Compendio di Teologia Ascetica e Mistica (328-351)

Adolfo Tanquerey. PARTE PRIMA. I principii. Capitolo III. Perfezione della vita cristiana. § III. Parte rispettiva dell’amore e del sacrificio nella vita cristiana. § IV. La perfezione consiste nei precetti o nei consigli? § V. Dei diversi gradi di perfezione. I. Dei diversi gradi di perfezione. II. Dei limiti della perfezione sulla terra. Conclusione.

§ III. Parte rispettiva dell’amore e del
sacrificio nella vita cristiana.


328.   Dovendo l’amore e il sacrificio
avere la loro parte nella vita cristiana, quale sarà l’ufficio di ognuno di
questi due elementi? Su tale argomento, vi sono punti in cui tutti convengono e
altri in cui si manifesta qualche disparere, benchè poi in pratica i dotti delle
diverse scuole riescano a conclusioni pressochè identiche.

329.   1° Tutti ammettono che in
sè,
nell’ordine ontologico o di dignità, l’amore tiene il
primo posto: è lo scopo e l’elemento essenziale della perfezione,
come abbiamo provato nella prima nostra tesi,
n. 312.
L’amore quindi occorre tenere primieramente in vista, a questo mirare
continuamente, è lui che deve dare al sacrificio l’intima sua ragione e il suo
valore principale: “in omnibus respice finem”. Bisogna dunque parlarne
fin dal principio della vita spirituale e far rilevare che l’amor di Dio
facilita singolarmente il sacrificio senza però poterne mai dispensare.

330.   2° Quanto all’ordine
cronologico, tutti ammettono pure che questi due elementi sono
inseparabili e che devono quindi coltivarsi insieme e anche
compenetrarsi, poichè non v’è sulla terra amore vero senza sacrificio, e che il
sacrificio fatto per Dio è una delle migliori prove di amore.

Tutta la questione quindi si riduce in fondo a questa: nell’ordine
cronologico, su quale elemento bisogna maggiormente
insistere, sull’amore o sul sacrificio? Or qui ci troviamo di fronte a
due tendenze e a due scuole diverse.

331.   A) S. Francesco di
Sales,
appoggiandosi su molti rappresentanti della scuola benedettina e
domenicana e confidando negli aiuti che ci offre la natura rigenerata, dà la
precedenza all’amor di Dio per farci accettare e praticar meglio il sacrificio;
ma non esclude quest’ultimo, chiede anzi alla sua Filotea molto spirito di
rinunzia e di sacrificio; lo fa però con molto riguardo e con molta dolcezza
nella forma per meglio arrivare al suo scopo. Il che appare fin dal primo
capitolo dell’Introduzione alla vita devota: “La vera e viva devozione
presuppone l’amor di Dio, anzi non è altro in se che in vero amor di Dio… E
appunto perchè la devozione sta in un certo grado di eccellente carità, non solo
ci rende pronti, attivi, diligenti nell’osservanza di tutti i comandamenti di
Dio,
ma ci stimola pure a fare con prontezza ed affetto quante più buone
opere
possiamo, benchè non siano in alcun modo comandate ma solamente
consigliate o ispirate”. Ora osservare i comandamenti, seguire i
consigli e le ispirazioni della grazia, è certamente un particare
un alto grado di mortificazione. Del resto il Santo chiede a Filotea che cominci
dal mondarsi non solo dai peccati mortali ma anche dei peccati veniali,
dall’affetto alle cose inutili e pericolose e dalle cattive inclinazioni. E
quando tratta delle virtù, non ne dimentica la parte penosa; vuole soltanto che
tutto sia condito coll’amor di Dio e del prossimo.

332.   B) Per altro verso, la
scuola ignaziana e la scuola francese del secolo XVII, pur non dimenticando che
l’amor di Dio è lo scopo da conseguire e quello che deve avvivare tutte le
nostre azioni, mettono al primo posto, sopratutto per i principianti, la
rinunzia, l’amor della croce o la crocifissione dell’uomo vecchio, come il più
sicuro mezzo per arrivare al vero ed effettivo amore 332-1. Pare che temano che, se non v’insiste
sul principio, molte anime cadano poi nell’illusione, immaginandosi d’essere già
molto avanzate nell’amor di Dio mentre la loro pietà è più sensibile ed
apparente che reale; onde poi certe miserande cadute al presentarsi di violente
tentazioni o al sopravvenire delle aridità. Del resti il sacrificio, virilmente
accettato per amor di Dio, conduce a una più generosa e più costante carità, e
la pratica abituale dell’amor di Dio viene a coronare l’edificio spirituale.

333.   Conclusione pratica.
Senza aver la pretesa di dirimere cotesta controversia, proporremo alcune
conclusioni ammesse dai dotti di tutte le scuole.

A) Ci sono due eccessi da evitare: a) quello di
voler lanciare troppo presto le anime in quella che si chiama la via dell’
amore,
senza esercitarle nello stesso tempo nella pratica austera della
rinunzia quotidiana. Così si fomentano le illusioni e talora anche miserande
cadute: quante anime, provando le consolazioni sensibili che Dio concede ai
principianti e credendosi salde nelle virtù, si espongono alle occasioni di
peccato, commettono imprudenze e cadono in colpe gravi! Un poco più di
mortificazione, di vera umiltà, di diffidenza di se stesse, una lotta più
corraggiosa contro le passioni, le avrebbe preservate da queste miserie.

b) Un altro eccesso sta nel parlare soltanto di rinunzia e di
mortificazione senza far rilevare che sono soltanto mezzi per arrivare all’amor
di Dio o manifestazioni di quest’amore. È questa la ragione per cui certe anime
di buona volontà, ma ancor poco coraggiose, si sentono ributtate ed anche
disanimate. Si sentirebbero maggiore slancio ed energia, se si mostrasse loro
che questi sacrifici diventano molto più facili quando si fanno per amor di Dio:
“Ubi amatur, non laboratur”.

334.   B) Evitati questi
eccessi, il direttore saprà scegliere per il suo penitente la via più
conveniente al carattere suo e alle attrattive della grazia.

a) Vi sono anime sensibili e affettuose che non prendono
gusto alla mortificazione se non dopo aver già praticato per qualche tempo
l’amor di Dio. È vero che questo amore è spesso imperfetto, più ardente e
sensibile che generoso e durevole. Ma, se si bada a giovarsi di questi primi
slanci per mostrare che il vero amore non può perseverare senza sacrificio, se
si riesce a far praticare, per amor di Dio, alcuni atti di penitenza, di
riparazione, di mortificazione, quegli atti che sono più necessari a evitare il
peccato, la loro virtù a poco a poco si rinsalda, si fortifica la loro volontà,
e viene il momento in cui capiscono che il sacrificio deve andare di pari passo
con l’amor di Dio.

b) Se si tratta invece di caratteri energici, abituati ad agire
per dovere, si può, pur mettendo loro avanti agli occhi l’unione con Dio come
scopo, insistere dapprincipio sulla rinunzia come pietra di paragone
della carità, e far praticare la penitenza, l’umiltà e la mortificazione, pur
condendo queste austere virtù con un motivo d’amor di Dio o di zelo per le
anime.

Così non si separerà mai l’amore dal sacrificio, e si mostrerà che questi due
elementi si conciliano e si perfezionano a vicenda.

§ IV. La perfezione consiste nei precetti o
nei consigli?


335.   1° Stato della
questione.
Abbiamo visto che la perfezione essenzialmente consiste nell’amor
di Dio e del prossimo spinto fino al sacrificio. Ora intorno all’amor di Dio e
al sacrificio vi sono nello stesso tempo precetti e consigli:
precetti che ci comandano, sotto pena di peccato, di fare questa o quella
cosa o di astenercene; consigli che c’invitano a fare per Dio più
di quello che ci è comandato, sotto pena d’imperfezione volontaria e di
resistenza alla grazia. Vi allude Nostro Signore quando dichiara al giovane
ricco: “Se vuoi entrar nella vita, osserva i comandamenti… Se vuoi essere
perfetto, va, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo:
“Si autem vis ad vitam ingredi, serva mandata… Si vis perfectus esse, vende
quæ habes et da pauperibus, et habebis thesaurum in cælo, et veni, sequere
me”
 335-1. Osservare dunque le leggi della
giustizia e della carità in materia di proprietà basta per entrare in cielo; ma,
se si vuole essere perfetti, bisogna vendere i propri beni, darne il prezzo ai
poveri e praticare così la volontaria povertà 335-1.
S. Paolo ci fa pure notare che la verginità è un consiglio e
non un precetto, che lo sposarsi è cosa buona ma che restar vergine è anche
migliore 335-2.

336.   2° La soluzione. Alcuni
autori ne hanno conchiuso che la vita cristiana consiste nell’osservanza dei
precetti
e la perfezione nei consigli. È un modo di vedere un po’
semplicista e che, frainteso, potrebbe condurre a funeste conseguenza. La verità
è che la perfezione esige prima di tutto l’adempimenti dei
precetti
e secondariamente l’osservanza d’un certo numero di
consigli.


È questo appunto l’insegnamento di S. Tommaso 336-1. Dopo aver provato che la perfezione non
è altro che l’amor di Dio e del prossimo, conchiude che in pratica consiste
essenzialmente nei precetti, di cui il principale è quello della carità,
e secondariamente nei consigli, i quali pure si riferiscono tutti alla
carità, perchè allontanano gli ostacoli che si oppongono al suo esercizio.
Spieghiamo questa dottrina.

337.   A) La perfezione esige
prima di tutto e imperiosamente l’adempimento dei precetti; è necessario
inculcar fortemente questo concetto a certe persone che, per esempio, col
pretesto della devozione, dimenticano i doveri del proprio stato, oppure, per
praticar la limosina con maggior pompa, ritardano indefinitamente il pagamento
dei debiti, insomma a tutti quelli che trascurano questo o quel precetto del
decalogo con la pretesa di più alta perfezione. Ora è evidente che la violazione
d’un precetto grave, come è quello di pagare i debiti, distrugge in noi
la carità, e che il pretesto di far l’elemosina non può giustificare questa
infrazione della legge naturale. Parimente la violazione volontaria d’un
precetto in materia lieve è un peccato veniale, che, senza distruggere la
carità, ne impaccia più o meno l’esercizio e sopratutto offende Dio e diminuisce
la nostra intimità con lui; il che è vero principalmente del peccato veniale
deliberato
e frequente, che crea in noi degli attacchi e c’impedisce
di slanciarci liberamente verso la perfezione. Bisogna dunque, per essere
perfetti, osservare prima di tutto i precetti.

338.   B) Ma è necessario
aggiungervi l’osservanza dei consigli, almeno di alcuni, specialmente di
quelli impostici dall’adempimento dei doveri del nostro stato.

a) Così i Religiosi, essendosi obbligati per voto a praticare i
tre grandi consigli evangelici della povertà, della castità e dell’obbedienza,
non possono santificarsi senza essere fedeli ai loro voti. Del resto questa
pratica facilita singolarmente l’amor di Dio distaccando l’anima dai principali
ostacoli che s’oppongono alla divina carità: la povertà, strappandoli
all’amore disordinato delle ricchezze, fomenta lo slancio del cuore verso Dio e
i beni celesti; la castità, sottraendoli ai piaceri della carne, anche a
quelli leciti nel santo stato del matrimonio, li aiuta ad amar Dio senza
divisione; l’obbedienza, combattendo l’orgoglio e lo spirito
d’indipendenza, assoggetta la loro volontà a quella di Dio ed è in sostanza un
atto d’amore.

339.   b) Quelli poi che non
hanno fatto voti, devono, per essere perfetti, praticarne lo spirito, ognuno
secondo la propria condizione, le ispirazioni della grazia e i consigli d’un
savio direttore. Così praticheranno lo spirito di povertà, privandosi di
molte cose inutili per poter fare qualche risparmio da erogare in elemosine e in
opere di beneficenza; lo spirito di castità, anche se sono coniugati,
usando moderatamente e con qualche restrizione dei legittimi piaceri del
matrimonio e diligentemente evitando tutto ciò che è proibito o pericoloso;
lo spirito di obbedienza, assoggettandosi docilmente ai propri superiori,
in cui vedranno l’immagine di Dio, e alle ispirazioni della grazia accertate da
un savio direttore.

Amar dunque Dio e il prossimo per Dio e saper sacrificarsi a fine di meglio
osservare questo doppio precetto e i consigli che vi si riferiscono, ognuno
secondo il proprio stato, qui sta la vera perfezione.

§ V. Dei diversi gradi di perfezione.

La perfezione ha su questa terra i suoi gradi e i suoi limiti;
onde due questioni:


  • 1° quali
    sono i principali gradi di perfezione;

  • 2° quali
    ne sono i limiti sulla terra?



I. Dei diversi gradi di perfezione.

340.   I gradi per cui uno si eleva
alla perfezione sono numerosi; e non è qui il caso di enumerarli tutti ma solo
di notare le principali tappe. Ora, secondo la dottrina comune, esposta da
S. Tommaso, si distinguono tre tappe principali, o, come
generalmente si dice, tre vie, quella degli incipienti, quella dei
proficienti, quella dei perfetti, secondo lo scopo principale a
cui si mira.

341.   a) Nel primo
stadio, la principale cura degli incipienti è di non perdere la carità
che possiedono: lottano quindi per evitare il peccato, sopratutto il
peccato mortale, e per trionfare delle male cupidigie, delle passioni e
di tutto ciò che potrebbe far loro perdere l’amor di Dio 341-1. Questa è la via purgativa, il cui
scopo è di mondar l’anima dalle sue colpe.

342.   b) Nel secondo
stadio si vuol progredire nella pratica positiva delle virtù, e
fortificar la carità. Essendo già purificato, il cuore è più aperto alla luce
divina e all’amor di Dio: si ama di seguire Gesù e imitarne le virtù, e poichè,
seguendolo, si cammina nella luce, questa via si chiama
illuminativa 342-1. L’anima si studia di schivare non solo
il peccato mortale, ma anche il veniale.

343.   c) Nel terzo
stadio, i perfetti non hanno più che un solo pensiero, star uniti a
Dio
e deliziarsi in Lui. Costantemente studiandosi di unirsi a Dio,
sono nella via unitiva. Il peccato fa loro orrore, perchè temono di
dispiacere a Dio e di offenderlo; le virtù li attirano, specialmente le virtù
teologali, perchè sono mezzi d’unirsi a Dio. La terra quindi sembra loro un
esilio, e, come S. Paolo, desiderano di morire per andarsene con
Cristo 343-1.

Sono queste brevi indicazioni soltanto che più tardi ripiglieremo e
svolgeremo nella seconda parte di questo Compendio, dove seguiremo
un’anima dalla prima tappa, la purificazione dell’anima, all’unione trasformante
che la prepara alla visione beatifica.

II. Dei limiti della perfezione sulla
terra.


344.   Quando si leggono le vite dei
santi e principalmente dei grandi contemplativi, si resta meravigliati al vedere
a quali sublimi altezze può elevarsi un’anima generosa che nulla rifiuta a Dio.
Nondimeno vi sono dei limiti alla nostra perfezione su questa terra,
limiti che non si deve voler oltrepassare, sotto pena di ricadere in un grado
inferiore o anche nel peccato.

345.   1° È certo che non si può amar
Dio tanto quanto è amabile: Dio infatti è infinitamente amabile e il
nostro cuore, essendo finito, non potrà mai amarlo, anche in cielo, che con
amore limitato. Possiamo quindi sforzarci d’amarlo sempre più, anzi, secondo
S. Bernardo, la misura d’amar Dio è d’amarlo senza misura. Ma non
dimentichiamo che il vero amore, più che il pii sentimenti, consiste in atti di
volontà, e che il miglior mezzo d’amar Dio è di conformare la nostra volontà
alla sua, come spiegheremo più avanti, trattando della conformità alla divina
volontà.

346.   2° Sulla terra non si può amar
Dio ininterrottamente e senza debolezze. Si può certamente con grazie
particolari che non sono rifiutate alle anime di buona volontà, schivare
ogni peccato veniale deliberato ma non ogni colpa di fragilità;
si diventa mai impeccabili, come la Chiesa ha in parecchie circostanze
dichiarato.

A) Nel Medio Evo, i Beguardi avevano preteso che “l’uomo, nella
vita presente, è capace d’acquistare tal grado di perfezione da divenire affatto
impeccabile e da non potere crescere di più in grazia” 346-1. Ne concludevano che colui il quale ha
conseguito questo grado di perfezione, non deve più nè digiunare nè pregare,
perchè in questo stato la sensualità è talmente assoggettata allo spirito e alla
ragione ch’egli può concedere al suo corpo ogni diletto; non è più obbligato ad
osservare i precetti della Chiesa, nè ad obbedire agli uomini, nè anche a
praticare gli atti delle virtù, tutte cose proprie dell’uomo imperfetto. Sono
dottrine pericolose che finiscono poi nell’immoralità; quando uno si crede
impeccabile e non si esercita più nella virtù, diventa presto preda delle più
vili passioni. Ed è ciò che avvenne ai Beguardi, che il Concilio ecumenico di
Vienna dovette poi giustamente condannare nel 1311.

347.   B) Nel secolo XVII,
Molinos rinnovò quest’errore, insegnando che “con la contemplazione
acquisita si arriva a un tal grado di perfezione che non si commettono più
peccati nè mortali nè veniali”. Ma mostrò troppo bene col suo esempio che, con
massime apparentemente così alte, si è pur troppo esposti a cadere in scandalosi
disordini. Fu giustamente condannato da Innocenzo XI il 19 novembre 1687, e
quando si leggono le proposizioni che aveva osato sostenere, si resta inorriditi
delle orribili conseguenze a cui conduce questa pretensione
d’impeccabilità 347-1. — Siamo dunque più modesti e pensiamo
soltanto correggerci delle colpe deliberate e diminuire il numero di quelle di
fragilità.

348.   3° Sulla terra non si può amar
Dio costantemente o anche abitualmente con amore così
perfettamente puro e disinteressato che escluda ogni atto di speranza. A
qualunque grado di perfezione si sia giunti, si è obbligati a fare di tanto in
tanto degli atti di speranza, e non si può quindi in modo assoluto restare
indifferente alla propia salvezza. Vi furono, è vero, dei santi che, nelle
prove passive, s’acconciarono momentaneamente alla loro riprovazione in
modo ipotetico, cioè se tale fosse la volontà di Dio, pur protestando che in tal
caso non volevano cessare d’amar Dio, ma sono ipotesi che si devono
ordinariamente scartare, perchè di fatto Dio vuole la salvezza di tutti gli
uomini.

Si possono però fare, di quando in quando, atti di amor puro senza
alcuna mira a sè stesso e quindi senza attualmente sperare o desiderare
il cielo. Tal è, per esempio, questo atto d’amore di
S. Teresa: 348-1 “Se vi amo, O Signore, non è per il cielo
che m’avete promesso; se temo d’offendervi, non è per l’inferno di cui sarei
minacciata; ciò che m’attira verso di voi, o Signore, siete voi, voi solo, che
vedo inchiodato alla croce, col corpo straziato, tra agonie di morte. E il
vostro amore si è talmente impadronito del mio cuore che, quand’anche non ci
fosse il paradiso, io vi amerei lo stesso; quand’anche non ci fosse l’inferno,
pure io vi temerei. Nulla voi avete da darmi per provocare il mio amore; perchè,
quand’anche non sperassi ciò che spero, pure io vi amerei come vi amo”.

349.   Abitualmente vi è nel nostro
amor di Dio un misto d’amor puro e d’amore di speranza, il che significa
che noi amiano Dio e per sè stesso, perchè è infinitamente buono, e anche perchè
è la fonte della nostra felicità. Questi due motivi non si escludono, perchè Dio
volle che nell’amarlo e nel glorificarlo troviamo la nostra felicità.

Non ci affanniamo quindi di questo misto e, pensando al paradiso, diciamo
soltanto che la nostra felicità consisterà nel posseder Dio, nel vederlo,
nell’amarlo e nel glorificarlo; così il desiderio e la speranza del cielo non
impediranno che il motivo dominante delle nostre azioni sia veramente l’amor di
Dio.

CONCLUSIONE.

350.   Amore e
sacrificio, ecco dunque tutta la perfezione cristiana. Or chi non può,
con la grazia di Dio, adempiere questa doppia condizione? È dunque così
difficile amar Colui che è infinitamente amabile e infinitamente amante? L’amore
che ci si chiede non è qualche cosa di straordinario, è l’amore di abnegazione,
è il dono di sè stesso, è specialmente la conformità alla divina volontà. Voler
amare è dunque amare; osservare i comandamenti per Dio è amare; pregare è amare;
compiere i doveri del proprio stato per piacere a Dio è amare; anzi ricrearsi,
nutrirsi con le stesse intenzioni è amare; rendere servizio al prossimo per Dio
è amare. Non v’è quindi nulla di più facile, con la grazia di Dio, del praticare
costantemente la divina carità e così incessantemente progredire verso la
perfezione.

351.   Il sacrificio certamente
appare più penoso; ma non ci si chiede di amarlo per sè stesso: basta amarlo per
Dio, o, in altre parole, persuadersi che sulla terra non si può amar Dio senza
rinunziare a ciò che è di ostacolo al suo amore. Allora il sacrificio diventa
prima tollerabile e poi presto anche amabile. Una madre che passa le lunghe
notti al capezzale del foglio ammalato, non accetta forse lietamente le sue
fatiche, quando ha la speranza, specialmente poi se ha la certezza di salvargli
la vita? Ora noi abbiamo non solo la speranza ma la certezza di piacere a Dio,
di procurarne la gloria, e nello stesso tempo di salvarci l’anima, quando, per
amor di Dio, c’imponiamo i sacrifici che ci domanda. E non abbiamo per
rinfrancarci gli esempi e gli aiuti dell’Uomo-Dio? Non patì Gesù quanto e più di
noi per glorificare il Padre suo e salvare le anime nostre? E noi, suoi
discepoli, incorporati a lui col battesimo, nutriti del suo corpo e del suo
sangue, esiteremo a patire in unione con lui, per amore di lui, secondo le
stesse sue intenzioni? E non è forse vero che la croce ha i suoi vantaggi,
specialmente per i cuori che amano? “Nella croce sta la salute, dice
l’Imitazione 351-1; nella croce la vita; nella croce la
protezione contro i nemici; nella croce una soavità tutta celeste: “In cruce
salus, in cruce vita, in cruce protectio ab hostibus, in cruce infusio supernæ
suavitatis”
. Concludiamo dunque con S. Agostino: “Per i cuori che amano
non vi sono sacrifici troppo penosi; vi si trova anzi diletto, come si vede in
quelli che amano la caccia, la pesca, la vendemmia, gli affari… Perchè, quando
si ama, o non si patisce o anche qual patimento si ama, aut non laboratur aut
et labor amatur”
 351-2.

E affrettiamoci a progredire, per la via del sacrificio e dell’amore, verso
la perfezione, perchè per noi è un obbligo.

NOTE

332-1 Non si dà quindi un’idea
compita della spiritualità berulliana passandone sotto silenzio la dottrina
sull’abnegazione.

335-1 Matth., XIX, 17, 21.

335-2 I Cor., VII, 25-40.

336-1 Sum. theol.,
IIª IIæ, q. 184, a. 3: “Perfectio essentialiter
consistit in præceptis… secundario
autem et instrumentaliter in
consiliis: quæ omnia sicut et præcepta ordinantur ad caritem”.

341-1 “Nam primo quidem incumbit
homini studium principale ad recedendum a peccato et resistendum concupiscentiis
ejus, quæ in contrarium caritatis movent: et hoc pertinet ad incipientes, in
quibus caritas est nutrienda vel fovenda, ne corrumpatur”. (Sum. theol.,
2ª 2æ, q. 24, a. 9.)

342-1 “Secundum autem studium
succedit ut homo principaliter intendat ad hoc quod in bono proficiat; et
hoc studium pertinet ad proficientes, qui ad hoc principaliter intendunt ut in
eis caritas per augmentum roboretur”. (L. cit.)

343-1 “Tertium autem studium est ut
homo ad hoc principaliter intendat ut Deo inhæreat, et eo fruatur: et hoc
pertinet ad perfectos, qui cupiunt dissolvi et esse cum Christo”. (L.
cit.)


346-1 Denz.-Bann.,
n. 471. — Cfr. P. Pourrat, La Spiritualité chrétienne,
t. II, p. 327-328.

347-1 Denz.-Bann., n. 1221 ss.

348-1 Storia di S. Teresa ricavata
dai Bollandisti,
t. II, c. XXXI, (Lega Eucaristica, Milano).

351-1 Imitazione, l. II, c.12,
v. 2.

351-2 S. August., De bono
viduitatis,
c. 21, P. L., XL, 448.

Quest’edizione digitale preparata da Martin Guy <martinwguy@yahoo.it>.

Ultima revisione: 2 marzo 2006.