque peccatorum
reliquiis, et vitiosos habitus, male vivendo comparatos, contrariis virtutum
actionibus tollunt”
.

741-1 Hebr., VII, 27.

741-2 P. Plus, L’idea
riparatrice
(Marietti, Torino), l. III; L. Capelle, Les âmes
généreuses
.

742-1 È ciò che lungamente dimostra
nel Progressi dell’anima, c. XIX, ed aggiunge: “Come ogni culto va in
rovina se non ha per base i sentimenti della creatura pel suo creatore… come
le penitenze non riescono a nulla se non fatte in unione con Gesù Cristo…così
la santità perde il principio del suo progresso quando è separata dal costante
dolore d’aver peccato. Infatti il principio del progresso non è soltanto l’amore
ma l’amore nato dal perdono”.

743-1 Ps. L, 5.

743-2 Ps. L, 6.

743-3 Ps. L, 3.

743-4 Ps. L, 4.

743-5 Ps. L, 10-14.

744-1 Ps. LXVIII, 8.

744-2 Luc., XV, 18.

744-3 Luc. XVIII, 13.

747-1 “Sed etiam (quod maximum
amoris argumentum est) temporalibus flagellis a Deo inflictis et a nobis
patienter toleratis apud Deum Patrem per Christum Jesum satisfacere
valeamus”
. (Sess. XIV, c. 9, Denzing., 906.)

747-2 Matth., IX, 2.

748-1 I Reg., XV, 22.

749-1 Lev., XVI, 29, 31;
XXIII, 27, 32.

749-2 Isa., LVIII, 3-7.

749-3 Matth., IX, 14-15.

749-4 Matth., XVII, 20.

750-1 Dan., IV, 24.

750-2 Ps. L, 15.

Quest’edizione digitale preparata da Martin Guy .

Ultima revisione: 14 febbraio 2006.